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Ritorno al campo di Shatila 40 anni dopo il massacro dei palestinesi

I profughi palestinesi in Libano sono ancora intrappolati in un limbo fatto di emarginazione sociale e mancanza di servizi di base. Una situazione resa ancora più grave dalla crisi economica del Paese

Tratto da Altreconomia 245 — Febbraio 2022

“A Shatila si cresce presto e l’ombra della morte è una presenza costante”. A parlare è Jamila Shehade, direttrice del centro Beit Atfal Assumoud a Shatila, una delle principali organizzazione umanitarie palestinesi che opera in Libano. Il centro dell’organizzazione si trova in uno degli stretti vicoli che dal groviglio di banchi di frutta e verdura che si snoda sulla via principale immettono nel dedalo di strade laterali, in cui si svolge gran parte della vita degli abitanti del campo. A quasi quarant’anni da uno degli eccidi più crudeli del secondo dopoguerra, il silenzio e il distacco dal mondo esterno continuano a segnare la vita della centinaia di migliaia di palestinesi che ancora oggi vivono a Shatila e negli altri campi a Sud di Beirut e nel resto del Paese. Robert Fisk fu uno dei primi giornalisti a entrare nei campi di Sabra e Shatila il 18 settembre del 1982 e a raccontare come “furono le mosche” le prime testimoni del massacro e della devastazione di cui si resero colpevoli le Falangi libanesi (un gruppo armato a prevalenza cristiano-maronita) con il sostegno e la complicità dell’esercito israeliano. In tre giorni -tra il 16 e il 18 settembre- migliaia di civili, donne e bambini palestinesi furono trucidati per mano delle milizie libanesi che entrarono nei campi con il solo scopo di compiere una strage.

Fisk è stato tra i primi a raccontare il massacro, ma anche a parlare dell’omertà e del distacco emotivo dimostrati dagli ufficiali dell’esercito israeliano nei confronti della brutalità perpetrata dalle Falangi. Falliti miseramente i tentativi di restituire verità e giustizia ai familiari delle vittime, a Shatila e nel resto dei campi si vive ancora da invisibili.

Il Libano non ha mai aderito alla Convenzione di Ginevra del 1951 e non riconosce ai palestinesi (né ai siriani) lo status di rifugiato. A distanza di oltre 70 anni dal loro arrivo nel Paese dei cedri, i palestinesi sono ancora trattati come estranei e, non avendo la possibilità di fare ritorno alla loro terra, vivono intrappolati in un limbo in cui l’emarginazione sociale, la mancanza di servizi e dei diritti più basilari sono realtà con cui fare i conti ogni giorno. Il campo di Shatila si trova nella parte Sud-occidentale di Beirut, a poche centinaia di metri dalla green line che nel corso della guerra civile separava la parte musulmana da quella cristiana. In linea d’aria, il campo non è lontano dai locali serali del quartiere Badaro e dalle prestigiose abitazioni di Achrafie in cui risiede gran parte degli espatriati. Alla poca distanza fisica fa però da contraltare l’abisso esistenziale che separa Shatila dalla Beirut “libanese”. 

Il campo di Shatila è stato istituito ufficialmente nel 1949 a Sud di Beirut per accogliere i profughi palestinesi che, tra il 1947 e il 1948, avevano lasciato le proprie terre, occupate dall’esercito israeliano. Il campo venne raso al suolo dai miliziani delle Falangi libanesi tra il 16 e il 18 settembre 1982. Il numero delle vittime non è mai stato appurato con certezza, secondo il giornalista Robert Fisk le milizie provocarono la morte di 1.700 persone

La costruzione del campo risale al 1949 quando, per iniziativa del Comitato internazionale della Croce Rossa, si decise di dare rifugio alle centinaia di migranti che erano confluiti a Beirut dai villaggi settentrionali della Palestina. Ricostruito dopo il massacro del 1982, il campo di Shatila presenta ancora oggi gravissimi problemi igienico-sanitari. Il sistema fognario è inadeguato e il sistema di smaltimento di rifiuti è pressoché inesistente. Con le violente piogge invernali le strade si allagano con estrema facilità e per diversi mesi l’anno la popolazione è costretta a convivere con le continue inondazioni delle strette vie del campo. Con l’aumento della popolazione e a causa dello spazio limitato gli edifici si sono sviluppati verso l’alto, e il passaggio negli angusti vicoli interni può essere fatale per via dei massi pericolanti chi si trovano sui tetti delle abitazioni e dei fili elettrici che pendono ad altezza d’uomo. Negli ultimi due anni la grave crisi economica libanese ha causato un’impennata dei prezzi, e oggi il gas (da cui dipendono i generatori e quindi l’elettricità) è diventato pressoché inaccessibile per gran parte delle famiglie del campo.


Anche il prezzo dell’acqua, per lo più fredda e salata, è aumentato considerevolmente. Reperire medicine, poi, è diventato una vera impresa. Il tasso di disoccupazione è in continua crescita, e molti palestinesi a Shatila vivono di lavori occasionali nei mercati di frutta e verdura o nei servizi di pulizia. In un contesto di tale gravità, gli aiuti umanitari e il supporto sociale e psicologico che le organizzazioni non governative forniscono ogni giorno alla popolazione diventano essenziali per mantenere accesa una flebile luce di speranza e di riscatto. L’Unrwa, l’Agenzia delle Nazioni Unite nata per fornire assistenza umanitaria ai rifugiati palestinesi in Medio Oriente, svolge un lavoro indispensabile a Shatila e negli altri campi con una rete di scuole e cliniche che fanno capo al quartiere generale che si trova nei pressi dell’aeroporto Rafik Hariri, a Sud di Beirut.

Negli ultimi due anni la grave crisi economica libanese ha causato un’impennata dei prezzi e oggi il gas è diventato pressoché inaccessibile per molte famiglie del campo

Tra le varie organizzazioni locali che si sono formate nel corso degli anni il National institution of social care and vocational training, meglio conosciuta nei campi palestinesi come Beit Atfal Assumoud, ricopre un ruolo di primo piano. Nata nel 1976 dopo il massacro di Tal el-Zaatar per assistere centinaia di palestinesi rimasti orfani, l’organizzazione negli anni si è consolidata diventando un punto di riferimento sia a Shatila sia negli altri campi sorti nella periferia delle principali città libanesi. A Shatila il centro operativo di Beit Atfal Assumoud è stato istituito invece nel 1984. Una delle missioni originarie è proprio quella di ricreare strutture familiari per i bambini orfani attraverso l’affidamento e il sostegno psicologico e materiale. Il nome dell’organizzazione richiama alla sumud, cioè alla fermezza e alla perseveranza che per il popolo palestinese costituiscono un valore culturale fondamentale. “I nostri operatori sociali credono in quello che fanno”, spiega Jamila Shehade, che è nell’organizzazione dall’inizio e ha dedicato la propria vita al lavoro umanitario: “Non facciamo questo mestiere per denaro, siamo palestinesi e lavoriamo per la nostra gente”. Negli anni l’organizzazione ha iniziato a fornire assistenza anche ai libanesi e ai siriani giunti nel Paese a partire dallo scoppio della guerra nel 2011, ma la missione originaria resta quella di dare supporto al popolo palestinese. 

Il cimitero dei martiri islamici di Beirut. Nel campo di Shatila operano sia l’Agenzia Unrwa delle Nazioni Unite, sia l’associazione Beit Atfal Assumoud che svolgono un ruolo essenziale per garantire assistenza umanitaria ai rifugiati palestinesi © Lorenzo Giovannetti

Il centro operativo di Shatila comprende una scuola per bambini dai tre ai nove anni divisi per classi di età, una clinica dentistica, un servizio di sostegno agli anziani, attività di recupero scolastico e laboratori artistici. Lo scoppio della pandemia da Covid-19 ha reso il lavoro dell’organizzazione più difficile. “Non abbiamo mai chiuso, per le famiglie era importante che noi rimanessimo aperti per avere un punto di riferimento”, aggiunge Shehade. Per mesi le lezioni si sono tenute da remoto, e molti bambini hanno faticato a seguirle a causa della mancanza di computer e di una connessione non sempre adeguata. Da settembre è ripresa l’attività in presenza e per creare maggiore consapevolezza sulla tematica del Covid-19 si tengono riunioni settimanali con le famiglie. Lo scorrere del tempo viene scandito da giornate di commemorazione, dolore e orgoglio, e a Shatila la felicità e la speranza si trovano nelle piccole cose. La cura per la propria casa diventa così un elemento centrale per chi cerca di mantenere intatta la propria dignità. A oltre 70 anni dalla nakba (l’esodo della popolazione palestinese del 1947-48) sono rimaste poche le voci di chi ha vissuto sulla propria pelle l’allontanamento dalla Palestina.

Con l’emergere delle nuove generazioni i racconti orali assumono sempre più importanza, e le commemorazioni che si tengono ogni anno in coincidenza degli eventi che hanno segnato la storia dell’esodo aiutano a mantenere viva la memoria e a rinforzare il rapporto spirituale con la Palestina. Immigrati da decenni e mai diventati veramente parte integrante del Paese, per i palestinesi in Libano l’amore per la patria e il sogno del ritorno rimangono come unica sorgente di forza e di speranza. Ma per chi ha dedicato la vita a lottare per i diritti del proprio popolo in esilio, una delle missioni più ardue resta quella di rompere il muro di silenzio e indifferenza che ancora oggi rende invisibile, al resto del mondo, il destino di chi vive nei campi. 

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