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Il caso di Halili Elmahdi e lo stato dell’arte della deradicalizzazione dentro e fuori dal carcere

Dal post di fine maggio del ministero dell'Interno dopo l'arresto di Halili Elmahdi © Viminale

Il nostro Paese non si è dotato di strumenti per garantire il reinserimento sociale dei soggetti “radicalizzati”: il tutto si limita nel contesto penitenziario all’intercettazione dei fattori di pericolo, al monitoraggio e alla reclusione nel circuito “Alta Sicurezza 2”. La vicenda dell’uomo nuovamente arrestato a fine maggio mette in crisi gli annunci celebrativi del Viminale. Il racconto dell’imam Ibrahim Gabriele Iungo

L’uomo nella foto guarda verso l’obiettivo. Ha le mani dietro la schiena ed è affiancato da due agenti di polizia con il volto coperto. Poco più in basso campeggia la scritta “Arrestato pericoloso terrorista dell’Isis”. Si tratta di un post pubblicato il 28 maggio sui profili X del Viminale e del ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi. Recita: “Un arresto che premia l’impegno e la professionalità che le nostre Forze dell’ordine e le agenzie di intelligence dedicano alla continua attività di monitoraggio e prevenzione della minaccia terroristica nel nostro Paese”.

Presentata come un successo, l’operazione non è però che l’ultimo capitolo di una storia che da un decennio sembra ripetersi sempre uguale. Il nome dell’uomo è Halili Elmahdi, ha 29 anni ed è già alla sua terza carcerazione.

“Lo conobbi su internet, lui traduceva e caricava in rete alcuni documenti dell’Isis. Fu mia la decisione di contattarlo, sia per interesse personale sia per una funzione preventiva di carattere informale: quando un ragazzo condivide contenuti pericolosi, bisogna cercare di prendersene cura”, racconta ad Altreconomia l’imam Ibrahim Gabriele Iungo, una delle persone a essere state più a stretto contatto con Halili Elmahdi. “Lui -continua l’imam– si mostrò disponibile per un confronto dal vivo, ma fu arrestato prima ancora che potessimo incontrarci”. È il 2015 quando per Halili, allora ventenne, iniziano i primi problemi giudiziari: viene condannato a due anni di reclusione, con la sospensione condizionale della pena, per “istigazione a delinquere con finalità di terrorismo”.

L’imam perde le sue tracce e il rapporto si interrompe. Nel 2018, all’età di 23 anni, Halili torna però in manette e Iungo lo viene a sapere dai giornali. “Avevo appena iniziato la mia collaborazione quale imam autorizzato dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) a entrare in carcere. Presentai domanda per incontrarlo, tramite il direttore dell’istituto e d’accordo con il procuratore di Torino”. Condannato nel 2019 a una pena detentiva di sei anni e nove mesi per “associazione a delinquere al fine del raggiungimento degli obiettivi dello Stato Islamico”, Halili viene collocato nel circuito di Alta sicurezza (As) della casa circondariale Lorusso e Cutugno. “Lo vedevo una volta al mese, alternandomi nei colloqui con la famiglia. Aveva passato un primo periodo in isolamento. Notai in lui un’insofferenza crescente: solo in un secondo momento avrei appreso che, in quella fase, stava già maturando sintomi paranoici”. Dal 2009, in base a una circolare del Dap, chi -come Halili- è imputato o condannato per reati di terrorismo viene detenuto nel sotto-circuito As2. Ad aprile 2024 erano 9.439 le persone ristrette in Alta sicurezza; nei 99 istituti visitati da Antigone nel 2023, le presenze in As2 erano 34.

“Il procuratore auspicò per il ragazzo un percorso di deradicalizzazione. Il fatto che io andassi a visitarlo -spiega Iungo- era già dal loro punto di vista l’avvio di un percorso. Ma non mi furono dati gli strumenti per sminare il terreno: avevo un normale permesso da imam che pronuncia il sermone del venerdì e per incontrare Halili dovevo mettermi d’accordo con la famiglia. Inoltre, non ebbi alcun tipo di coordinamento con la direzione del carcere né con i mediatori interculturali, gli assistenti sociali o gli psicologi. Mai visto nessuno”. Questo perché l’Italia non si è dotata degli strumenti legislativi necessari per garantire la prevenzione del radicalismo e il reinserimento sociale delle persone radicalizzate. Le due proposte che andavano in questa direzione sono naufragate: il cosiddetto ddl Dambruoso, presentato alla Camera nel 2016, non ha ottenuto l’approvazione del Senato entro la fine della legislatura; la stessa sorte è poi toccata al “ddl Fiano”, presentato nel 2018. Un’iniziativa di legge analoga -il “ddl Guerini”– è stata invece avanzata lo scorso 14 maggio, ma deve ancora essere assegnata alla commissione competente. Intanto, la strategia italiana resta oggi confinata alla sorveglianza e alla reclusione nel circuito As2.

“Successivamente Halili è stato trasferito nel carcere di Sassari, dove il suo stato di salute mentale è peggiorato sensibilmente. Ciononostante, non ha ricevuto un’assistenza psichiatrica adeguata: i suoi colloqui con lo psichiatra sono consistiti in pochi minuti finalizzati a valutare la sua idoneità alla detenzione. Si è provveduto a un monitoraggio complessivo solo nell’ultimo mese prima del suo rilascio, dietro mia sollecitazione”. Nel 2023, alla fine di luglio, Halili -ormai 28enne- termina di scontare la sua pena, ma una volta uscito dal carcere viene privato della cittadinanza italiana e trattenuto per due volte in un Centro per la permanenza e il rimpatrio (Cpr). Malgrado sia nato e cresciuto in Italia, dove sono residenti anche i suoi genitori, le autorità provano a estradarlo in Marocco. Tuttavia, l’operazione non va a buon fine per presunte “ragioni burocratiche” e Halili ritorna a casa della sua famiglia, a Lanzo Torinese (TO), da cui però viene presto allontanato.

A ottobre dello stesso anno, Halili finisce così per vivere all’addiaccio. “Un giorno mi trovo a Porta Palazzo e noto un ragazzo che mi osserva da lontano. Era Halili. Da quel momento ho cercato di sostenerlo economicamente, acquistando per lui della carne in una macelleria halal. Prima che uscisse dal carcere, mi ero premurato di contattare i servizi sociali di Lanzo Torinese in vista del suo rientro. Ma nulla è stato fatto. Ora era una persona senza fissa dimora, per di più in condizioni di instabilità psicologica”. A febbraio del 2024, la testata La Luce ha pubblicato un appello integrale di Iungo. “Avevo bisogno di far conoscere la storia di Halili, anche per tutelare me stesso: non era possibile che per un caso di questo tipo, considerato l’emblema della radicalizzazione in Italia, fosse sollecitato unicamente il mio intervento”.

L’arresto del 28 maggio -in esecuzione di un’ordinanza di custodia cautelare per il reato di “associazione terroristica internazionale”- non ha che riconfermato i limiti della via italiana, orientata alla sola repressione del radicalismo. La vicenda di Halili è esemplare: prima detenuto in carcere, poi privato della cittadinanza e trattenuto in Cpr, infine costretto a vivere in strada e riarrestato.

Un circolo vizioso le cui responsabilità sono politiche. “È sotto gli occhi di chiunque che Halili sia uscito dal carcere molto peggio di come ci è entrato. La famiglia, abbandonata dalle istituzioni, non poteva essere in grado di accoglierlo in casa. La revoca della cittadinanza ha significato poi una sconfitta del percorso rieducativo. Negli ultimi tempi si era aperto un tavolo in prefettura: stavamo cercando di individuare un progetto di reinserimento sociale in Marocco, visto che tecnicamente non poteva rimanere in Italia. Adesso si torna da capo”.

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