Esteri / Attualità
In Palestina la condizione dei diritti umani peggiora. Il report delle Nazioni Unite
Tra novembre 2020 e ottobre 2021 le forze di sicurezza israeliane hanno ucciso 315 palestinesi, tra cui 41 e donne e 77 bambini, e ne hanno feriti 17.597. Nello stesso periodo gli israeliani uccisi per mano palestinese sono stati trenta, di cui due bambini, e 824 feriti. L’Onu denuncia il mancato accertamento delle responsabilità dei crimini
La condizione dei diritti umani nei Territori palestinesi occupati continua a peggiorare. Aumentano le efferatezze, cresce l’uso di munizioni vere da parte delle forze di sicurezza israeliane in Cisgiordania e a Gerusalemme Est, si intensificano le violenze legate alla presenza dei coloni. Di conseguenza sale il numero dei morti e dei feriti: tra il primo novembre 2020 e il 31 ottobre 2021 le forze di sicurezza israeliane hanno ucciso 315 palestinesi, tra cui 41 e donne e 77 bambini, e ne hanno feriti 17.597. Nello stesso periodo gli israeliani uccisi per mano palestinese sono stati trenta, di cui due bambini, i feriti 824.
È lo scenario ricostruito nel rapporto dell’Alto commissariato per i diritti umani delle Nazioni Unite (Ohchr), redatto come previsto dalla risoluzione 46/3 del Consiglio per i diritti umani dell’Onu e pubblicato a fine febbraio 2022, nonostante lo staff dell’Ohchr continui ad essere impossibilitato ad entrare in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza per la negazione del visto da parte di Tel Aviv. In questo quadro di ricorrenti violazioni del diritto e delle leggi internazionali sui diritti umani, due sono gli aspetti di maggior preoccupazione sottolineati nel documento: la diffusa e pervasiva impunità per le violenze commesse e l’aumento delle restrizioni alla libertà di espressione, di associazione e di riunione di coloro che difendono i diritti umani.
Quanto sia difficile ottenere giustizia per un palestinese lo hanno dimostrato i tragici fatti di Gaza del maggio del 2021. In dieci giorni 261 abitanti della Striscia hanno perso la vita sotto le bombe israeliane, 130 di loro erano civili, 41 le donne e 67 bambini, 2.200 sono stati i feriti. Dieci gli israeliani colpiti fatalmente dal lancio di razzi palestinesi durante tutta la durata dell’escalation. L’Ohchr ha documentato una serie di attacchi israeliani che potrebbero aver violato i principi del diritto internazionale di distinzione, proporzionalità e precauzione e il Centro palestinese per i diritti umani ha presentato 57 denunce penali alla Procura generale militare di Israele e 295 denunce civili all’Ufficio “risarcimento” del ministero della Difesa, ma questo non sembra aver determinato l’apertura di alcuna indagine o l’avvio di altri passi per individuare le responsabilità della strage. D’altra parte i razzi e i mortai sparati da gruppi armati palestinesi a Gaza hanno ucciso e ferito civili israeliani e palestinesi e causato danni significativi a case, strutture pubbliche e fabbriche. Anche l’uso di queste armi “costituisce una chiara violazione del divieto di attacchi indiscriminati” secondo gli autori del rapporto, ma nessuna delle informazioni disponibili fa credere che le autorità della Striscia si siano mosse per accertare le responsabilità.
Lo stesso clima di impunità si registra nei casi di uso indiscriminato e illegale delle forza. Tra il primo gennaio 2017 e il 31 ottobre 2021, 428 palestinesi, tra cui 91 bambini, sono stati uccisi dalle forze di sicurezza israeliane in operazioni di polizia nei Territori. L’Onu è a conoscenza di 82 indagini penali aperte in relazione a queste morti: almeno 13 sono state archiviate e cinque hanno portato ad un’incriminazione, che solo in tre casi hanno avuto come esito una condanna. “Queste cifre appaiono in netto contrasto con la politica investigativa israeliana, in vigore dal 2011, secondo la quale le Forze di difesa israeliane sono obbligate ad aprire un’indagine immediata sulle operazioni che in Cisgiordania provocano la morte di una persona” sottolineano gli esperti dell’Onu. E spesso in questi rari casi, le pene non sono affatto commisurate alla gravità della condotta. Inoltre, anche quando vengono aperte delle indagini, i risultati vengono resi pubblici in casi eccezionali, quando ad esempio l’uccisione o il ferimento è stato ripreso da una telecamera o da un video ed è stato al centro del dibattito pubblico.
Durante il periodo preso in esame dall’Alto commissariato per i diritti umani, in Cisgiordania si è registrato un aumento dell’uso ingiustificato e sproporzionato della forza da parte delle forze di sicurezza israeliane nel contesto delle manifestazioni contro l’occupazione militare, l’espansione degli insediamenti e gli sfratti palestinesi, e in risposta ad attacchi o presunti attacchi da parte di palestinesi. Nella maggior parte dei casi monitorati, l’uso della forza non sembrava rispettare i requisiti di legalità, necessità e proporzionalità, avendo spesso come esito uccisioni potenzialmente illegali, comprese in alcune circostanze possibili esecuzioni extragiudiziali.
I casi citati nel rapporto parlano da soli. Il 14 ottobre 2021 le forze di sicurezza israeliane hanno ucciso il 14enne Amjad Abu Sultan dopo avergli sparato, pare senza preavviso, da una distanza ravvicinata mentre stava tentando di accendere una molotov. La polizia sarebbe stata in grado di prevenire questo attacco senza usare mezzi letali ma le autorità militari israeliane non hanno indagato sull’episodio. Il 25 novembre 2020 le forze di sicurezza israeliane hanno sparato e ucciso Nour Shqair, 37 anni, vicino al checkpoint di Az-Zayyem, a est di Gerusalemme. L’uomo aveva colpito con la sua auto un agente dopo che al checkpoint avevano contestato i suoi documenti d’identità, ma quando è sceso con le mani alzate, le forze di sicurezza gli sono corse incontro sparandogli. Il 5 febbraio 2021 il Dipartimento delle indagini interne di polizia del ministero della Giustizia ha notificato alla famiglia la decisione di non aprire un’indagine: la sparatoria è stata effettuata in conformità al protocollo, per il “pericolo reale e immediato” che la vittima aveva rappresentato. Il 13 maggio 2020 le forze di sicurezza israeliane hanno sparato alla testa e ucciso Zaid Qaisiya, 17 anni, mentre si trovava sul tetto di un edificio a 200-300 metri dal luogo in cui era in corso un arresto. L’indagine è stata chiusa perché non sarebbe stato possibile determinare “da quale fuoco” sia stato ucciso il ragazzo, anche se testimoni riferiscono che non c’era alcuno scontro in corso. Con la stessa motivazione non è stata accertata alcuna responsabilità per il ferimento di Abd el-Shatawi, che aveva 9 anni nel luglio 2019 quando è stato raggiunto alla testa da proiettili israeliani e da allora giace in stato vegetativo in ospedale.
Le stesse dinamiche si sono registrate a Gaza nel contesto delle manifestazioni che si sono svolte tra il marzo 2018 e dicembre 2019 nell’ambito della “Grande marcia del ritorno”. Il centro per i diritti umani Al Mezan ha riferito agli esperti dell’Onu che l’avvocatura militare di Israele ha comunicato che nessun indagine è stata avviata rispetto alle denunce presentate per l’uccisione dei palestinesi avvenute in questo periodo. Anche le autorità palestinesi sono responsabili di un’escalation nell’uso della violenza da parte delle forze di sicurezza che ha portato all’uccisione di due civili in Cisgiordania e altrettanti a Gaza e anche in questo caso è difficile arrivare ad accertare le responsabilità per questi crimini, in particolare per quelli legati al genere. Durante il periodo preso in esame, l’Ohchr ha registrato 26 uccisioni (16 donne e 10 ragazze) che potrebbero essere considerati femminicidi, cinque in Cisgiordania e 11 a Gaza. Di questi 14 sono stati archiviati come morte per suicidio, accidentale o morte in circostanze non chiarite.
Un altro triste capitolo del documento riguarda i casi di maltrattamento, alcuni dei quali riconducibili alla tortura, dei palestinesi che si trovano nelle strutture di detenzione israeliane. Secondo il Comitato pubblico contro la tortura in Israele, su oltre 1.300 denunce presentate al ministero della Giustizia di Israele dal 2001, sono state aperte solo due indagini penali, entrambe archiviate. Emblematico il caso di Samer al-A’rbeed, arrestato per il suo presunto coinvolgimento nell’attacco di Ein Bubin nel 2019, è stato ricoverato due giorni dopo il suo arresto con ferite quasi mortali, dovute presumibilmente alle torture subite durante la detenzione. L’indagine è stata chiusa per mancanza di prove e la autorità israeliane hanno rifiutato di condividere le informazioni sui “metodi speciali di interrogatorio” utilizzati. Anche il procedimento su due perquisizioni forzate dei genitali di una donna detenuta nel 2015, paragonabili ad un’aggressione sessuale, è stato archiviato nell’aprile del 2021.
Questi casi, secondo i relatori Onu, sollevano delle “serie preoccupazioni sui metodi di interrogatorio usati dalle forze di sicurezza di Israele, applicati in spregio al divieto assoluto e inderogabile della tortura”. Episodi gravi accadono anche sotto la custodia delle autorità palestinesi: la Commissione indipendente per i diritti umani ha ricevuto 141 denunce, di cui otto da donne, di maltrattamenti o tortura. La commissione di giustizia delle forze di sicurezza palestinesi ha riferito di aver aperto indagini su cinque casi di presunti maltrattamenti o torture da parte delle forze di sicurezza palestinesi tra il primo gennaio e il 31 ottobre 2021. Nonostante l’impegno pubblico assunto dall’Anp di dare seguito alle denunce di tortura e maltrattamento, l’istituzione di un meccanismo nazionale di prevenzione è rimasta lettera morta.
Con queste premesse appare ancor più drammatica la lunga serie di azioni intraprese da Israele per mettere a tacere i difensori dei diritti umani e le organizzazioni della società civile che si battono per i diritti dei palestinesi. Lo scorso luglio due di queste realtà sono state dichiarate illegali, ad ottobre il ministero della Difesa ha classificato come organizzazioni terroristiche sei associazioni umanitarie palestinesi e 16 difensori dei diritti umani sono stati arrestati. Si tratta di soggetti che per decenni si sono battuti per portare assistenza e garantire diritti nei territori occupati, anche il collaborazione con le Nazioni Unite. Accuse che secondo l’Alto commissariato per i diritti umani non hanno alcun riscontro nella realtà: nessuna prova è stata fornita del presunto legame con il Fronte di liberazione popolare della Palestina e secondo l’avvocato di uno degli ex dipendenti, la cui testimonianza rappresenta la fonte principale dell’accusa, il suo cliente sarebbe stato sottoposto a privazione del sonno, a lunghe e dure sessioni di interrogatorio in posizioni di forti stress e gli è stato fatto credere che i membri della sua famiglia erano stati arrestati; oltre ad essere stato tenuto in isolamento per la maggior parte dei 56 giorni del suo interrogatorio e a non aver mai potuto avvalersi della presenza di un avvocato. “Questo fa pensare che Israele utilizzi la legge antiterrorismo per fermare, limitare o criminalizzare il lavoro umanitario -si legge nel rapporto-. Queste misure, che si aggiungono a una serie di azioni che minano le organizzazioni della società civile che lavorano per i diritti umani dei palestinesi, costituiscono un attacco ai difensori dei diritti umani e inibiscono seriamente le libertà di associazione, di opinione e di espressione e il diritto alla partecipazione pubblica”. Diritti che anche l’Anp fatica a riconoscere e garantire, come dimostrano le pressioni portate avanti attraverso arresti, incriminazioni e processi giudiziari prolungati, ma anche le leggi che limitano fortemente queste libertà.
Le conclusioni degli esperti dell’Onu sono chiare per tutti i soggetti coinvolti. L’invito al governo di Israele e all’Autorità nazionale palestinese è innanzitutto quello di “condurre indagini rapide, indipendenti, imparziali, complete, efficaci e trasparenti su tutte le presunte violazioni del diritto internazionale in materia di diritti umani e del diritto umanitario internazionale, comprese le accuse di crimini internazionali” e di garantire a tutte le vittime e alle loro famiglie “risarcimenti che tengano conto dei fatti commessi e della verità”. La seconda richiesta rivolta al governo di Tel Aviv è quella di archiviare le accuse contro le Ong in assenza di prove concrete e di garantire che i difensori dei diritti umani non vengano detenuti, accusati e condannati in relazione al loro legittimo lavoro. La terza sollecitazione alle autorità israeliane è quella di riprendere la cooperazione con l’Ohchr. Alcune esortazioni sono rivolte anche ai Paesi terzi, che possono avere un ruolo determinante nel garantire ai palestinesi una vita dignitosa.
“Tutti gli Stati sono invitati a prendere tutte le misure necessarie per garantire efficacemente il rispetto delle Convenzioni di Ginevra del 12 agosto 1949, tenendo conto dei mezzi di cui possono ragionevolmente disporre e del loro livello di influenza sulle parti”. L’Ohchr ribadisce anche l’invito a tutti gli Stati e agli organi competenti delle Nazioni Unite ad “adottare le misure necessarie per garantire il pieno rispetto e l’osservanza delle risoluzioni del Consiglio di sicurezza, dell’Assemblea generale e del Consiglio per i diritti umani”. Un appello forse destinato a cadere nel vuoto. Quando l’organizzazione, in vista della stesura del rapporto, ha anche chiesto agli Stati membri delle Nazioni Unite di fornire informazioni sulle misure in quanto Stati terzi per promuovere il rispetto del diritto internazionale e attuare le raccomandazioni loro rivolte, hanno risposto solo Cuba, Spagna e Tunisia.
© riproduzione riservata