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Diritti / Intervista

Da Torino alla guerra in Ucraina: l’obiezione di coscienza è una storia ancora viva

© Centro Sereno Regis

La legge che ha riconosciuto l’obiezione di coscienza al servizio militare in Italia ha compiuto 50 anni da poco. Nel saggio “Non un uomo né un soldo” Marco Labbate ha ripercorso gli snodi della sua approvazione. Il 1949 fu un anno importante, con la condanna di Pietro Pinna, primo obiettore che impose un netto rifiuto della violenza

Il 30 agosto 1949 il Tribunale militare di Torino finisce su tutti i quotidiani nazionali: Pietro Pinna, finito sotto processo per “disubbidienza continuata” per aver rifiutato di svolgere il servizio militare, viene condannato a dieci mesi di carcere. A fianco del giovane c’è Bruno Segre, ex partigiano e avvocato, che “ha dovuto inventarsi la strategia difensiva, perché l’obiezione di coscienza non era prevista nell’ordinamento militare: non era quindi un reato. Si veniva processati per disobbedienza o renitenza alla leva”, spiega Marco Labbate, assegnista di ricerca in storia contemporanea presso l’Università di Urbino, che proprio con la vicenda di Pietro Pinna apre il suo ultimo saggio “Né un uomo né un soldo. Obiezione di coscienza e servizio civile a Torino” (edizioni Gruppo Abele). Il volume, sostenuto dal centro studi Sereno Regis, ripercorre le tappe della lotta collettiva che ha portato all’approvazione della cosiddetta “Legge Marcora” (772 del 15 dicembre 1972) che ha istituito l’obiezione di coscienza e la possibilità di svolgere il servizio civile per coloro che non volevano imbracciare le armi.

Dottor Labbate, da dove viene il titolo “Né uomo né un soldo”?
ML È una frase che è stata pronunciata dal deputato socialista Andrea Costa poco dopo l’eccidio di Dogali del 1887, in riferimento alle guerre coloniali italiane: “E per continuare le pazzie africane non vi daremo, ripeto, né un uomo né un soldo”. È stata usata anche dai movimenti anarchici a inizio Novecento e successivamente è stata ripresa dai movimenti antimilitaristi post 1968. Riguardo al libro questa frase ne sintetizza sia l’inizio sia la fine: si apre infatti con la vicenda di Pietro Pinna e si conclude con la nascita del centro studi Sereno Regis, sempre nel capoluogo piemontese, nel momento in cui all’interno del movimento pacifista italiano inizia un altro tipo di obiezione, quella alle spese militari.

Come nasce il movimento dell’obiezione civile a Torino?
ML Torino e la sua provincia sono stati un importante laboratorio su questo tema. Quello a Pietro Pinna fu il primo processo pubblico a un obiettore di coscienza e attorno a questo caso all’inizio degli anni Cinquanta nasce anche un primo nucleo di attivisti tra cui Bruno Segre e il poeta Guido Ceronetti. Questo piccolo gruppo prende contatti con la più grande organizzazione europea che si occupa di obiettori di coscienza: War resisters’ international. Non possiamo poi non menzionare il ruolo della chiesa valdese, presente in Piemonte soprattutto in Val Pellice, che nel 1958 con il suo massimo organo, il Sinodo, chiede il riconoscimento dell’obiezione di coscienza. Negli anni successivi l’attivismo si spegne e riprende nel 1965 quando, sempre a Torino, viene processato Giorgio Viola, cattolico, che si era espresso pubblicamente in merito in una riunione del circolo “Sacco e Vanzetti” di Milano (fondato da Giuseppe Pinelli) assieme a un attivista anarchico. Attorno a Viola si mobilita nuovamente un gruppo di attivisti, all’interno del centro di don Aldo Ellena da cui poi nasce il Corpo europeo della pace, che nel 1968 avrebbe preso il nome di Movimento antimilitarista internazionale.

La chiesa cattolica ha un ruolo in tutto questo?
ML Il cardinale di Torino, Michele Pellegrino, prende posizione a favore. Ma soprattutto, dopo il pronunciamento del Concilio Vaticano II, a Ivrea monsignor Luigi Bettazzi diventa presidente di Pax Christi e fa di questa organizzazione l’unico movimento cattolico che milita per il riconoscimento dell’obiezione di coscienza.

Tra il 1945 e 1972 706 obiettori sono andati a processo. È possibile tracciarne un ritratto?
ML Quasi il 90%, ben 622, sono testimoni di Geova. Solitamente si tratta di fiorai, artigiani, qualche operaio, spesso con un livello di scolarizzazione modesto. Sui restanti 84 possiamo fare un ragionamento vario: la maggior parte di loro fa obiezione dopo il 1968, in un contesto molto politicizzato in cui l’antimilitarismo viene visto come una componente delle lotte di classe e dell’anti-autoritarismo. C’è una forte componente studentesca e operaia, tendenzialmente sono persone fortemente politicizzate, ma non militano all’interno dei partiti politici, quando piuttosto nei movimenti.

Dal racconto che ne fa nel suo saggio, l’obiezione di coscienza nasce come movimento che unisce diverse minoranze: Testimoni di Geova, valdesi, anarchici, nonviolenti, una piccola parte del mondo cattolico. In che modo questa realtà così piccola nei numeri riesce a fare il salto che porta all’approvazione della legge sull’obiezione di coscienza?
ML
Se allarghiamo lo sguardo ci rendiamo conto che questa non è una novità: Franco Basaglia e i suoi collaboratori non rappresentavano la maggioranza degli psichiatri del loro tempo. E lo stesso vale per i movimenti femministi: erano una minoranza molto forte e agguerrita. Lo stesso accade con l’obiezione di coscienza che vede diversi piccoli gruppi presenti in diverse città italiane. A mio avviso sono soprattutto due i fattori che permettono a questo movimento di imporre la propria istanza: il primo è il fatto che il 1968 rappresenta un punto di svolta. Le persone che partecipano alle manifestazioni sono migliaia, c’è una forte componente giovanile che fa propria la questione antimilitarista in un’ottica di contestazione del sistema di potere presente in Italia. Il secondo fattore è l’ingresso nel mondo dell’obiezione di coscienza del Partito radicale di Marco Pannella, che ha questa capacità di dare ai diritti civili una rilevanza di massa, pensiamo ad esempio alle battaglie su divorzio e aborto. C’è poi un altro elemento, interno al mondo militare.

Quale?
ML L’esercito si andava sempre più professionalizzato e anche al suo interno era maturata la consapevolezza che un riconoscimento dell’obiezione di coscienza avrebbe avuto dei vantaggi, ad esempio escludere gli elementi più politicizzati. Il tutto in un contesto in cui iniziava a farsi strada l’idea della necessità di superare la leva generalizzata.

Veniamo all’oggi: chi sono gli eredi di quel movimento?
ML Penso innanzitutto ai giovani obiettori di Paesi come la Russia, l’Ucraina, la Turchia o Israele, che con la loro scelta di non imbracciare le armi rischiano di scontare lunghe pene detentive, molto più severe rispetto a quelle degli obiettori italiani. L’invasione russa dell’Ucraina, in particolare, ha riacceso un faro su questo fenomeno: l’obiezione di coscienza, infatti, era prevista in entrambi i Paesi ma con l’inizio del conflitto questa possibilità è stata di fatto cancellata. Questo ci ricorda che si tratta di una conquista che non è per sempre; in Italia tutt’ora la leva obbligatoria è stata semplicemente sospesa e un domani, di fronte a un’eventuale minaccia, potrebbe essere riattivata. La seconda eredità è il servizio civile universale, che rappresenta una grande occasione per portare un’educazione alla nonviolenza, alla cittadinanza attiva alla parità di genere, alla salvaguardia dell’ambiente che coinvolge ogni anno 40-50mila giovani.

Credo infine che tutte le forme di disobbedienza civile siano in qualche modo eredi di questa storia: si possono discutere i modi con cui gli attivisti per il clima stanno protestando in questi mesi, ma stiamo parlando di giovani che si mettono in gioco in prima persona, pagando immediatamente un prezzo anche piuttosto alto per le loro azioni di disobbedienza civile. Penso che uno dei contenuti più importanti del movimento per l’obiezione di coscienza sia quest’ottica collettiva che, ai tempi, guardava al dolore della guerra. Ecco, allo stesso modo chi oggi disobbedisce lo fa guardando al dolore della Terra con uno sguardo collettivo e universale.

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