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In montagna lo sviluppo sostenibile non passa solo dal turismo lento

Uno scorcio della Valpelline: qui gli impianti di risalita non sono mai arrivati e oggi gli abitanti non li vogliono © Francesca Belotti

Il cambiamento climatico renderà sempre più difficile praticare lo sci, mettendo in crisi l’economia di intere valli. Non mancano modelli alternativi a cui guardare, che mettono al centro lo sviluppo delle comunità locali e il rapporto con le città

Tratto da Altreconomia 247 — Aprile 2022

In Valpelline, una valle circondata da vette imponenti che toccano i quattromila metri, gli impianti di risalita non sono mai arrivati. “Negli anni Ottanta pensavamo di aver perso un treno: c’era la convinzione che non fosse possibile fare sviluppo attorno a un turismo diverso”, racconta ad Altreconomia Daniele Pieiller, titolare del ristorante bed and breakfast Alpe Rebelle in provincia di Aosta. Solo con il passare del tempo gli abitanti di questa piccola valle hanno acquisito la consapevolezza che l’ambiente incontaminato avrebbe potuto diventare un punto di forza per promuovere turismo alternativo dalla “monocoltura” dello sci. 

Nel 2012 Piellier e altri residenti hanno dato vita all’associazione NaturaValp che promuove un turismo lento e rispettoso del territorio, organizzando trekking e ciaspolate, escursioni con gli asini e scialpinismo. I turisti alloggiano in piccoli alberghi e rifugi gestiti dagli abitanti della valle, che operano in stretta sinergia con agricoltori e allevatori locali per valorizzare le produzioni autoctone. L’obiettivo è quello di attrarre visitatori che trascorrono lunghi periodi sul territorio e che ritornano, anno dopo anno.

Una filosofia che ha portato buoni risultati in pochi anni: “Tra il 2012 e il 2017 le presenze sono aumentate del 70%, per noi è stato un risultato importante -spiega Pieiller-. Il nostro è un turismo di visione e non è legato a quelle che io definisco ‘giostre’ come il progetto di una seggiovia o i grandi eventi. Tutto ciò che può attirare grandi flussi o il turismo di giornata, che non lascia risorse sul territorio, è da evitare in valli come la nostra”. Coerentemente quattro anni fa l’associazione ha detto “no” anche all’attivazione di servizi di eliski che prevedono l’uso di elicotteri per portare in quota piccoli gruppi di sciatori che poi si lanciano in discese fuoripista. 

L’esperienza della Valpelline può rappresentare un modello a cui guardare in questo Anno internazionale dello sviluppo sostenibile delle montagne, proclamato dalle Nazioni Unite appunto per il 2022. Un modello di sviluppo alternativo a quello prevalente sulle montagne italiane, basato sul turismo di massa e in particolare sullo sci da discesa. Un’industria su cui poggia l’economia di intere vallate: secondo le stime del dossierNevediversa” di Legambiente, allo sci sono legati circa 400mila posti di lavoro tra diretto e indotto per un fatturato di 10-12 miliardi di euro. Per contro, i costi ambientali sono altissimi: sulle montagne italiane sono presenti 6.700 chilometri di piste e 1.500 impianti di risalita. Solo nell’area delle Dolomiti (tra Bolzano, Trento e Belluno) operano 12 comprensori sciistici che necessitano l’uso di 6mila innevatori e 190 tra bacini e vasche per la raccolta idrica.

Un dipendente dell’azienda agricola “Fratelli Jordaney”, una delle realtà che nel 2012 ha dato vita all’associazione NaturaValp che promuove un turismo lento e rispettoso del territorio © Francesca Belotti

“Quella dello sci da discesa è un’industria turistica destinata al declino: il cambiamento climatico ha ridotto le precipitazioni nevose -sottolinea Maurizio Davolio dell’Associazione italiana turismo responsabile (Aitr)-. Per contro, sulle nostre montagne sono in atto tanti cambiamenti: quelli più vistosi sono legati ai cammini e al cicloturismo. Nell’area appenninica si stanno sviluppando forme di agricoltura che si concentrano su prodotti di nicchia ma di alta qualità. E che hanno una duplice funzione rispetto al turismo: da un lato fornisce i prodotti e dall’altro funge da fattore di attrazione”.

“Il nostro è un turismo di visione e non è legato a quelle che io definisco ‘giostre’ come il progetto di una seggiovia o i grandi eventi” – Daniele Pieiller

È il caso, ad esempio, della cooperativa di comunità “Valle dei cavalieri” di Succiso, frazione del comune di Ventasso in provincia di Reggio Emilia. La sua storia è simile a quella di tanti altri borghi appenninici che, dagli anni Cinquanta del Novecento, hanno vissuto lo spopolamento e la dismissione progressiva dei servizi. A fine anni Ottanta a Succiso era rimasto aperto solo un bar. Oreste Torri e altre 24 persone originarie del piccolo Comune non si sono rassegnati al declino e nel 1991 hanno dato vita a una cooperativa che prima ha aperto un bar e negli anni successivi ha riattivato il mini-market, il ristorante, il panificio e l’attività ricettiva. Nel 1998 la cooperativa ha acquistato un gregge di pecore che oggi conta 240 capi e avviato la produzione di pecorino, ha preso in gestione il servizio di trasporto scolastico e il centro visita del Parco nazionale dell’Appennino reggiano.

“Per i primi tre anni siamo andati avanti a forza di volontari, nel 1994 abbiamo assunto il primo socio-lavoratore”, ricorda Torri. Oggi i dipendenti sono sette e altri cinque lavoratori stagionali si aggiungono nei mesi estivi, il caseificio produce 80 quintali di pecorino e dieci di ricotta l’anno mentre il ristorante, che da sempre usa prodotti locali, cucina circa 17mila pasti l’anno. Uno degli ultimi investimenti, in ordine di tempo, è l’installazione di un impianto fotovoltaico per l’autoconsumo dell’energia elettrica. Le difficoltà in questi anni non sono mancate: “Per chi lavora in montagna come noi, i costi sono più elevati del 20-30% rispetto a chi vive in pianura -sottolinea-. Se si vogliono incentivare aziende e cooperative come la nostra a investire nei territori di montagna serve una fiscalità diversa”.

Il ristorante gestito dalla cooperativa Valle dei cavalieri a Succiso © Cooperativa valle dei cavalieri

Un tema, quello della fiscalità, su cui insiste anche Filippo Barbera, professore di Sociologia economica presso il Dipartimento di Culture politica e società dell’Università di Torino e membro dell’associazione Riabitare l’Italia: “Il nostro è un Paese di montagna che si è dimenticato di esserlo: le aree montane sono rimaste a lungo ai margini della narrazione pubblica e dello sviluppo -sottolinea-. Per progettare sviluppo sostenibile in queste aree è necessario tenere presente che la montagna non è in grado di assorbire i grandi flussi: si deve lavorare sulla qualità e sui piccoli numeri per incentivare le persone a restare sul territorio anzitutto come abitanti e poi sostenere i cosiddetti ‘ritornanti’ o i ‘nuovi montanari’ ad avviare nuove attività. Per innescare questi cambiamenti serve l’accesso agli asset produttivi e di cittadinanza, dalle terre ai servizi come scuola, sanità e trasporti. Servono interventi per la vita quotidiana delle persone. Oltre a una fiscalità di vantaggio che sostenga l’attività di chi apre un panificio in una valle poco abitata”. Ma soprattutto, insiste Barbera, serve costruire un legame tra città e montagne, all’insegna del riconoscimento paritario.

“Serve lavorare sulla qualità e sui piccoli numeri per incentivare le persone a restare sul territorio e sostenere i ‘ritornanti’ ad avviare nuove attività” – Filippo Barbera

Un esempio positivo in questo senso è l’alleanza che si è costruita negli ultimi anni tra i Gruppi d’acquisto solidale di Milano e il GPS-Gruppo di produttori solidali Monti della Laga che riunisce piccoli allevatori e produttori agricoli delle aree interne tra Lazio, Marche e Abruzzo. Territori duramente segnati dai terremoti del 2009 e del 2016, dalla lentezza della ricostruzione. “Le persone se ne vanno quando perdono la speranza, non quando perdono le risorse”, riflette Alessandro Novelli, titolare di un’azienda che alleva vacche da montagna a Montereale (AQ), uno dei promotori dell’iniziativa: “Nel 2016 abbiamo dato vita a una rete di imprese agricole, oggi siamo in 12: abbiamo allevamenti, laboratori di trasformazione, caseifici e salumifici. Vendiamo i nostri prodotti ai Gas perché crediamo in un modello che non alimenti la grande distribuzione organizzata, ma la ricchezza del territorio”. Il progetto del GPS prevede anche un elemento ulteriore: il rifiuto della logica dell’indebitamento. “Del resto, dopo la perdita quasi totale delle infrastrutture a causa del terremoto ci mancavano le garanzie: non eravamo ‘affidabili’ per le banche”, sottolinea Novelli. La soluzione adottata è stata quella di condividere i mezzi e gli strumenti di produzione: “Ciascuno di noi aveva dei capitali ‘residui’: chi un capannone, chi il caseificio ancora funzionante, chi furgoni per le consegne -spiega-. Abbiamo deciso di condividerli all’interno della rete”.

A portare cambiamento nelle valli alpine e appenniniche non sono “i restanti”, ma anche molti giovani che lasciano le città dove sono cresciuti o i “ritornanti” come Annalisa Spalazzi, ricercatrice presso il Gran Sasso Science Institute e co-responsabile del festival del turismo responsabile IT.A.CÀ Sasso Simone e Simoncello: “Sono una di quei giovani che a 18 anni è fuggita dalla montagna e si è trasferita in città. Per poi ritornare da dove era partita”. Da qualche mese ha scelto di far parte di una piccola comunità formata da una quindicina di giovani tra i 25 e i 40 anni che hanno scelto di vivere a Pennabilli, borgo di 2.500 abitanti nella parte più interna della provincia di Rimini. A fare da catalizzatore per i giovani “ritornanti” e “arrivanti” è stata l’associazione “Chiocciola la casa del nomade”. “Il punto di partenza è un progetto educativo che, a partire dal paesaggio propone percorsi con le scuole, attività formative a contatto con la natura, educazione alla ruralità e alla sostenibilità -spiega Spalazzi -. Dal 2015, Chiocciola ha preso in gestione il museo naturalistico e il centro di educazione ambientale dell’ente parco Sasso Simone e Simoncello nel cuore del Montefeltro, da cui continuano ad attivarsi nuove progettualità”. 

“Da 15 anni assistiamo a una crescente domanda di montagna -aggiunge Andrea Membretti è professore a contratto di Sociologia del territorio all’Università di Pavia e membro di Riabitare l’Italia-. Sono state avviate molte esperienze da piccole cooperative, singoli e famiglie che sono tornate ad abitare le terre alte. Il limite che vedo in alcune di queste iniziative è la capacità di espandersi e alla loro sostenibilità economica”. Un’altra sfida, secondo Membretti è quella di costruire modelli di sviluppo sostenibile che vadano al di là dell’esperienza turistica, scommettendo su progettualità diverse, come la gestione del patrimonio forestale o sulla produzione di energie da fonti rinnovabili. “Un progetto a cui stiamo lavorando -conclude- prevede il recupero delle ex colonie elioterapiche per trasformarle in spazi dove accogliere durante i mesi estivi, quando le città diventano roventi, la popolazione più anziana che soffre più di altre le conseguenze dell’innalzamento delle temperature”. 

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