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Diritti / Reportage

Celebrando a Roma una delle feste più importanti per i fedeli musulmani

Una cliente al negozio "Mercato arabo" di Centocelle © Giulia Della Michelina

Anche nella capitale si sono svolte le preghiere collettive per l’Eid Al-Adha, la festa del sacrificio, da parte dei praticanti della seconda religione più diffusa in Italia. Reportage tra le voci delle seconde generazioni, che mostrano l’importanza della ricorrenza e come diverse comunità in diaspora mantengano vive le proprie tradizioni

“I miei amici non musulmani mi fanno sempre gli auguri. All’inizio non sapevano bene che cosa dire, così glielo ho insegnato: si dice ‘Eid Mubarak!'”. Nata in Italia da genitori bengalesi, Prima Khanam, 24 anni, sorride mentre racconta come ha celebrato l’Eid Al-Adha, una delle feste più importanti per i fedeli musulmani. A Roma, nel quartiere di Centocelle, dove vive, si sono svolte delle preghiere collettive dal 28 giugno al 2 luglio. In Piazza dei Mirti queste hanno riunito la comunità che pratica la seconda religione più diffusa in Italia (i fedeli musulmani sono infatti 2,7 milioni, italiani e non, pari al 4,9% della popolazione residente, secondo uno studio del Pew research center, riportato da Openpolis). 

“Durante questa festa adempiamo al sacrificio per devozione al nostro profeta Abramo”, spiega Fabian Durrani, 25 anni, di origine bengalese. Il riferimento è al sacrificio del figlio di Abramo, che all’ultimo istante un angelo sostituisce con un agnello, come raccontano sia la Bibbia sia il Corano. 

“L’Islam non impone di sacrificare l’animale -spiega Rabeh Ibrahim, ventinovenne napoletano di origine marocchina e tunisina-, se lo risparmi è ancora meglio perché si salva una vita. Ma i soldi che avresti speso nel sacrificio devono andare in beneficenza, così si mantiene l’equilibrio nella Umma, la comunità islamica”. Ibrahim, o Abramo, come lo chiamano qui a Centocelle, come ogni anno ha venduto diversi agnelli ai clienti del negozio che gestisce con sua moglie, che si trova accanto a uno shisha bar e a due passi da un centro culturale islamico

La vicina Torpignattara invece “sembra un piccolo Bangladesh”, scherza Khanam. Nei giorni di festa il quartiere si è riempito dei colori di palloncini e bandiere, degli abiti delle donne e di quelli lunghi degli uomini di ritorno dalla moschea. “Anche se qui non ci sono tutti i miei parenti, la comunità bengalese è diventata come una grande famiglia -prosegue Prima-, dopo la preghiera andiamo sempre in un bar a Largo Preneste a fare colazione e festeggiare insieme”. Riunirsi con i familiari è uno degli aspetti più importanti dell’Eid Al-Adha ma per i figli di immigrati non sempre è possibile. Lo racconta Abderrahim, mediatore interculturale di origine marocchina, “la festa rafforza i legami perché cerchiamo di incontrarci almeno una volta all’anno. Ma non è semplice: le mie sorelle stanno in Francia, i miei genitori in Sicilia e io vivo a Roma”.

Quando si festeggia in Italia, le diverse comunità musulmane cercano di ricreare l’atmosfera dell’Eid. Si cucinano i piatti tipici, si indossano vestiti nuovi e si prega insieme. Ma se in Marocco, Bangladesh, Tunisia tutto il Paese è in festa, in Italia i fedeli incontrano diverse difficoltà. L’atto del sacrificio è limitato da diverse restrizioni. Le famiglie devono spostarsi in campagna per compiere il rito, oppure rivolgersi a mattatoi e fattorie e comprare la carne già pronta, “festeggiando all’italiana” suggerisce Ibrahim.

Inoltre, il giorno dell’Eid Al-Adha varia in base al calendario lunare islamico. Può capitare, come quest’anno, che la festa cada in un giorno feriale e che non tutti possano assentarsi. “C’è una mancanza di riconoscimento a livello scolastico, universitario e lavorativo”, spiega Sara, ventisettenne di origine tunisina. “Ma anche da parte delle istituzioni -prosegue-, sarebbe bello ricevere gli auguri ufficiali, come accade in altri Paesi occidentali come il Regno Unito o il Canada“.

Sara prepara il caffé turco nella sua cucina © Giulia Della Michelina

Tale mancanza di riconoscimento è evidente anche nell’assenza di spazi adatti al culto. Secondo una stima di Fabrizio Ciocca, sociologo e studioso dei fenomeni migratori, pubblicata nel 2017, i fedeli musulmani a Roma sarebbero circa 120mila. Nei quartieri di Centocelle e Torpignattara ci sono diverse moschee, ma i giovani intervistati raccontano che nessuna è così grande da accogliere tutti i fedeli nel giorno dell’Eid. Per questo le preghiere si sono svolte nelle piazze. “La moschea di Centocelle è piccola, non c’è nemmeno l’uscita di emergenza. Mi scoccia portarci mio nipote -racconta Mariam al Qashawi, infermiera di 27 anni e sorella di Ibrahim-, siamo costretti a usare i garage quando la Costituzione italiana dovrebbe invece garantirci luoghi di culto di pari dignità rispetto a quelli cattolici. La comunità è fatta di persone che pagano le tasse in Italia”. 

Molti fedeli preferiscono riunirsi nella Grande Moschea di Roma, ma non per tutti è la scelta migliore. “La comunità marocchina più numerosa si trova a Centocelle, non so perché hanno scelto di costruirla così lontano, ai Parioli -si domanda Abderrahim-. Io ci sono stato due o tre volte e mi dispiace dirlo ma è desolata, pochissima gente ne usufruisce rispetto alla vastità degli spazi che offre”. 

Abderrahim gioca a scacchi con i suoi amici in un bar di Roma © Giulia Della Michelina

Un problema che Mohammad Idrees Jamali, mediatore interculturale afghano, conosce bene: “La mancanza di spazi o di autorizzazioni è un ostacolo che i musulmani affrontano in tutta Italia, non solo a Roma”. Mentre la comunità islamica prova a costruire i propri luoghi di preghiera o a trovare soluzioni alternative, alcune moschee vengono chiuse o rischiano di scomparire.

“A Torpignattara c’era una bella moschea, con un’area riservata alle donne, con tanti libri e anche dei corsi -racconta Prima-. Era l’unico spazio che frequentavo, e non mi sentivo giudicata perché non porto il velo. Ma poi l’hanno chiuso perché i vicini si lamentavano e chiamavano sempre i carabinieri”. 

La moschea offre una possibilità d’incontro: “Essere musulmani ci fa sentire fratelli, soprattutto in un territorio straniero o che ci considera stranieri”, come commenta Sara. Tra i giovani c’è forte mescolanza, aggiunge Mariam: “Noi non badiamo alle origini perché siamo nati e cresciuti qui”. L’italiano diventa dunque la loro lingua franca. “Io non capisco benissimo il bengalese -racconta Fabian- ho difficoltà con i discorsi complessi dei riti del Venerdì, altri non comprendono l’arabo classico. Per questo organizziamo eventi in italiano, che è l’unica lingua che ci unisce tutti”. I giovani hanno la sensazione di vivere con un piede in Italia e uno nel Paese di provenienza dei genitori. “Cerchiamo di crearci una nostra identità che è fatta di due mondi paralleli”, dice Sara. E questo si riflette anche durante le feste. Fabian, sorridendo, conclude così: “Dobbiamo continuare a creare l’Eid italiana, secondo me siamo a buon punto”.

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