Crisi climatica / Approfondimento
Chi paga la mancata transizione del Sud-Est asiatico, nuova culla del gas
Gli undici Paesi della macroregione dell’Asia hanno sempre basato il proprio sviluppo sul carbone. Il recente abbandono, però, ha trasformato l’area nell’hub per l’estrazione di metano. Non c’è pace e giustizia per le popolazioni locali
Incastonato tra l’Oceano Pacifico e quello Indiano, il Sud-Est asiatico è una macroregione dell’Asia a vocazione prevalentemente marittima. Gli undici Paesi che la compongono non vantano infatti solo culture diverse, ma anche un’incommensurabile ricchezza di biodiversità, soprattutto marina, perfettamente rappresentata dal “Triangolo dei coralli”. Tra le più popolose al mondo, quest’area ha basato il suo recente sviluppo economico sull’uso massiccio dell’energia prodotta dal carbone, soffrendo tuttavia dell’estrema volatilità dei prezzi e di eventi estremi causati dal cambiamento climatico, come il tifone Haiyan, che nel 2014 ha colpito le Filippine causando circa diecimila vittime.
Anche grazie al lavoro di pressione e resistenza delle Ong, dei movimenti civili e delle comunità locali nei confronti dell’industria del carbone, la regione sta progressivamente abbandonando il più inquinante tra i combustibili fossili. Tuttavia si sta rapidamente trasformando nell’hub asiatico del gas “naturale” liquefatto (Gnl), il nuovo business da cavalcare per l’industria fossile e le istituzioni finanziarie che la sostengono. Come sottolineato nel report “Financing a fossil future – Tracing the money pipeline of fossil gas in Southeast Asia”, prodotto dall’organizzazione filippina Center for energy, ecology and development (Ceed), la nuova capacità di gas fossile in fase di costruzione nel Sud-Est asiatico è più grande di qualsiasi altra regione del mondo, superando persino l’Asia orientale, che comprende giganti come Cina e Repubblica di Corea. Tra il gennaio 2016 e il giugno 2022 sono entrati in funzione o sono stati proposti ben 5.190 chilometri di gasdotti.
Il Vietnam guida l’espansione di infrastrutture fossili, seguito solo dalle Filippine dove l’insieme dei progetti proposti dalla San Miguel global power holdings corporation (Smgp) rappresenta la metà dell’espansione delle infrastrutture prevista nel Paese ed è tra i più ampi dell’intera regione. La sola Thailandia conta quasi un terzo della nuova capacità di importazione di Gnl in fase di sviluppo nell’area, mentre in capo a Cambogia e Indonesia graveranno il 65% dei nuovi gasdotti di quella zona. Diverse sono le istituzioni finanziarie che si trovano dietro questo business e gran parte di loro hanno sede nei Paesi occidentali: le europee Bnp Paribas, Allianz e Deutsche Bank, Ing, Credit Suisse e Ubs, Barclays e Standard Chartered, così come le statunitensi BlackRock, Citigroup e Morgan Stanley.
Nonostante l’espansione dell’industria del gas venga presentata dai politici locali come nuovo traino per la crescita economica, la sicurezza energetica dell’intera regione è messa in serio pericolo proprio dal business fossile. I Paesi che non dispongono di una fornitura locale o che la stanno esaurendo dovranno importare Gnl -soprattutto da Qatar e Stati Uniti- e costruire le infrastrutture necessarie per riceverlo. Questo però potrebbe non essere sufficiente: i Paesi del Sud-Est asiatico, infatti, dovranno entrare in un mercato che sembra già saturo. I maggiori importatori di Gnl al mondo (tra cui Cina e Giappone) si trovano già in Asia e l’aumento della domanda nell’area, unita all’instabilità politica dei principali esportatori (tra cui la Russia), hanno già provocato una stretta dell’offerta e un’impennata dei prezzi a livelli record.
Le banche dei Paesi occidentali, ostacolando la transizione nella regione, condannano a un futuro fossile popolazioni che già soffrono il peso maggiore della crisi climatica
Per non parlare della minaccia che questi progetti rappresentano per il clima e l’ambiente, in modo particolare per la ricca biodiversità marina presente nella regione. Ne è un caso evidente il Verde island passages (Vip) conosciuto come l’Amazzonia degli Oceani, stretto che separa le isole di Luzon e Mindoro nelle Filippine. L’area ospita il 60% di tutte le specie di pesci marini conosciute al mondo ma è già alle prese con numerose minacce legate al cambiamento climatico e all’industria pesante, essendo una delle rotte marittime più trafficate del Paese. Vip si trova oggi in grave pericolo, poiché una delle quattro province limitrofe, quella di Batangas, si sta rapidamente trasformando in un vero e proprio centro nevralgico per l’industria del gas. Batangas ospita cinque delle sei centrali a gas esistenti nelle Filippine, otto delle 27 nuove centrali proposte, sette dei nove terminal per l’import di Gnl previsti. Impianti che non solo avranno conseguenze sul Passaggio dell’isola Verde e la vita marina che vi prospera ma anche sulla popolazione locale, come le comunità di pescatori che stanno opponendo tenace resistenza al progetto dell’impianto di importazione Gnl di Shell che prevede nuove strutture in mare e sulla terraferma.
Non mancano violente forme di repressione, che mettono a tacere le voci di chi contesta l’industria fossile. È il caso di Dang Dinh Bach, attivista ambientale che a gennaio 2022 è stato imprigionato con l’accusa di evasione fiscale e condannato a cinque anni di carcere, dopo aver guidato una campagna per ridurre la dipendenza del Vietnam dal carbone. Non gli è stato concesso un processo equo, non gli è stato permesso di incontrare il suo avvocato nei sette mesi successivi al suo arresto ed è stato sottoposto a una condanna molto più dura rispetto all’accusa di evasione fiscale. Il caso di Bach non è l’unico. Nguy Thi Khanh, vincitrice del Goldman environmental prize nel 2018 e celebre attivista per l’ambiente nel Paese, è stata condannata nel giugno 2022 a due anni di reclusione per presunta evasione fiscale.
L’Italia rischia di divenire complice di questa spirale di repressione, dato il probabile coinvolgimento di Sace -l’assicuratore pubblico italiano controllato dal ministero dell’Economia- nel garantire progetti di gas fossile per circa 1,3 miliardi di dollari in capo a Petrovietnam, società energetica a controllo statale.
A fronte di questo scenario, diverse organizzazioni ambientaliste e per la giustizia climatica del Sud-Est asiatico, riunitesi nel gennaio 2023 insieme a partner internazionali, tra i quali ReCommon, alla conferenza “Protect Vip”, chiedono urgentemente di interrompere il finanziamento pubblico e privato a progetti di gas fossile che, oltre a mettere in pericolo ecosistemi e habitat biologicamente diversi e di importanza critica per la salute del Pianeta, contribuiscono alla violazione sistematica dei diritti umani. Una richiesta indirizzata anche alle banche dei Paesi occidentali che, con il solo pallino del profitto, stanno ostacolando ogni percorso di giusta transizione ecologica nel Sud-Est asiatico e condannando a un futuro fossile popolazioni che già sopportano il peso maggiore della crisi climatica in corso.
Lo spazio “Fossil free” è curato dalla Ong ReCommon. Un appuntamento ulteriore -oltre alle news su altreconomia.it– per approfondire i temi della mancata transizione ecologica e degli interessi in gioco
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