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Esteri / Intervista

La propaganda dello Stato Islamico tra social network e azioni sul campo

Charlie Winter, ricercatore al Centro per lo studio della radicalizzazione di Londra (Icsr) - © The Disruption Network Lab

L’utilizzo di piattaforme istantanee, criptate e sofisticate ha permesso ai fondamentalisti di mantenere negli anni una “narrativa” perfettamente omogenea. Che resiste alle sconfitte territoriali. Intervista al ricercatore Charlie Winter

Tratto da Altreconomia 203 — Aprile 2018

“L’enormità della macchina di propaganda messa in piedi dallo Stato Islamico ha reso difficile, per lungo tempo, una comprensione razionale del lavoro mediatico costruito da questa organizzazione, soprattutto prendendo in considerazione il quinquennio 2013-2018. Oggi possiamo però asserire con certezza che il gruppo islamista ha permesso allo jihadismo, la lotta armata del fondamentalismo islamico, una digitalizzazione dei contenuti fondamentale nella rappresentazione globale dello Stato Islamico, secondo una precisa strategia di comunicazione”. Charlie Winter è senior research fellow al Centro per lo studio della radicalizzazione di Londra (Icsr), istituzione di ricerca indipendente parte del dipartimento del King’s college londinese, e associate fellow per il Centro internazionale per il controterrorismo de L’Aia, think-tank indipendente che si occupa di contrasto all’estremismo, con un focus specifico rivolto ad antiterrorismo e diritti umani.

Come funziona la comunicazione dello Stato Islamico e quali sono i punti fondamentali per analizzare il lavoro mediatico dell’organizzazione?
CW La strategia di propaganda dello Stato Islamico è nota per la grande quantità di contenuti prodotti nel corso degli ultimi cinque anni, ed in particolare per l’estrema brutalità dei messaggi veicolati da tali media. La realtà, però, è che stiamo parlando di un quadro complessivo molto più grande e molto più articolato, che non si ferma ai video delle uccisioni o ai messaggi che invitano gli islamici di tutto il mondo a prendere le armi, ma che ha una struttura e una varietà di contenuti che non può essere sottovalutata. Tutto parte da Telegram, un social network molto in voga nel mondo arabo, non soltanto fra gli jihadisti salafiti, ma anche, ad esempio, fra gli attivisti iraniani che lottano per la democrazia. Si tratta di un social dalle caratteristiche tecniche particolari, che permettono di criptare i contenuti grazie ad un sistema di gestione più sofisticato. Attraverso Telegram lo Stato Islamico controlla diverse migliaia di canali e di gruppi che assicurano che contenuti, video, manuali, discorsi, vengano diffusi in tutto il mondo, senza il rischio di censura.

A partire da questa base di diffusione, l’organizzazione islamista è riuscita a implementare un livello di efficienza straordinario nella produzione di propaganda, mantenendo sempre una perfetta omogeneità in termini di narrativa. Che si tratti di mezzi di comunicazione egiziani, libici, siriani, somali, lo Stato Islamico riesce a raccontare sempre la stessa storia, con gli stessi accenti, facendo arrivare al pubblico ciò che ritiene importante.

Si può notare una correlazione fra i vari passaggi di controllo territoriale in Siria e Iraq e il numero di contenuti mediatici di propaganda prodotti dal gruppo?
CW Se analizziamo i numeri, vediamo come ci sia una corrispondenza netta fra produzione mediatica dello Stato Islamico e forza sul territorio. Nell’agosto del 2015, in quello che possiamo forse considerare il momento di più alta influenza ideologica e territoriale mai raggiunto dal gruppo, lo Stato Islamico era in grado di produrre 892 contenuti di propaganda: non stiamo parlando semplicemente di fotogrammi individuali, ma di contenuti articolati, con video, audio, immagini. Un anno e mezzo e dopo, nel febbraio del 2017, l’organizzazione è in un momento molto differente; perde città importanti in Iraq e Siria, sta combattendo la battaglia, poi persa, di Mosul, e il numero di contenuti prodotti scende così del 30% rispetto alla precedente rilevazione. Andando al settembre del 2017 la correlazione fra numero di contenuti prodotti ed effettiva efficienza del gruppo sul campo diventa ancor più lampante. In quel mese lo Stato Islamico produce appena 300 contenuti, a causa di difficoltà organizzative decisamente accresciute in Iraq e Siria.

892 i contenuti di propaganda dello Stato Islamico prodotti nell’agosto 2015, una fase di forte espansione

Quali sono i concetti principali che la propaganda dello Stato Islamico ha cercato di veicolare attraverso la sua strategia di comunicazione?
CW Soprattutto fra il 2013 ed il 2015, dunque nel momento di più ampio controllo territoriale in Siria ed Iraq, lo Stato Islamico ha provato a convincere il pubblico, attraverso la propria propaganda mediatica, che fosse possibile andare a vivere in quelle aree, non solo per morire e combattere, ma per costruirsi una nuova vita. Lavoro nel settore dell’industria e dell’agricoltura, educazione per i figli, servizi religiosi, stato sociale, ci si è insomma sforzati di rappresentare un’utopia civile per quanti avrebbero deciso di aderire al gruppo. Con il tempo i riferimenti sono cambiati e ci si è spostati, nella produzione della propaganda, sul lato militare, sul nemico, sulla battaglia. La nostalgia, veicolata attraverso l’idea di una nuova età d’oro per l’Islam e sviluppata sulla base dei successi registrati dal gruppo in Iraq e Siria, è stata alimentata anche dopo la perdita di territorio, attraverso il tentativo di enfatizzare l’utopia del Califfato e i risultati raggiunti dal gruppo durante il periodo di massimo splendore. Ciò ha rappresentato un elemento fondamentale nella strategia di comunicazione dello Stato Islamico. Il concetto da far passare è sempre stato quello dell’“avevamo costruito qualcosa di straordinario, loro sono venuti qui e ce l’hanno portato via e per questo dobbiamo continuare a combattere il Jihad dello Stato Islamico”. C’è poi la narrativa della paura, il mostrare filmati che documentano l’uccisione di civili, gli attacchi armati, per diffondere l’idea di un gruppo ancora potente e attivo e convincere i sostenitori ad andare avanti nella battaglia. La base di tutto è tenere come riferimento il concetto per cui qualsiasi azione che disturbi i nemici di Allah può essere considerato Jihad.

Da qui l’importanza della comunicazione: sostenere il Jihad non significa soltanto combattere, sparare, uccidere, ma anche sviluppare aggressione psicologica attraverso i contenuti mediatici.Diffondere i video delle operazioni terroristiche significa per lo Stato Islamico sia farsi riconoscere dai suoi avversari, ma anche e soprattutto mandare un segnale forte ai suoi affiliati, a chi combatte per il gruppo. In pratica, è come se lo Stato Islamico dicesse ai suoi sostenitori “sei ancora parte del gruppo giusto, del progetto giusto, del Jihad salafita che sta combattendo contro i nemici dell’Islam”. Questa è una narrativa che è già stata ripresa, come modello, da altri gruppi terroristici e che sicuramente e purtroppo, in futuro, risulterà determinante nella formazione e nell’affiliazione di altri gruppi armati.

“Diffondere i video delle operazioni terroristiche significa per lo Stato Islamico sia farsi riconoscere dai suoi avversari, ma anche e soprattutto mandare un segnale forte ai suoi affiliati, a chi combatte per il gruppo”

Si può parlare di uno Stato Islamico definitivamente sconfitto e in che modo è possibile verificare le condizioni attuali del gruppo?
CW Oggi abbiamo la tendenza, forse anche il desiderio, di immaginare un contesto in cui la minaccia portata dallo Stato Islamico sia ormai alle spalle. Se ci guardiamo indietro vediamo però come questa sia un’organizzazione che nel corso del tempo si è rimodellata costantemente, dunque l’errore più grande è proprio quello di sottovalutarla in un momento in cui si sta riorganizzando: la perdita territoriale subita ha colpito lo Stato Islamico in maniera molto dura, ma non lo ha annientato definitivamente.È la natura stessa del gruppo islamista, una natura fluida, che va molto oltre il radicamento territoriale in Iraq e Siria, a non permetterci di pensare sia tutto finito.

La sensazione è che le azioni terroristiche sparse possano diventare il nuovo focus operativo del gruppo e in questo senso la propaganda diventerà ancora più importante, per dimostrare al mondo, affiliati e nemici, che lo Stato Islamico è ancora vivo. È ovvio che ciò pone una certa pressione sulle agenzie di intelligence, che dovranno monitorare ancora più sensibilmente la situazione e stare pronte a tenere sotto controllo una fase paradossalmente ben più complessa di quando lo Stato Islamico era forte in Iraq e Siria e aveva, dunque, un volto geografico ben definito.

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