Diritti / Approfondimento
In Italia si fa ancora poco per prevenire i matrimoni forzati
È passato quasi un anno dalla scomparsa della diciottenne pakistana Saman Abbas. In questi dodici mesi non sono state fatte campagne di sensibilizzazione e formazione su questo fenomeno. E mancano luoghi di accoglienza dedicati
Quando gli insegnanti di Fatima hanno capito che qualcosa non andava hanno allertato i servizi sociali che, nel giro di qualche giorno, hanno bussato alla porta di casa. Messi in allerta da questa visita, i genitori della ragazza hanno accelerato i preparativi per il matrimonio della figlia e l’hanno costretta a partire in tutta fretta per il Pakistan dove Fatima è stata costretta a sposare un uomo più anziano di lei e che non aveva mai visto. Un uomo violento.
“Avrebbe dovuto poi trasferirsi in un altro Paese ma è riuscita a fare tappa in Italia con la scusa di salutare la famiglia -racconta Monica Miserocchi, avvocata dell’associazione Trama di Terre di Imola (BO), la prima in Italia a occuparsi del fenomeno dei matrimoni forzati-. Nel frattempo ha preso contatto con i suoi insegnanti, che si sono rivolti a noi e abbiamo organizzato la sua fuga”. Anche per Zayn la scuola è stata la salvezza: grazie ai suoi professori ha evitato il ritorno in Pakistan e si è rivolta a un tribunale per ottenere giustizia. Safia, invece, viene dall’Afghanistan, ma il suo comportamento è troppo “occidentale” per i suoi fratelli che decidono di farla ritornare nel Paese d’origine per darla in sposa. “In questo caso gli assistenti sociali sono intervenuti su segnalazione degli insegnanti, con cui Safia si era confidata, e della polizia -spiega Miserocchi-. La denuncia è scattata per il reato di maltrattamenti in famiglia: era il 2016 e non era ancora entrato in vigore il cosiddetto ‘Codice rosso’. La sentenza di condanna di primo grado è arrivata nel 2019 ma ci vorranno altri due anni per avere l’esito dell’appello”.
Fatima, Zayn e Safia sono nomi falsi che proteggono le identità di tre ragazze di origine straniera, vittime o potenziali vittime di matrimonio forzato. Un reato che il nostro ordinamento ha riconosciuto nel 2019 con l’entrata in vigore della legge 69 -il “Codice rosso” appunto- che introduce importanti modifiche al codice penale e al codice di procedura penale, punendo con le reclusione da uno a cinque anni chiunque “costringe, con violenza o minaccia, una persona a contrarre un matrimonio o un’unione civile”.
Proprio il rifiuto ad accettare un matrimonio organizzato dai genitori sarebbe costato la vita a Saman Abbas, giovane di origine pakistana scomparsa a Novellara (RE) la sera del 30 aprile 2021: la ragazza, probabilmente, sarebbe stata assassinata dai suoi familiari e il suo corpo non è mai stato ritrovato. Per questo motivo il 22 aprile 2022 la procura di Reggio Emilia ha chiesto il rinvio a giudizio per i genitori di Saman (fuggiti in Pakistan subito dopo la sparizione della ragazza e attualmente latitanti), due cugini e uno zio, indagati per omicidio e soppressione di cadavere.
Ma a dodici mesi di distanza dalla scomparsa di Saman poco sembra essere cambiato per quanto riguarda gli interventi di prevenzione dei matrimoni forzati. “Siamo di fronte a un vuoto di informazioni. In questo anno non ci sono stati momenti di confronto istituzionali, né è partita una campagna nazionale di comunicazione rivolta alle giovani donne di origine straniera, che le informi sui loro diritti e sugli strumenti a disposizione per chiedere aiuto. Quante di loro sanno, ad esempio, che una volta rientrate nel Paese d’origine possono rivolgersi al consolato italiano anche se non hanno la cittadinanza? -commenta Tiziana Dal Pra, fondatrice di Trama di terre-. Penso anche agli insegnanti: alcune settimane fa sono stata contattata da una docente che lavora in una grande città e non sapeva cosa fare di fronte al caso di una ragazzina bengalese ‘sparita’ da scuola all’improvviso. Questo è molto grave”.
Altrettanto preoccupata è Giulia Schiavoni, responsabile del programma Genere e diritti umani dell’associazione Non c’è pace senza giustizia: “Non possiamo dire che ci sia una strategia nazionale di contrasto a questo fenomeno. Inoltre, mancano i dati che permettano di monitorarlo e questo non permette di mettere a punto strategie di intervento efficaci”. Gli unici dati a disposizione sono quelli forniti dal ministero dell’Interno in un report che registra i casi di matrimoni forzati denunciati tra la metà del 2019 (quando è entrato in vigore il “Codice rosso”) e la fine del 2021: 35 in tutto. Sette negli ultimi quattro mesi del 2019, otto nel 2020 e venti nel 2021. Le vittime sono in larga maggioranza di sesso femminile e in quattro casi su dieci hanno un’età compresa tra i 18 e i 24 anni; il 27% ha tra i 14 e i 17 anni. Numeri estremamente ridotti e che rappresentano solo la punta dell’iceberg di un fenomeno molto più ampio ma ancora difficile da fotografare con precisione.
L’introduzione del “Codice rosso” ha rappresentato un punto di svolta per perseguire i genitori e i familiari che vogliono costringere le ragazze a un matrimonio combinato. “Questa norma ci permette, per la prima volta, di contestare la specifica fattispecie del matrimonio forzato: in passato, per casi analoghi, dovevamo contestare altri reati, come i maltrattamenti -spiega l’avvocata Miserocchi-. Un’altra importante novità della norma è data dal fatto che è possibile procedere anche quando la vittima è di origine straniera e il reato viene commesso all’estero. Cosa che in precedenza era possibile fare solo per le ragazze con cittadinanza italiana”. La norma, tuttavia, presenta alcuni limiti: in primis non riconosce il matrimonio forzato ai danni di ragazze minorenni come reato a sé, ma come aggravante. Inoltre, il nuovo delitto non è menzionato tra quelli che prevedono l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato. Sempre dal punto di vista normativo, un’altra novità positiva è rappresentata dall’approvazione alla Camera il 5 aprile 2022 della cosiddetta “Legge Saman” che inserisce il matrimonio forzato tra i reati che prevedono il rilascio del permesso di soggiorno.
Buone leggi, tuttavia, non sono sufficienti a prevenire ed evitare i matrimoni forzati. Una delle principali criticità rilevate dalle associazioni e dalle realtà che da anni assistono le giovani in fuga è la mancanza di luoghi adatti per la loro accoglienza, in grado di assicurare una presa in carico adeguata, bilanciando i bisogni delle ragazze con l’esigenza di garantire l’adeguata protezione: “Sono tantissime le ragazze che dopo alcune settimane non ce la fanno più e lasciano i percorsi protetti: dobbiamo interrogarci sul perché questo succede”, riflette ancora Tiziana Dal Pra.
L’iter prevede che una ragazza in fuga da una famiglia che la vuole costringere a sposarsi solitamente venga collocata all’interno di luoghi e case protette che garantiscono buona protezione e sicurezza. Ma le condizioni di vita all’interno di queste strutture spesso sono difficili da sopportare per delle adolescenti o giovanissime donne: viene tolto loro il cellulare per evitare possibili contatti che potrebbero metterle a rischio, le uscite sono poche e sempre accompagnate da un’operatrice, i contatti con amici e familiari vengono azzerati. L’obiettivo è ridurre al minimo la possibilità che le famiglie riescano a contattarle per convincerle, con false promesse, a tornare a casa.
“Arrivano spesso lettere e messaggi in cui i genitori affermano di aver compreso i desideri della figlia e si dicono disposti ad accettare le sue richieste. Questo è il momento più pericoloso: non dobbiamo dimenticarci che si tratta di ragazze molto giovani, spesso minorenni. Nel momento in cui fuggono si lasciano alle spalle tutto il loro mondo, tutti i loro affetti e le loro amicizie”, spiegano ad Altreconomia Mirca e Cornelia operatrici dell’associazione Gea di Bolzano che gestisce un centro antiviolenza e la Casa delle donne. A questo si aggiunge il fatto che i percorsi di presa in carico sono molto lunghi (anche due anni) e la condizione di segretezza spesso deve essere mantenuta per diversi mesi: “La fuga lascia in molte di queste ragazze un vuoto emotivo enorme, quasi incolmabile. Devono iniziare, letteralmente da zero, un nuovo capitolo della loro vita -aggiungono le operatrici-. Inoltre, devono fare i conti il senso di colpa: sono consapevoli del fatto che la loro fuga danneggia ‘l’onore’ della famiglia e che questo mette in pericolo le sorelle o la madre”.
Sottoposte a una pressione così forte molte ragazze non reggono, cedono alle promesse della famiglia e tornano a casa. “Non si può pensare di risolvere il problema mettendole in una ‘scatola’ -dice l’operatrice di una casa rifugio a indirizzo segreto, che ha accolto alcune di queste giovani e che chiameremo Maria-. Hanno bisogno di protezione e al tempo stesso di un percorso di accompagnamento: un progetto che le aiuti a crescere e riempia i vuoti emotivi e di relazione lasciati dalla fuga”. Una possibile alternativa alle case rifugio sono le comunità per adolescenti, che però non offrono sufficienti garanzie dal punto di vista della sicurezza. “Finora si è pensato che fosse sufficiente allontanare la ragazza il più possibile dal contesto familiare, ma è chiaro che questo non basta: servono strutture specifiche”, sottolinea Maria.
Centri specializzati, in grado di offrire un adeguato livello di sicurezza e al tempo stesso percorsi di accompagnamento a queste ragazze così fragili al momento non esistono in Italia. Così come mancano altri “strumenti concreti di tutela”, come li definisce Cornelia di Gea, ad esempio la possibilità di iscriverle a scuola con un nome diverso da quello anagrafico. “Non possiamo lasciarle in un limbo per mesi, devono poter fare cose e svolgere attività che diano un senso alle loro giornate -conclude-. Senza scontrarsi con i limiti e gli ostacoli posti dallo stesso sistema che le dovrebbe proteggere. Oggi siamo costrette a scegliere tra la sicurezza e queste attività. Non dovrebbe essere così”.
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