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Cultura e scienza / Opinioni

Don Milani e la “rivoluzione promessa” della Costituzione

Don Lorenzo Milani, sacerdote ed educatore, insieme ai piccoli alunni della piccole e isolata scuola di Barbiana (FI) dove ha insegnato tra il 1954 e il 1967. Foto di pubblico dominio

Nei suoi scritti il priore di Barbiana riflette sui valori della carta fondamentale. Ne traspare un amore incendiario, da approfondire. La rubrica di Tomaso Montanari

Tratto da Altreconomia 266 — Gennaio 2024

Il rapporto tra don Lorenzo Milani e la Costituzione è strettissimo e forse meritevole di indagini più stringenti e documentate di quelle a oggi disponibili. Credo si debba partire dal testo (in sé un altissimo capolavoro morale e letterario) in cui il sacerdote ne dà la più folgorante definizione, la cosiddetta “Lettera a don Piero” (in realtà a don Renzo Rossi) pubblicata come seconda appendice del volume “Esperienze pastorali” (Libera editrice fiorentina, 1957).

La sua redazione, tra novembre 1953 e giugno 1954, cade in un periodo di documentata attenzione per la Costituzione: giova, per esempio, rammentare che nella primavera del 1954 Milani invita alla scuola di San Donato a Calenzano (FI), dove era cappellano, Gastone Baschieri a parlare “per la Costituzione” (così nella lettera a Gian Paolo Meucci del 18 marzo): si trattava di quel giudice fiorentino che, insieme a Luigi Bianchi d’Espinosa e a Carlo Giannattasio, aveva firmato nel 1949 uno dei primi commentari alla Costituzione uscito con prefazione di Piero Calamandrei.

Inutile dire quanto avremmo caro non dico una registrazione, ma anche solo un resoconto stenografico delle parole pronunciate a San Donato da Baschieri (“È stato molto in gamba”, scriverà di nuovo Milani a Meucci il 24 aprile), e ancor più delle domande e osservazioni di don Lorenzo che certo dovettero seguire l’esposizione. Sta di fatto che è appunto nella “Lettera a don Piero”, che Milani continua a scrivere proprio nei giorni in cui la Costituzione è al centro dell’attenzione della scuola di San Donato, che si trova il più importante giudizio sulla Carta di tutta l’opera del priore.

È il passo in cui don Lorenzo si convince che, per salvare “Mauro” (nome di fantasia, ma storia vera), è necessario arrivare a raccomandarlo all’industriale Baffi (altro nome di fantasia, per evitare querele): “Dissi solo che aveva il babbo malato, che lavorava dai terzi senza libretto, che così non poteva andare avanti, che col libretto tirerebbe gli assegni e le medicine e ogni cosa… M’interrompe: ‘È inutile Padre che s’affatichi a raccontarmi. La mia amministrazione non può interessarsi a nessun motivo umanitario. Lei mi capirà certo. Qui c’è una legge sola: il bene dell’Azienda. Che poi infine è il bene di tutti. Il ragazzo è in prova. Ma gli dica che non ammetto scioperi. Al primo sciopero vola’. È come se m’avesse colpito allo stomaco … ‘Padre io non posso assicurarle nulla. Io ne licenzio cinque o sei la settimana e ne assumo altrettanti. Il lavoro a me non manca mai. Ma da me c’è un sistema speciale. A me piace l’ordine, la disciplina. Son sicuro che anche lei, Padre, la pensa come me’. Io penso invece all’articolo 40 della Costituzione: il diritto di sciopero. Possibile che il Baffi, uno stupido piccolo privato possa beffare così una legge che un popolo s’è data? Che un popolo ha pagato così cara: sangue, fame, guerra civile, elezioni tanto sofferte da ogni parte. E poi non è una legge qualsiasi. E quella che il Cristo attendeva da noi da secoli, perché è l’unica che ridia al povero un volto quasi d’uomo. Non gli riconoscerà ancora il potere sopra le cose. Ma almeno sul suo lavoro: di darlo o non darlo quando gli pare”.

Inizia, direi, in questo passo vertiginoso -che interpreta la Costituzione, quella scritta anche dai comunisti, come una risposta al Vangelo- il lungo, definitivo e incendiario amore di don Lorenzo per la Costituzione. E in quell’ancora (“non gli riconoscerà ancora il potere sopra le cose”) c’è la profonda comprensione del valore progettuale della Carta: vista qui letteralmente come “una rivoluzione promessa”, per usare una celebre espressione di Piero Calamandrei.

Tomaso Montanari è storico dell’arte e saggista. Dal 2021 è rettore presso l’Università per stranieri di Siena. Ha vinto il Premio Giorgio Bassani di Italia Nostra
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