Diritti / Opinioni
È ancora permesso immaginare la pace o deve dominare la “contenzione” delle armi?
Come in un servizio psichiatrico confrontato con una crisi psicotica violenta si ritiene che la “contenzione” sia il rimedio, perché non c’è tempo mentale e tradizione di cura. Alla “follia criminale” di Putin si risponde con la fornitura delle armi in Ucraina. È un errore, riflette Gianni Tognoni, segretario del Tribunale permanente dei popoli
Vorrei che queste righe fossero inutili, contemporanee anche solo a una interruzione della follia di cui siamo testimoni da giorni in Ucraina. Quanta sofferenza e quanta morte senza senso. Assurde per le cause su cui sono scatenate le analisi, e per un futuro che troppi “analisti” non dicono breve.
La “crisi” Ucraina è “scoppiata” in forma di guerra di aggressione, non improvvisa: incubata da anni, monitorata da tutte le parti in causa, temuta a parole e nella preparazione “armata”, discussa senz’altro a porte più che chiuse sullo scacchiere di tutto il mondo geopolitico.
Per le modalità della sua manifestazione -visto soprattutto il suo protagonista “aggressore” e lo scenario di bombardamenti che, questi sì “per la prima volta” interessavano un Paese centrale e critico dello scenario europeo- l’invasione del territorio ucraino ha avuto l’onore di essere subito qualificata come guerra, e per questo di attrarre anche l’attenzione dei più alti livelli del diritto internazionale (Corte penale internazionale, Corte internazionale di giustizia).
Tutte le altre “aggressioni”, con o senza bombardamenti, sparse “normalmente” nel mondo sono state oggetto di altre denominazioni, anche se la tragicità delle sofferenze e delle morti era ed è senz’altro più che competitiva.
La guerra è arrivata perfettamente in tempo per sostituirsi da protagonista alla pandemia in tutti i talk show: come il Covid-19 aveva dato un nome di un nemico ben identificato, un virus che aveva fatto un salto di specie, ad agenti ancor più effettivi in termini di contagio e vittime, perché permanenti, strutturali, come la fame, la diseguaglianza, la mortalità infantile: tanto “normali” e ‘condivisi’ da non essere più attribuibili all’uno o all’altro responsabile, o sottoposti all’una o all’altra giurisdizione.
Il “successo” della guerra a livello mediatico, di opinione pubblica, della politica è stato così forte da rendere sostanzialmente impossibile fare della pace un oggetto primario, coinvolgente, capace di fantasia e immaginazione. Cioè il tema principale, ineludibile.
Come in un servizio psichiatrico confrontato con una crisi psicotica violenta si ritiene che la “contenzione”, di qualsiasi tipo, sia il rimedio, perché non c’è tempo mentale e tradizione di cura. Coerentemente l’accordo più immediato, tra tutti gli attori più prossimi ed ufficiali, è stato quello di rompere tutti i dubbi possibili ed indicare nella fornitura delle armi, non importa come e a chi, il “rimedio” più urgente e simbolico alla “follia criminale” (sulla quale l’accordo può essere totale: come per la diagnosi di una crisi psicotica).
L’unico grido condiviso è stato quello di chiedere all’aggressore di arrestare la sua follia: senza immaginare o proporre nulla se non altre “contenzioni” (non pacifiche e di efficacia certa, o senza effetti collaterali pesanti sui popoli più che sull’aggressore) in forma di sanzioni.
Come quando per la tragedia ben nota della migrazione (“miracolosamente” scomparsa dalla cronaca e dalla politica, con le sue vittime e le guerre che ne sono la causa) un aiuto umanitario sempre simile ad una elemosina, in tutti i Paesi coinvolti nella “guerra-degna-di-questo-nome”, sostituisce una presa in carico, almeno entrando in un’agenda di lavoro.
La “guerra” così massicciamente diventata protagonista di tutti i “quotidiani della vita” svolge perfettamente il suo compito. Al di là della ferocia e inutilità dell’uccidere, essere rivelatrice di una struttura di fondo della civiltà nella quale viviamo. Che ha spazi senza confini e crescenti per ricerca, industria, produzione, glorificazione tecnologica delle armi, e riserva per la pace dichiarazioni e raccomandazioni svuotate di potere, credibilità, esempi.
Non sono certo esperto di strategie ma mi sembra che ci sia una domanda che mantiene tutta la sua attualità anche a guerra in corso: perché l’Unione europea non trova la dignità di soggetto autonomo di diritto ed entra nella politica con una piattaforma chiara, esplicita?
Che metta al centro il popolo-Paese dell’Ucraina; ne faccia la possibilità-opportunità storica di essere indicatore di un “dopo” la logica dominata dalla guerra, ancor più se nucleare. Una Ucraina neutrale, garante di non aggressione alla Russia e al mondo della NATO.
La ingenuità della domanda coincide con questo ultimo “attore” che non coincide con nessun popolo, e di cui è nota l’ideologia e il ruolo centrale nelle politiche di tutti i Paesi, dentro e fuori i suoi confini. L’unica interpretazione legittima del suo ruolo “di difesa” della democrazia sarebbe quella di divenire protagonista diretto della trattativa insieme a Paesi popoli riuniti nell’Ue.
La “follia” di un Putin, che rappresenta soprattutto se stesso e cancella il diritto in tutte le sue forme, si dovrebbe confrontare in questo scenario non con un “nemico” ma con un progetto di futuro, nel quale le armi siano a priori escluse, e si dia il tempo di sperimentare forme democratiche di decisione, senza pericolo di interferenze militari.
L'”ovvietà” della proposta è pari alla apparente ingenuità della sua percorribilità. È, di fatto, il test per sapere se la vera “contenzione” violenta e impunita non è quella che si applica direttamente anche solo al pensare e immaginare la pace.
Non c’è dubbio che l’Ucraina, e soprattutto il suo popolo, rappresenti in questo momento tutti i popoli che sono alla mercé dei poteri, pubblici e privati, che non sono disponibili a cambiare, al loro interno e nello scenario internazionale, paradigmi e modelli di sviluppo nei quali il linguaggio della “guerra” è quello che detta legge. E che proibisce quello dei popoli e della loro autodeterminazione.
Dal piccolo e debole osservatorio del Tribunale permanente dei popoli, abbiamo anche, con tanti popoli, appreso e sperimentato che un diritto, nazionale ed internazionale, che non abbia il coraggio, e la creatività, di fare della vita concreta delle persone il riferimento senza se e senza ma, può solo soccombere alla violenza e alla guerra dei potenti di turno.
Gianni Tognoni, ricercatore in alcuni dei settori più critici della sanità, con progressiva concentrazione sugli aspetti di salute pubblica e di epidemiologia della cittadinanza. È segretario generale del Tribunale permanente dei popoli
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