Diritti / Attualità
Difensori dei diritti umani, eroi del XXI secolo
Diamo voce a chi si oppone a regimi oppressivi e si batte per la libertà e l’ambiente. Nel 2016 sono stati uccisi almeno 282 attivisti in 25 Paesi e più di mille hanno subito minacce, attacchi fisici, intimidazioni
La notte del 14 dicembre 2016 due uomini armati sono entrati a casa del difensore dei diritti umani Marcel Tengeneza, a Kirumba, nel Nord-Est della Repubblica Democratica del Congo. Gli hanno sparato a bruciapelo. L’attivista è morto all’istante. Nel pomeriggio, Marcel aveva partecipato a un incontro per discutere dell’instabilità politica nella regione e dell’assistenza a migliaia di sfollati. Per anni aveva lavorato con varie organizzazioni locali, per difendere i diritti delle comunità colpite dal conflitto e denunciare le continue violenze.
Marcel è stato ucciso a causa del suo lavoro e delle sue idee: schierarsi a difesa dei diritti umani, in moltissimi Paesi, equivale ormai a una condanna a morte. Il nome di Marcel è l’ultimo di una lunga lista: come si legge nel rapporto annuale dell’organizzazione non governativa Front Line Defenders (frontlinedefenders.org), nel 2016 sono stati uccisi almeno 282 difensori dei diritti umani, in 25 Paesi. “Ogni volta che viene ucciso un attivista dovremmo indignarci”, dice il direttore di Front Line Defenders Andrew Anderson. “In Colombia, in Brasile, in Honduras e nelle Filippine, il numero di omicidi è allarmante: i governi di questi Paesi dovrebbero sentirsi responsabili per questo spargimento di sangue”.
Chi sono i difensori e chi li attacca
Secondo la “Dichiarazione delle Nazioni Unite sui difensori dei diritti umani”, siglata il 9 dicembre 1998, i difensori vengono definiti come “chiunque lavori, a livello individuale o insieme ad altri, per promuovere e proteggere i diritti umani in modo non violento”.
Si tratta di una definizione molto ampia, che può includere avvocati, giornalisti, scrittori, artisti, studenti, insegnanti, membri di ong, o leader indigeni. È un difensore chi si oppone a dittature e regimi oppressivi, chi si batte per la libertà di espressione, chi lotta contro le discriminazioni e le ingiustizie, chi documenta abusi dei diritti umani e chi difende l’ambiente.
I difensori sono personaggi scomodi, che fanno sentire la propria voce quando chi detiene il potere politico o economico vorrebbe imporre loro il silenzio. Ed essere un personaggio scomodo significa essere costantemente sotto attacco: secondo Front Line Defenders, nel 2016 oltre mille attivisti hanno subito minacce, attacchi fisici, intimidazioni, campagne di diffamazione, persecuzione giudiziaria, arresti, torture, sparizioni forzate o altri tipi di abusi.
Le aggressioni provengono sia dalle autorità sia da gruppi paramilitari, milizie armate, sicari ingaggiati da imprese private, e gang criminali, che spesso operano in collusione con i politici locali. Ma i responsabili, nella maggior parte dei casi, non vengono identificati e i crimini restano impuniti.
Sempre più omicidi, sempre più impunità
Il report annuale di Front Line Defenders segnala una preoccupante escalation degli attacchi contro i difensori: nel 2015 gli attivisti uccisi erano stati 156, contro i 282 del 2016. L’aumento è in parte spiegabile con il miglioramento del metodo di raccolta dati, e in parte con il peggioramento della situazione in numerosi Paesi.
Circa tre quarti degli omicidi (217) si sono verificati in America Latina: 85 in Colombia, 58 in Brasile, 33 in Honduras, 26 in Messico, che si confermano anche quest’anno tra i Paesi più pericolosi al mondo per i difensori dei diritti umani. Un netto peggioramento è stato registrato anche nelle Filippine, dove sono stati uccisi 31 attivisti: secondo il rapporto di Front Line Defenders, “promuovendo gli omicidi extragiudiziali nel contesto della guerra al narcotraffico, il presidente Rodrigo Duterte ha creato un clima in cui uccidere viene considerato un metodo accettabile per risolvere i problemi”.
La morte di un attivista, in numerosi Paesi, è considerata quasi normale: raramente le autorità aprono indagini trasparenti e approfondite, e poco viene fatto per prevenire gli attacchi. Come si legge nel rapporto “Victim Blaming”, pubblicato da Front Line Defenders nel novembre 2016, in Bangladesh gli attivisti hanno denunciato la totale mancanza di protezione da parte delle autorità.
Dal 2013 al 2016 sono stati uccisi almeno 16 difensori bengalesi, tra cui numerosi blogger atei che scrivevano di diritti umani e libertà religiosa, presi di mira da fondamentalisti islamici.
Invece di condannare gli omicidi, le autorità bengalesi hanno pubblicamente criticato i blogger e gli attivisti per il contenuto dei loro articoli e per le loro idee. Secondo il governo, le vittime “se la sono cercata” e hanno inutilmente provocato gli estremisti. “La gente pensa che l’unico problema sia che i gruppi estremisti ci stanno uccidendo”, dice un attivista per i diritti LGBT e collega di Xhulaz Mannan, difensore ucciso nell’aprile 2016. “Ma in pochi parlano della responsabilità delle autorità: ci arrestano, ci processano, approvano nuove leggi per controllare le nostre voci, e non fanno nulla per proteggerci quando siamo minacciati”.
In difesa della terra
Quasi la metà degli attivisti uccisi nel 2016 lavorava per difendere i diritti dell’ambiente e dei popoli indigeni, spesso andando contro gli interessi di grandi multinazionali. Il caso di Berta Cáceres, nota attivista ambientale assassinata il 2 marzo 2016 in Honduras, è finito sui giornali di tutto il mondo. Ma la maggior parte degli omicidi e delle aggressioni non fa notizia.
Cristina Auerbach è un’attivista messicana e direttrice dell’organizzazione Familia Pasta de Conchos. Dal 2006, quando un incidente in una miniera di carbone uccise 65 minatori, Cristina si batte per ottenere giustizia per le vittime e per i loro familiari, per chiedere migliori condizioni di sicurezza per i lavoratori, per chiudere gli scavi illegali aperti senza il consenso della popolazione locale, e per impedire le espropriazioni illecite dei terreni da parte delle industrie estrattive.
Cristina lavora nello Stato di Coahuila, nel Nord del Paese, dove si produce il 95 per cento del carbone messicano. La maggior parte della miniere è controllata da politici locali, che spesso operano in collusione con il crimine organizzato. Andare contro i loro interessi significa rischiare la vita: dal 2006, Cristina ha subito attacchi fisici, un tentato sequestro, minacce di morte e campagne di diffamazione sui giornali locali, orchestrate dai proprietari delle miniere.
“Vivo sotto misure di protezione da 10 anni, e quando subisco nuovi attacchi mi chiedono: non sarebbe meglio lasciare il Paese? Ma io rimango qui, sono loro che se ne devono andare. La soluzione del problema non è mandarmi in esilio: la soluzione è individuare i responsabili degli attacchi, e regolare l’industria del carbone a Coahuila, che per ora è nelle mani di politici e narcos”.
Sfidare le industrie estrattive sembra spesso una missione impossibile. Eppure, in tutto il mondo gli attivisti ambientali resistono e dimostrano che con metodi non violenti riescono a vincere le loro battaglie. In Marocco, presso il villaggio di Imider, da circa sei anni è in corso un sit-in permanente per protestare contro la più grande miniera d’argento del continente africano. Nel 2011, un gruppo di attivisti chiuse con dei lucchetti le valvole di un pozzo, sul monte Albban, da cui l’impresa stava prendendo acqua pur senza aver ricevuto i necessari permessi. Con l’apertura di quel pozzo, la miniera stava privando il villaggio dell’acqua necessaria a irrigare orti e uliveti, indispensabili in una regione dove la maggior parte della popolazione vive solo grazie a quello che coltiva.
Gli attivisti di Imider, dopo aver chiuso le valvole, crearono un accampamento intorno al pozzo, per proteggerlo giorno e notte: “All’inizio pensavamo di stare solo alcuni giorni. Sono passati sei anni, e siamo ancora qui in cima al monte Albban. Siamo qui perché c’è ancora speranza, e perché non possiamo accettare che la miniera inquini la nostra aria e la nostra terra”, dice il difensore Moja Tawja.
Attivisti dietro le sbarre
Circa la metà dei casi di cui si è occupata Front Line Defenders nel 2016 riguarda la criminalizzazione degli attivisti, definita nel rapporto come “la tattica preferita dei governi per spegnere la voce dei difensori e dissuadere tutti gli altri”. In Egitto, le autorità hanno accusato 37 organizzazioni e i loro membri di ricevere finanziamenti illegali dall’estero e di lavorare senza i necessari permessi: con questo pretesto, hanno congelato i conti di numerosi attivisti, hanno ritirato i loro passaporti, e li hanno arrestati. Alcuni rischiano fino a 25 anni di carcere.
L’ultima a essere stata colpita dai provvedimenti draconiani del governo è stata l’attivista Mozn Hassan. L’11 gennaio 2017 un tribunale del Cairo ha ordinato di congelare il suo conto e quello della sua ong, Nazra, la più importante organizzazione femminista del Paese.
Giro di vite contro attivisti e ong anche in Sudan, dove lo scorso 7 dicembre i servizi segreti hanno arrestato il difensore dei diritti umani Mudawi Ibrahim Adam. Da allora, Mudawi è imprigionato in un carcere segreto, dove si teme stia subendo torture e maltrattamenti. Il giorno dopo il suo arresto, alcuni poliziotti in borghese hanno fatto irruzione a casa sua, senza presentare alcun mandato ufficiale e senza dare alcuna spiegazione alla sua famiglia. Mudawi è il fondatore dell’ong SUDO, costretta a chiudere nel 2009 in seguito a un ordine governativo. L’organizzazione si occupava di documentare violazioni dei diritti umani, in particolare in Darfur, e di progetti di assistenza umanitaria. A causa del suo lavoro, Mudawi è stato arrestato per ben cinque volte nel corso della sua vita, con l’accusa di condurre attività che minavano la sicurezza nazionale.
“Quello che succede in Sudan, succede lontano dagli occhi della comunità internazionale. La violenza e la sofferenza in Sudan stanno aumentando, ma nessuno ne parla più. Per questo è importante che chi monitora le violazioni dei diritti umani continui il suo lavoro: bisogna resistere, bisogna continuare a lottare insieme alle comunità per cui si lavora”, aveva detto Mudawi in un’intervista precedente al suo arresto.
“Terroristi, guerriglieri, anti-Stato, spie”
Francisca Ramírez è un’attivista nicaraguense. Guida un movimento di protesta contro la costruzione di un canale tra l’Atlantico e il Pacifico, che taglierebbe in due il Paese, finanziato da una società di Hong Kong, e contro l’espropriazione delle terre dei contadini locali. Per fermare Francisca hanno provato di tutto: l’hanno minacciata, l’hanno pedinata, l’hanno arrestata arbitrariamente e hanno attaccato anche i suoi familiari.
“Il governo, la polizia, l’esercito… dicono tutti che sono una criminale, mi accusano di essere una narcotrafficante. E i giornali locali sono sempre pronti ad andarmi contro, a contraddirmi quando provo a spiegare perché protesto. Ogni volta che marciamo per reclamare i nostri diritti, il governo ci tratta da criminali e terroristi”, dice Francisca.
L’argomento “terrorismo” è sempre più usato anche dal governo turco. In seguito al tentato golpe nel luglio 2016, le autorità hanno arrestato migliaia di persone, tra cui 116 giornalisti, e chiuso 375 ong accusate di essere affiliate con il PKK, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan. Criticare la svolta autoritaria del governo e difendere i diritti umani, in Turchia, è un motivo sufficiente per essere definito un terrorista.
Il concetto stesso di diritti umani è sotto attacco anche nel cuore dell’Europa occidentale: “Lo scorso ottobre, la prima ministra britannica Theresa May ha criticato gli attivisti e avvocati per i diritti umani che investigano gli abusi commessi dai soldati del Regno Unito all’estero. Questo tipo di commenti genera una narrativa assai pericolosa, che mette in discussione l’universalità dei diritti umani, e costringe gli attivisti a dover difendere la legittimità del loro importante lavoro”, dice Andrea Rocca, responsabile del team Protezione difensori presso Front Line Defenders.
Dalla parte degli esclusi
Il lavoro dei difensori dei diritti umani non è soltanto legittimo e lodabile: purtroppo, è sempre più necessario.
Heloisa Helena Costa Berto è un’attivista brasiliana e sacerdotessa del culto candomblé. Difende i diritti della popolazione di discendenza afroamericana e le minoranze religiose, e documenta discriminazioni e violenze nei loro confronti.
Sino a due anni fa, Heloisa viveva a Vila Autódromo, una favela nel Sud di Rio de Janeiro. Nel 2015, quando furono avviati i lavori per la costruzione del parco olimpico, Heloisa iniziò a ricevere minacce e ordini di sfratto. Un giorno, senza alcun preavviso, arrivarono le ruspe. Le diedero solo poche ore di tempo per salvare i suoi pochi averi e le reliquie del suo tempio candomblé, e poi distrussero tutto. Nella sua comunità, 630 famiglie persero la propria casa a causa dei lavori per le Olimpiadi. “Hanno sfrattato tutti, hanno cacciato i poveri dai quartieri vicino al villaggio olimpico e li hanno fatti trasferire in case lontanissime dal centro”, racconta Heloisa. “Ora vivo a 60 chilometri da Vila Autódromo. L’hanno fatto per ghettizzarci e discriminarci ulteriormente”.
Heloisa e altri attivisti di Rio hanno denunciato, nei mesi precedenti alle Olimpiadi, attacchi brutali da parte della polizia verso la popolazione afroamericana e i residenti delle favelas: “Definiamo il Brazile come il Paese delle meraviglie, che accetta tutti. In realtà ci sono attacchi omofobi e razzisti, dove i neri e i poveri vengono uccisi quotidianamente, e dove noi che difendiamo i loro diritti siamo continuamente sotto attacco”.
Storie di resistenza
Il quadro che emerge dal rapporto annuale di Front Line Defenders è drammatico. Secondo il direttore dell’organizzazione, tuttavia, ci sono motivi per essere ottimisti: “Ancora una volta, raccontiamo storie di omicidi e repressione”, dice Anderson. “Ma il rapporto racconta anche le storie di moltissime persone che, nonostante i rischi, continuano a lottare in modo non violento per difendere i diritti umani. Spesso hanno paura, ma non si arrendono. Resistono. Sono loro la nostra unica speranza per un futuro migliore e dobbiamo fare di più per proteggerli e aiutarli”. Nel 2016, anche grazie alle campagne di solidarietà e al lavoro di advocacy di varie ong, numerosi attivisti incarcerati hanno riconquistato la libertà. Tra i casi più noti quello di Khadija Ismayilova, attivista e giornalista azera, liberata lo scorso 25 maggio dopo 18 mesi di prigionia. Khadija era stata arrestata nel 2015, con l’accusa di evasione fiscale, frode e abuso di potere. Tutte accuse inventate e infondate: Khadija fu incarcerata perché per anni aveva investigato gli affari sporchi del presidente azero Aliyev e scritto articoli che denunciavano gli scandali di corruzione. Khadija è stata scarcerata, ma le autorità azere le hanno imposto un periodo di prova di altri due anni, in cui l’attivista non potrà lasciare il Paese e nemmeno lavorare per testate straniere. Nonostante i limiti imposti dal governo, Khadija continua a lavorare alle sue inchieste: “Si sentono liberi di privarmi dei miei diritti, ma non riusciranno a fermarmi. Anche quando ero in prigione, sono riuscita a scrivere e a trasformare ogni sfida in possibilità: dobbiamo costruire case con le pietre che ci tirano addosso. Il mio suggerimento a chi vive sotto regimi autoritari è di rispondere alle minacce e alla repressione lavorando ancora di più, affinché il governo capisca che reprimerci non serve a nulla. Dobbiamo continuare a lottare per la nostra libertà”.
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