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Cultura e scienza / Opinioni

Abitare il patrimonio artistico con gli occhi del presente

L’Apollo e Dafne è un gruppo scultoreo realizzato da Gian Lorenzo Bernini tra il 1622 e il 1625. Raffigura una scena tratta dalle “Metamorfosi” di Ovidio. È esposto nella Galleria Borghese di Roma © CC BY-SA 4.0 - wikipedia.org

L’Apollo e Dafne di Bernini raffigura una violenza: un’opera meravigliosa a cui è possibile restituire la complessità dimenticata. La rubrica di Tomaso Montanari

Tratto da Altreconomia 264 — Novembre 2023

L’Apollo e Dafne di Gian Lorenzo Bernini era un’opera celeberrima già nel Seicento e lo è ancora oggi: al punto che il logo del ministero della Cultura italiano raffigura la testa stilizzata dell’Apollo. Su commissione del cardinale Scipione Borghese, Bernini traduce in marmo i versi delle “Metamorfosi” di Ovidio. È il racconto, terribile, di uno stupro: Apollo, che non ha più voglia di far fatica a sedurla, la prende. E la vittima, Dafne, che invece si sente in colpa, e che infine si blocca. Proprio come nella “siderazione psichica” che spesso rende inerti, e quasi morte, le donne vittime di questa atroce violenza maschile. Il dio la tocca, la prende e crede di averla fatta sua, ma in quello stesso momento la preghiera (anzi l’urlo) di Dafne viene esaudita e la ninfa inizia istantaneamente a trasformarsi in un albero di alloro. Ecco la metamorfosi. Bernini ce la mostra proprio mentre si compie, quando le radici escono dalle dita dei piedi, le foglie erompono dalla base del gruppo e la corteccia sta già nascondendo il corpo sensualissimo.

Come facciamo a dimenticare che quest’opera rappresenta uno stupro violentissimo, che annichila totalmente la donna che lo subisce? Con la rabdomanzia dell’immenso artista che era, partendo dalla complessità del testo di Ovidio, Gian Lorenzo Bernini riesce a ritrarre non solo la violenza di Apollo, ma anche la “riduzione a vegetale” di Dafne stuprata: in quanti sono disposti a vederlo? E come non notare che quest’opera fu scolpita da un giovane uomo per uno più anziano, esponente di una monarchia sacra tutta maschile, e che, dopo secoli, un ministro maschio l’ha scelto per simbolo di tutto il patrimonio culturale? Dunque: può questo aspetto non diventare centrale, nella ricezione attuale dell’opera?

Se il museo (anzi tutto il patrimonio culturale) non deve essere più un luogo elettivo del dominio secolare (in questo caso) dei maschi, non è doveroso che la narrazione alle donne e agli uomini del nostro tempo passi anche attraverso questa chiave? L’apparato didattico, ma anche l’intervento di installazioni di artiste donne di oggi, avrebbero il potere di far tornare visibile questo enorme rimosso che, restando non esplicitato, rischia tra l’altro di farci, più o meno consciamente, odiare quell’opera meravigliosa.

È, questo, antistorico? Non c’è dubbio che nel Seicento lo schiavismo e lo stupro fossero pratiche di fatto accettate: ma quando si afferma ciò bisogna chiedersi da chi fossero accettate. Anche dagli schiavi, anche dalle donne? E quanto è percepibile la voce di questi ultimi nelle fonti che gli storici dell’arte usano ordinariamente? Da una parte, certo, si tratta di accostare più possibile all’occhio del Seicento (che dobbiamo, come storici, ricostruire incessantemente, per capire davvero l’opera) a quello del nostro tempo: ed è sempre stato così. Ma dall’altra, si tratta di capire che l’occhio del Seicento era fatto di molti sguardi, e in conflitto. E che i conflitti di oggi possono aiutarci a vedere, e a restituire, questa complessità dimenticata.

Ancora una volta, non si tratta di cancellare la storia, o di avere uno sguardo anacronistico: tutto il contrario, si tratta di prendere la storia tutta intera. E di abitare il patrimonio in un modo capace, appunto, di costruire una nuova etica delle relazioni: non fondata sul dominio, ma sulla parità, la diversità, l’inclusione.

Tomaso Montanari è storico dell’arte e saggista. Dal 2021 è rettore presso l’Università per stranieri di Siena. Ha vinto il Premio Giorgio Bassani di Italia Nostra

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