Diritti / Intervista
Paola Olivetti. Il cinema della Resistenza
Per quasi 80 anni si sono perse le tracce del discorso integrale con cui Mussolini annunciò a Trieste le leggi razziali, il 18 settembre 1938. A ritrovarlo fu l’Archivio nazionale cinematografico della Resistenza di Torino. Un patrimonio del nostro Paese
Il 18 settembre 1938, durante la sua visita a Trieste, Benito Mussolini annuncia alla piazza dell’Unità e al Paese la decisione di adottare le leggi razziali e anti ebraiche. L’enunciazione dei principi e delle motivazioni della scelta dura 18 minuti. Nonostante i cineoperatori avessero ripreso tutto, quel breve frammento di storia scompare. Nella versione custodita dall’Istituto Luce, infatti, non se ne ritrova traccia. A distanza di quasi ottant’anni da quel discorso, i ricercatori dell’Archivio nazionale cinematografico della Resistenza di Torino (Ancr, ancr.to.it) ritrovano però una copia di quel cinegiornale dentro a un fondo di pellicole acquistato tempo prima e scoprono che è l’unica a contenere i 18 minuti sulle leggi razziali. Avvertono il “Luce”, restaurano insieme la copia e, dal febbraio 2017, la restituiscono al pubblico. Questo salvataggio dall’oblìo è solo un piccolo esempio della straordinaria attività e importanza di una realtà come l’Ancr, associato come altre 63 realtà all’Istituto nazionale Ferruccio Parri e alla “Rete degli istituti per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea” (già INSMLI, italia-resistenza.it).
Paola Olivetti collabora con l’Archivio nazionale cinematografico della Resistenza sin dal 1970 e ne è il direttore dal 1990. Prima di cominciare l’intervista, fa strada negli spazi dell’Archivio, che ha sede in un palazzo juvarriano di fine Settecento, in quello che fu il quartiere militare dei Savoia. Nel seminterrato c’è il deposito delle 2.270 “unità filmiche” in pellicola quasi integralmente digitalizzate -compresi due cortometraggi di Rossellini dati per perduti ma ritrovati nei fondi dell’Ancr-, al piano di sopra altre quattro stanze di laboratorio per montaggio o riversamenti digitali e un mini cinema, e poi ancora la biblioteca specialistica di cinema e storia fatta di 12mila volumi, la videoteca antica (tra VHS e betamax) e più di 5mila ore di registrazioni. Ai muri ci sono i manifesti delle prime rassegne e uno di “Cronaca di un amore” di Michelangelo Antonioni: ne sono custoditi altri 10mila, quante le fotografie di cinema.
Professoressa Olivetti, quando è nato l’istituto?
PO Tutto inizia nel 1966, a margine di un convegno su cinema e Resistenza in cui erano stati proiettati alcuni documentari raccolti qua e là sulla guerra partigiana e sulla Resistenza in Italia e in Europa. Da lì, Paolo Gobetti, figlio di Piero Gobetti e di Ada Marchesini, si rese conto che quei documenti correvano il rischio di sparire. Erano in pellicola, supporto che all’epoca era mal conservato e spesso difettoso. L’idea fu dunque quella di costruire un archivio cinematografico che affiancasse gli Istituti storici della Resistenza. In quel momento era nato l’Istituto nazionale del movimento di Liberazione a Milano, a Torino c’era l’Istituto piemontese e poi a Cuneo. Nel 1970 nacque formalmente l’Archivio come entità autonoma poi federata con l’istituto nazionale, con alle spalle oltre a Gobetti anche Ferruccio Parri, Franco Antonicelli, Giorgio Agosti.
Qual è stato il primo nucleo dell’Archivio?
PO Si tratta di una raccolta di pellicole sulla guerra partigiana che ovviamente erano pochissime, in parte qualcuna “ufficiale” come “Aldo dice 26×1”, “Giorni di gloria” e altre amatoriali. Però sin da subito nel progetto di Paolo Gobetti si innesta un altro tipo di percorso: l’idea che anche raccogliere le testimonianze filmate di chi ha vissuto la vicenda partigiana sia una cosa importante per la storia, per la memoria e in generale per la coscienza di un Paese. Quindi nasce questo progetto, inizialmente realizzato in pellicola alla fine degli anni Sessanta e ben presto passato al video-tape.
Da dove partì Gobetti?
PO Una delle prime campagne di raccolta di interviste è quella su suo padre. Raccolse così le testimonianze degli amici di Piero -Giuseppe Prezzolini, Lelio Basso, Mario Fubini, Giuseppe Saragat e molti altri-, i più bei nomi della cultura italiana negli anni Venti, antifascisti, per comprendere e mostrare qual era stato il loro percorso. Dalla giovinezza e dagli ideali, chi continuò e chi invece si perse.
In seguito arrivarono i video-tape.
PO In Italia precisamente nel 1973. Erano telecamere amatoriali che registravano le immagini con affiancato l’apparecchio di registrazione su nastro magnetico in bianco e nero. Con quello strumento venne effettuata un’altra campagna di raccolta di testimonianze sulla guerra di Spagna, a partire dai combattenti piemontesi nelle brigate internazionali e poi allargando la ricerca ai combattenti italiani, agli esuli antifranchisti in Francia e poi in Spagna. È stato un corpus di interviste molto importante perché ne sono state raccolte oltre 300 ore, pur con questi strumenti “primitivi”. Si tratta di una memoria eccezionale tanto che a 50 anni da quel lavoro abbiamo stipulato una convenzione con il “Memorial democratic” di Barcellona che è interessato a mettere online sul proprio sito queste testimonianze.
Queste campagne di raccolta continuano?
PO Sì. Quando è possibile raccogliamo le memorie oramai di nonagenari, quelli che si possono trovare. Il tutto dovendo fare i conti con le risorse economiche e con la voglia di fare. La nostra è una struttura che vive sul filo del rasoio, in questo momento più che mai. Ci sono stati anni relativamente più favorevoli, in cui è stato possibile anche dare borse di studio e collaborazioni e si sono anche formati giovani, molti dei quali passati in Rai oppure hanno fatto la loro carriera di registi come Daniele Gaglianone o Alessandro Amaducci, che è diventato docente all’Università di Torino. Oggi la situazione è molto difficile perché possiamo contare solo su alcuni part-time (cinque), su un insegnante distaccato dal Miur e sul volontariato, e non si riesce più neanche tanto a formare i giovani studenti o tirocinanti, nel senso che formi, ma poi per che cosa? Qualche anno fa gli sbocchi c’erano, quindi l’Archivio poteva avere un ruolo in qualche modo intermedio anche di costruzione educativa, formativa e preparare così al cinema in una dimensione più profonda, perché più fondata storicamente. Adesso tutto questo è più difficile.
Perché?
PO Noi dobbiamo mantenere il nostro patrimonio, specialmente la parte che riguarda gli audiovisivi e che richiede anche investimenti in tecnologie che cambiano continuamente. Il problema è che non sai mai su che cosa puoi contare all’inizio dell’anno e neanche alla fine. Le risorse a disposizione sono costituite prevalentemente dai bandi che ormai sono diventati la realtà su cui possono sopravvivere le istituzioni culturali. Tenga presente che noi viviamo con un budget annuale molto modesto, compreso tra i 120 e 130mila euro. I finanziamenti giungono in parte da Regione Piemonte, tramite la legge sugli istituti storici della Resistenza, qualcosa dal ministero dei Beni culturali, qualcosa dalle Fondazioni bancarie. Il Comune di Torino è quasi sparito. Ricaviamo poca cosa dalla cessione di diritti e da una minima attività commerciale accessoria.
A metà aprile 2018, l’Archivio ha presentato una serie di clip di una decina di minuti sulla Costituzione immaginate per le scuole. Che tipo di ruolo può svolgere un istituto come il vostro in tempi di rievocazioni e manifestazioni dichiaratamente fasciste?
PO Non so se dico una cosa eterodossa. Mi riferisco a Paolo Gobetti e a un’iniziativa che aveva lanciato nei primi anni Settanta a Torino. In quel periodo c’era una specie di veto sull’immagine di Mussolini. Paolo invece aveva organizzato a Torino una manifestazione per far vedere i cinegiornali fascisti. Fare vedere i documenti in un modo il più possibile libero e aperto, sgombro da retorica, è forse il modo migliore per riuscire, non dico a sconfiggere il fascismo più o meno strisciante, ma quanto meno ad aprirsi a un dialogo non pregiudiziale. Quell’iniziativa ebbe grande successo e fu importante che i cinegiornali fossero stati proiettati, con presentazioni e discussioni, proprio dall’Archivio cinematografico della Resistenza, sottoponendoli a una visione critica e sottraendoli quindi alla propaganda
Dovremmo tornare a quell’approccio con i più giovani?
PO I tempi sono profondamente diversi. Il problema però è più quello di riuscire a smuovere coscienze morte. Vedo un profondo disinteresse. Nei rapporti che abbiamo con i giovani l’impressione è quella di avere a che fare con muri di gomma. Molto attenti e pronti a smanettare, ma con una difficoltà di fondo: mi sembra ci siano salti molto forti tra le generazioni, a differenza di un tempo dove era più un piano inclinato.
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