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Crisi climatica / Approfondimento

È possibile aggiustare i crediti di carbonio? Una critica e una proposta. Che riguardano l’Italia

© Kristaps Ungurs - Unsplash

Le emissioni annuali di gas a effetto serra si aggirano intorno alle 40 miliardi di tonnellate di anidride carbonica, in aumento di circa l’1% annuo. Ha senso parlare di crediti di carbonio e interventi di forestazione in uno scenario del genere? O si corre il rischio di pesare con il bilancino dei cucchiaini d’acqua da rovesciare in un oceano? Le criticità del sistema e alcuni spunti costruttivi. Per non cadere nel greenwashing

Che i boschi possano fissare nel legno il carbonio atmosferico contribuendo positivamente ad attenuare il problema del cambiamento climatico è un fatto scientificamente inappuntabile. 

In assenza dell’uomo le foreste mondiali sarebbero in grado di accumulare e conservare uno stock complessivo di carbonio pari a circa 600 miliardi di tonnellate di carbonio (Gt C), come riporta uno studio della rivista scientifica Nature. Il differenziale di accumulo tra lo stock attuale e il potenziale massimo di stock di carbonio forestale è di 328 Gt C. Di questa quantità, però, 102 Gt C ricadrebbero su superfici attualmente agricole o urbanizzate, non recuperabili se non attraverso attività che avrebbero un pesantissimo impatto sulla nostra specie. Altri 139 Gt C ricadrebbero in aree già coperte da foreste che potrebbero accrescere l’assorbimento di carbonio se gestite con oculatezza (e non più sottoposte a disboscamento) e 87 Gt C deriverebbero infine da interventi di forestazione in aree attualmente libere. 

Il quadro sulla carta potrebbe apparire confortante ma deve essere completato con dati assai meno ottimistici. Nell’atmosfera sono presenti circa 250 miliardi di tonnellate di carbonio in più rispetto all’inizio del Novecento (419 parti per milione di CO₂ oggi rispetto alle circa 300 di allora).

Se oggi smettessimo emettere carbonio e iniziassimo a gestire i boschi al meglio, potremmo immagazzinare 226 Gt C nelle aree forestali riportando il carbonio ai livelli di cent’anni fa (e con tempistiche “forestali” incompatibili con la vita di un uomo). Però non lo stiamo facendo.

Le emissioni annuali di gas a effetto serra (greenhouse gases, GHGs) si aggirano intorno alle 40 miliardi di tonnellate di anidride carbonica (Gt CO₂), in aumento di circa l’1% annuo. È quindi etico parlare di crediti di carbonio in questo scenario? 

Lo scandalo dei crediti di carbonio Verra dovrebbe insegnarci che il rischio di far perdere credibilità a un intero settore è reale. Per sottolineare ulteriormente la portata della discussione e i rischi che si corrono, è utile ricordare che i membri del comitato tecnico scientifico del Science based targets initiative (SBTi) -il principale schema di certificazione volontaria del “net zero” per le aziende di tutto il mondo- hanno minacciato le dimissioni in massa dopo che, grazie alla pressione di fondi di investimento internazionali, la SBTi ha autorizzato le aziende a utilizzare i crediti di carbonio per compensare le emissioni di Scope 3. Occorre quindi procedere con grande cautela.

Passando dalla scala globale a quella nazionale, il quadro complessivo non è rassicurante. I boschi in Italia aumentano dello 0,5% annuo in termini di superficie e la biomassa si accresce dell’1% e di quest’ultima, solo il 40% viene prelevato. Però i boschi continuano a crescere solo perché ricolonizzano terreni abbandonati dall’agricoltura.

Nel frattempo solo il 15% della superficie forestale è pianificato e di questo solo una minima parte vede poi l’attuazione degli interventi previsti. Mentre dove si interviene con tagli forestali, una buona parte (80%) del legname viene utilizzata a fini energetici anche se potenzialmente parte di esso potrebbe essere valorizzato come materia prima. Il legname dei nostri boschi ha, infatti, un ruolo marginale rispetto all’importazione dall’estero. 

Nel frattempo le foreste italiane hanno assorbito nel 2022 circa 21 milioni di tonnellate di anidride carbonica (Mt CO₂) che dovranno essere incrementate fino a 35 Mt CO₂ entro il 2030 (tra sei anni). Il che equivale all’implementazione teorica di circa 50-80mila ettari di bosco maturo in più (ovvero di uno di almeno 20 anni di età). 

Negli ultimi anni i principali investimenti nazionali in termini di riforestazione sono ricaduti molto spesso su terreni agricoli senza considerare la perdita di suolo fertile e la necessità di rimpiazzare le derrate alimentari lì prodotte con altre di provenienza incerta. La politica forestale italiana non dispone delle risorse finanziarie necessarie a salvaguardare il patrimonio forestale già esistente. 

A livello nazionale sono utilizzabili varie linee guida per il calcolo dei crediti di carbonio che, seppur simili nell’approccio, sono diverse tra loro. In particolare, hanno “baseline” di partenza differenti. Due tecnici che valutino un bosco con protocolli diversi otterranno dati di stock carbonico simili ma quantità di crediti differenti. Questo aspetto indebolisce molto la credibilità del sistema. 

Sono poi in arrivo le norme europee sulla quantificazione, rendicontazione e commercializzazione dei crediti di carbonio originati dalle buone pratiche di gestione in ambito agricolo (regolamento sul Carbon farming), che dovrebbero mettere ordine nel settore e che renderanno molti dei protocolli esistenti obsoleti. Ma il cui arrivo atteso genera oggi ulteriori elementi di incertezza. 

Occorre poi entrare anche nel merito scientifico e tecnico legato al calcolo dei crediti di carbonio, mettendo in luce alcune criticità. La generazione di un “credito di carbonio” adatto a compensare l’emissione di gas serra dovrebbe seguire criteri etici e scientifici universalmente riconosciuti e accettati. Ad oggi il credito di carbonio è concepito come rimozione, riduzione o emissione evitata di una tonnellata di anidride carbonica equivalente in atmosfera.

Entrando nel merito dei protocolli, alcuni dei principi che consentono di generare crediti sono legati al concetto di emissione evitata o ridotta: il minor prelievo di legname nei boschi sottoposti a tagli e l’allungamento del periodo che intercorre tra i tagli consentono di conservare per più tempo la biomassa in bosco, evitando l’emissione di carbonio in atmosfera per un periodo di tempo limitato e definito dal protocollo. 

Questo principio è valido se riferito al solo bosco oggetto di intervento. Va considerato infatti che il prelievo di legname dal bosco avviene a fronte di una richiesta di mercato: assumendo una domanda costante nel tempo, un minor prelievo (e quindi una minore offerta locale) comporta l’approvvigionamento dello stesso legname da altra provenienza (con rischio di aumento delle importazioni), quindi di fatto il bilancio di carbonio emesso non varia, considerando i trasporti e l’incertezza dell’origine del legname, potrebbe addirittura peggiorare. 

Una considerazione va poi fatta sull’opportunità di generare crediti in boschi attualmente non gestiti come quelli italiani. Il concetto di credito di carbonio si addice bene a realtà in cui i prelievi forestali sono superiori agli accrescimenti annuali dei boschi come, ad esempio, i Paesi scandinavi, dove i boschi sono trattati con tagli intensivi e il settore ha ampi margini di miglioramento. È assai meno pertinente in ambiti in cui la gestione ordinaria rappresenta già di per sé un’addizionalità rispetto alla norma, che è l’abbandono. 

Altra criticità è dovuta al fatto che i protocolli richiedono un rispetto della permanenza pluriennale in bosco degli alberi non tagliati, con una garanzia che in ogni caso è “a termine”. Finito il periodo di garanzia, il bosco può nuovamente essere utilizzato in modo intensivo perdendo il credito maturato. 

Inoltre, è un fatto assodato che le foreste abbiano un destino incerto legato al cambiamento climatico e all’aumento di rischi dovuti ad eventi estremi. Per questo non è corretto paragonare i crediti forestali a uno storage realmente permanente o di lunghissimo periodo come quello geologico o di Carbon capture and storage (Ccs).

Occorrerebbe che i protocolli di certificazione prendessero atto chiaramente di queste criticità confrontandosi con il mondo della ricerca per trovare correttivi adeguati a superarle. 

Sotto il profilo strategico, poi, la riduzione di prelievi forestali per generare crediti carbonici va a interessare spesso le già ridotte superfici su cui sono regolarmente effettuati prelievi. Questo fatto contrasta con la politica nazionale di valorizzazione dell’uso del legno locale. 

Criticità rilevanti emergono anche dal lato dei potenziali soggetti finanziatori dei crediti. Gli approcci per poter mettere a bilancio emissioni e rimozioni di gas serra sono numerosi ma non esiste consenso né una legislazione chiara a supporto.

Le aziende dovrebbero seguire un medesimo approccio gerarchico di mitigazione dell’impatto (ovvero “evitare” in prima istanza le emissioni climalteranti; “ridurre” poi il loro rilascio; adoperarsi per “ripristinare” capitale naturale capace di assorbire carbonio; e, solo infine, “compensare” le proprie emissioni residue), lasciando al credito di carbonio un compito pressoché residuale di annullamento del margine emissivo inevitabile.

Questo di norma non succede, con il conseguente rischio di generare effetti di greenwashing. Esistono protocolli come lo standard PAS 2060, che sarà presto sostituito dalle norme ISO 14068, che tengono in seria considerazione la gerarchia della mitigazione ma sono poco utilizzati. 

Nei prossimi anni la Direttiva europea sul greenwashing risolverà almeno in parte il problema portando chiarezza sulle dichiarazioni. Tuttavia, oggi lo scenario complessivo risulta ancora assai torbido. 

Sarebbe poi auspicabile che le linee guida nazionali in tema di crediti di carbonio, che dovrebbero essere emanate a breve, escludessero la possibilità di acquistare crediti generati da aziende che non dimostrino una riduzione di emissioni sufficiente a limitare il riscaldamento globale a 1,5 gradi a fine secolo. Se malauguratamente venisse adottato un approccio simile, ci allontaneremmo inequivocabilmente dalle traiettorie che dovrebbero portare al rispetto degli obiettivi dell’Accordo di Parigi sul clima del 2015. Si ritorna quindi al quesito già posto: è etico parlare di crediti di carbonio in questo scenario e, soprattutto, in Italia? 

La sensazione è che si stia discettando di protocolli e norme da applicarsi con rigore farmaceutico a dati e assunzioni opinabili e stimate parametricamente senza alzare lo sguardo sul contesto globale a cui si dovrebbe far riferimento. È come se iniziassimo a pesare con il bilancino dei cucchiaini d’acqua da rovesciare in un oceano litigando sulla forma del cucchiaino. Ora, la pesata potrebbe anche essere precisissima e magari c’è un cucchiaino migliore dell’altro, ma si rischia di perdere di vista lo scenario generale. 

Forse bisognerebbe fermarsi provando a trovare punti condivisi da tutti su cui riorganizzare il dibattito. Iniziando dal principio secondo il quale è compito dello Stato, in prima istanza, tutelare le risorse naturali e forestali. E che la gestione forestale sostenibile contribuisce a mantenere e migliorare la stabilità dei boschi e a produrre materie prime ambientalmente sostenibili. Gestione che in Italia è generalmente più onerosa e quindi occorre quindi riconoscere il ruolo prezioso svolto da chi opera in bosco in modo sostenibile generando profitto e restituendo valore in forma di servizi ecosistemici. I boschi e l’accrescimento forestale, infatti, contribuiscono a mantenere fissata nel legno l’anidride carbonica atmosferica. 

Ma questo da solo non basta, il cambiamento climatico richiede politiche nazionali radicali che devono riguardare in primo luogo i settori emissivi con l’applicazione di una carbon tax e non considerando le compensazioni un’opzione percorribile nel breve e medio periodo.

Le risorse forestali devono essere considerate un serbatoio di carbonio (sink), da mantenere nel tempo, garantendo che l’entità dello stock in esso contenuto (la biomassa forestale nazionale) sia la maggiore possibile. La dimensione di questo sink (cioè l’estensione dei boschi) potrà essere incrementata dove questo abbia senso a fronte di politiche chiare e valutate strategicamente. La “gestione” del sink di carbonio rappresentato dalle foreste nazionali è un’attività onerosa che porta benefici alla collettività garantendo la permanenza nel tempo del carbonio fissato nel legno. Questo ruolo andrebbe quindi riconosciuto retribuendo opportunamente chi lo esercita. 

I suoi benefici non si limitano all’assorbimento diretto di carbonio. Una gestione forestale sostenibile e organizzata consentirebbe infatti alle filiere legno nazionali di ridurre le importazioni e potrebbe contribuire a produrre materiali sostenibili in grado di sostituire altre materie fortemente impattanti contribuendo in modo significativo alla riduzione delle emissioni climalteranti in atmosfera. Consentendo inoltre di massimizzare la biodiversità dell’ecosistema favorendo i raggiungimenti degli obiettivi legati alla “Biodiversity strategy”. 

È lecito che lo Stato valorizzi il patrimonio forestale nazionale sui tavoli internazionali in tema di cambiamento climatico a fronte però di chiare politiche ambientali. Le emissioni del sistema industriale e produttivo nazionale dovrebbero essere considerate alla stregua di un debito pubblico da abbattere e il patrimonio forestale come una riserva aurea da tutelare. Occorrerebbe quindi valutare concretamente l’applicazione di una carbon tax che consenta di restituire il valore economico generato dalla gestione forestale a chi la svolge. 

Lo Stato dovrebbe quindi impegnarsi stanziare fondi proporzionati ai vantaggi ottenuti grazie ai boschi dagli impegni sottoscritti sui tavoli internazionali. Un’efficace politica di lotta al cambiamento climatico dovrebbe quindi vertere sul concetto di “pagamento del servizio ecosistemico” generato dalla gestione sostenibile degli ecosistemi forestali nazionali. 

I fondi resi così disponibili potrebbero poi essere destinati ai gestori forestali attivi in proporzione alla dimensione dei serbatoi di carbonio gestiti, agli stock e ai relativi accrescimenti forestali ordinari. 

Il registro nazionale dei crediti di carbonio in fase di predisposizione potrebbe diventare il registro forestale dei sink, degli stock, degli accrescimenti e dei relativi gestori a cui far riferimento per l’elargizione dei fondi disponibili. Sarebbe inoltre il documento ufficiale di garanzia del buon operato dell’Italia in tema di gestione del carbonio forestale da portare sui tavoli di discussione internazionali. Allo stesso tempo, il gestore del bosco sarebbe soggetto al rispetto di vincoli e obblighi sulle buone pratiche di gestione dei boschi. 

Il mercato volontario dei crediti ambientali, liberato dal tema del carbonio, si potrebbe quindi focalizzare sul sostegno a progetti di buona gestione forestale e territoriale, orientando le compensazioni ambientali volontarie verso la varietà degli altri servizi ecosistemici rilevanti quali gli impatti sulla biodiversità, sulle acque, sul suolo e sulla qualità dell’ambiente e del paesaggio, riconoscendo e valorizzando i progetti più interessanti, con ricadute concrete sullo sviluppo di progetti di grande impatto a livello locale. 

Per concludere, cambiare l’approccio al tema del carbonio forestale accantonando per il momento i “crediti di carbonio forestali” e tutte le annose discussioni ad essi connesse, concentrandosi invece su altri aspetti di sostanza, consentirebbe di ottenere risultati concreti in tema di riduzione e assorbimento dei gas climalteranti, con ricadute positive sull’ambiente, sugli ecosistemi, sul paesaggio e in ultima analisi sul benessere collettivo, senza escludere le ricadute in termini di maggiore offerta di posti di lavoro. 

Sarebbe estremamente significativo se questa proposta partisse proprio dall’Italia, il Paese con il più alto tasso di biodiversità d’Europa e quello definito come hotspot dei cambiamenti climatici per il previsto grosso impatto degli stessi sugli ecosistemi forestali. 

Marco Allocco è un dottore forestale professionista di SEAcoop STP, è esperto di gestione e pianificazione forestale con particolare attenzione al tema dei servizi ecosistemici e dell’associazionismo fondiario. 
Giorgio Vacchiano è professore associato di Gestione e pianificazione forestale all’Università di Milano, scrittore e divulgatore scientifico. Si occupa in particolare del rapporto tra gestione, conservazione e ripristino delle foreste e la crisi climatica.
Benedetto Rugani è ecologo industriale e primo ricercatore al Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr). Si occupa di analisi del ciclo di vita e dei costi e benefici ambientali generati dalle interazioni uomo-natura.
Carlo Calfapietra è ecofisiologo forestale e direttore dell’Istituto di ricerca sugli ecosistemi terrestri del Cnr. Si occupa di relazione tra gli ecosistemi e i cambiamenti climatici in particolare in relazione al ciclo del carbonio e di Nature based solutions per il ripristino di ambienti degradati di aree urbani e rurali.

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