Altre Economie / Intervista
Il biologico rurale di Girolomoni, stretto intorno alla sua comunità
La cooperativa agricola di Isola del Piano (PU) è entrata a far parte della World fair trade organization. Tra produzione bio e attenzione all’equità sociale, lavora per promuovere davvero i principi del commercio equo nelle filiere locali
La cooperativa agricola Gino Girolomoni di Isola del Piano (PU) -che produce cereali e pasta- è la prima filiera agroalimentare completamente italiana a entrare nella World fair trade organization (Wfto), l’Organizzazione mondiale del commercio equo e solidale che unisce 355 realtà, soprattutto imprese sociali, impegnate nel miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori e nella tutela dell’ambiente in 76 Paesi, certificandole attraverso un sistema di garanzia indipendente.
Il riconoscimento è arrivato dopo un’indagine che ha verificato il rispetto degli standard della rete in tutti i passaggi della catena produttiva. A essere valutato, infatti, non è solo ciò che finisce sugli scaffali dei negozi, ma l’intera cooperativa. Lavorare secondo i principi del biologico è importante ma non sufficiente: “Non è un punto di arrivo, ma di partenza”, spiega ad Altreconomia Giovanni Battista Girolomoni, presidente dell’impresa.
Girolomoni, dove affonda le radici la scelta di lavorare secondo i principi equosolidali?
GBG È una decisione che è stata presa al momento della fondazione della cooperativa e che rispetta i valori principali dell’impresa, sorta in uno dei tanti luoghi dell’Appennino a rischio abbandono. L’azienda è nata come risposta all’esodo dalle campagne, per dare un’opportunità ai giovani di non tagliare i legami con la propria terra. In più, è una volontà che deriva dalla decisione di lavorare, fin dall’inizio, secondo i principi del biologico e dalla forma societaria scelta, quella della cooperativa agricola a mutualità prevalente.
Quali sono i rapporti con le persone che lavorano all’interno della filiera?
GBG Dal punto di vista formale la nostra è una cooperativa di agricoltori, il legame con tutta la filiera è molto stretto. Non andiamo a comprare la materia prima: siamo agricoltori che fanno la pasta, il meccanismo si inverte rispetto ad altri pastifici. I collaboratori e i dipendenti, tranne poche eccezioni, sono tutti del territorio: è una possibilità in più anche per il nostro piccolo Comune. I lavoratori hanno tutti i diritti del fair trade: abbiamo un piano di welfare aziendale e diverse iniziative per il loro coinvolgimento.
Qual è l’importanza di sostenere secondo i principi del commercio equo anche le filiere locali?
GBG Ci sono diverse motivazioni. Una è far passare il messaggio secondo cui l’equità e la giustizia nei rapporti commerciali tra parte agricola, trasformazione e distribuzione deve riguardare tutte le filiere. Da qualche anno siamo attivi nella promozione del concetto di domestic fair trade, assieme ad Altromercato. Questo è quanto mai importante anche nei confronti della certificazione biologica: da sempre sosteniamo che deve essere un punto di partenza, non un punto di arrivo. In origine l’equità sociale era tra i principi ispiratori dei movimenti per l’agricoltura biologica, di cui Gino Girolomoni, mio padre, faceva parte. Poi, di fatto, la certificazione si concentra maggiormente sulla parte agricola e di trasformazione, ma noi riteniamo che entrambi gli elementi debbano andare insieme.
In un mondo in continua crisi, il biologico può essere una forma di produzione più resiliente?
GBG Ha dimostrato di essere più resiliente rispetto alla produzione industriale perché è meno dipendente da fonti esterne. Con la crisi i prezzi sono aumentati un po’ ovunque, ma per i prodotti tradizionali sono aumentati di più. Un punto debole, però, è la necessità di una pianificazione più accurata; nelle filiere, ci occupiamo anche del seme, è una programmazione che parte da tre anni prima e rischia quindi di essere un po’ rigida.
Questa è l’unica sfida?
GBG No, un altro elemento sfidante è che da sempre abbiamo voluto avere al nostro interno anche la trasformazione. Da una parte questo chiede grandi investimenti, che rendono necessario accedere ai fondi del Piano di sviluppo rurale (Psr) e ora a quelli del Piano nazionale di ripresa e resilienza. Dall’altra, non è sempre facile tenere insieme l’aspetto di produzione e quello di trasformazione, che hanno bisogno di conoscenze diverse, talvolta in contrasto tra loro.
Qual è l’impatto dell’agricoltura intensiva e delle tendenze del marketing sull’agroalimentare italiano?
GBG In Italia si fa largo ricorso ai fitofarmaci, anche se c’è un grande utilizzo, da parte del marketing, a tutti quegli slogan di cui il biologico è portatore sano da tanto tempo. Uno di questi è il “residuo zero”: si dà la garanzia ai consumatori che non ci siano tracce di prodotti chimici nei prodotti, senza che questo voglia dire che non vengano utilizzati nei campi. O del localismo, come concetto estremizzato di genuinità. Come produttori biologici, sentiamo molto la concorrenza del greenwashing nelle sue diverse forme.
Come può allora un consumatore difendersi dal greenwashing?
GBG Prediligendo il rapporto diretto con l’agricoltore: bio e locale è l’abbinamento migliore.
Il biologico delle grandi marche, venduto all’interno della Grande distribuzione organizzata, ha un futuro?
GBG Se guardiamo gli obiettivi che si è data l’Unione europea, che vuole convertire in biologico il 25% dei terreni entro il 2030, c’è spazio sia per il biologico industriale, sia per quello rurale. Tenendo sempre presente che la certificazione è solo il punto di partenza per valutare la bontà di un prodotto e che quindi tra le due cose c’è una differenza sostanziale.
Qual è il ruolo della comunità in un’azienda come la vostra?
GBG Nel biologico rurale la comunità è tutto. Da questo punto di vista, le politiche che promuovono l’aggregazione in filiere e distretti vanno nella giusta direzione, perché si traducono in una partecipazione attiva degli agricoltori nella costruzione del prodotto e una capacità di coinvolgere altri soggetti al di fuori del mondo agricolo, compresi i consumatori.
Dove ci porta, dal suo punto di vista, l’idea di un ministero che ha nel suo nome il concetto di “sovranità alimentare”?
GBG Dipende da come lo si intende. Da un punto di vista ambientale, è giusto che si produca e si consumi il più possibile localmente. Poi, però, bisogna guardare alle eccellenze dei singoli Paesi e le vocazioni dei loro terreni: noi stessi non sopravviveremmo puntando solo sul mercato interno, perché l’80% della nostra pasta va all’estero. Bisogna fare un’analisi caso per caso. Se per sovranità alimentare il governo intende la promozione di filiere corte a basso impatto ambientale è sicuramente un’idea giusta, se intende che possiamo essere autosufficienti dal punto di vista agroalimentare, allora non è possibile.
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