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Tra gli alpeggi, con i ribelli del Bitto dove si produce lo “Storico”
Non solo un formaggio di altissima qualità, ma una produzione “lenta” che rispetta i ritmi della natura ed è perfettamente integrata nel territorio. Il sistema di pascolo tradizionale, infatti, permette di tutelare la biodiversità delle Alpi
Il Bitto ha una storia millenaria: tra il Cinquecento e l’Ottocento il “formaggio della Valle del Bitto” -così è menzionato nelle prime testimonianze di cui si ha traccia- veniva scambiato per le vie commerciali sulle montagne delle Orobie Valtellinesi, tra Como e Bergamo. Da vent’anni però il Bitto è al centro di un’aspra contesa, legata al disciplinare Dop che ha allargato -e secondo alcuni stravolto, vedi Altreconomia 114- le modalità di produzione del formaggio, con il fine di permetterne una più ampia commercializzazione.
Non potendo -e volendo- attenersi ai disciplinari imposti, un gruppo di pastori e casari, stretto intorno al Presìdio Slow Food di stanza a Gerola Alta (Sondrio), ha preferito cambiare il nome del proprio prodotto da Bitto a “Storico Ribelle”, pur di non perdere le sue peculiarità. L’operazione causa molto scalpore e molte critiche e riporta all’inesaurito dibattito su tradizione e modernizzazione, tra il vecchio e il nuovo, tra il denaro e la felicità, tra il globale e il locale.
I disciplinari per la produzione del formaggio Bitto Dop sono severi. Pretendono norme igieniche elevate, impiego di materiali asettici, tracciatura dei lotti, della provenienza del latte, marchiatura, condizioni di stoccaggio stabili e conformi. Queste pratiche si applicano con profitto nei piccoli caseifici e nelle industrie casearie, ma secondo il Consorzio Salvaguardia Bitto Storico, costituitosi per mantenere vive le pratiche della tradizione e che comprende ormai solo otto casari, stridono fortemente quando vanno a intromettersi in consuetudini centenarie e produzioni artigianali e pastorali di piccolissima scala.
Tali produzioni artigianali hanno a loro volta le proprie severità: innanzitutto praticano il pascolo “turnato”, ovvero nei tre mesi di alpeggio nel periodo estivo la mandria è condotta attraverso un percorso a tappe, che va dalla stazione più bassa a quella più alta. Lungo la via, i tradizionali calècc -millenarie costruzioni in pietra che proteggono la zona di caseificazione- fungono da baita di lavorazione itinerante, sempre a portata di mano, affinché il latte non debba viaggiare se non per pochi metri, e possa essere lavorato prima che il suo calore naturale si disperda.
Un’altra pratica, promossa dai produttori storici, è la monticazione, insieme alla mandria bovina, delle capre Orobiche. Il latte di questi animali entra per un 10-20% nella produzione del formaggio e gli conferisce una speciale aromaticità e persistenza. Per assicurare il massimo controllo delle condizioni sanitarie del bestiame, i monticatori mungono solo a mano, tutti i giorni, due volte al giorno. La salatura del formaggio avviene preferibilmente a secco: in questo modo si forma una crosta più delicata, garanzia di una migliore maturazione.
Infine è vietato l’uso di integratori nell’alimentazione dei bovini, rigorosamente di razza rustica come la bruna alpina, che potrà pur avere una bassa produzione di latte ma è tipica del territorio. Il bestiame è nutrito solo con erba: esclusi mangimi e fieno almeno nella stagione dell’alpeggio. A essere vietato è anche l’uso di additivi, conservanti o fermenti selezionati nella produzione del formaggio.
Molte di queste severità sono assai difficili da rispettare, necessitano di scelte lavorative estreme, la lontananza dalla famiglia e dalle comodità per molti mesi all’anno, vivere e dormire in alpeggi fumosi, spostandosi sempre più in alto settimana dopo settimana, e rispettando il ritmo del bestiame, senza mai concedersi una pausa. Sono scelte di vita e di passione più che aspetti tecnici di un mestiere.
La rottura tra lo “Storico” e la Dop ha fatto sì che gli occhi di tutto il mondo si siano posati su questa piccola valle, a partire dalla quale il presidente del consorzio, Paolo Ciapparelli, gira l’Italia per spiegare i perché di questa coraggiosa presa di posizione. “Per noi sono inaccettabili sia l’introduzione dei mangimi sia dei fermenti industriali. Rispetto al primo problema, il sistema di pascolo è semplice ma straordinario, e soprattutto tutela le Alpi: se inserisci i mangimi distruggi la pratica del pascolo. Invece lo Storico è un grande prodotto anche perché capitalizza l’ambiente. Rispetto ai fermenti, noi preferiamo valorizzare la biodiversità di ogni singolo pascolo”.
Oggi lo “Storico” ha guadagnato di prezzo sul mercato dei prodotti di qualità ma soprattutto, è ancora buono come un tempo e invecchia come un vino pregiato anche fino a dieci anni, guadagnando anno dopo anno in sfumature e caratteristiche organolettiche. “Grazie alla visibilità che ci ha dato Slow Food, oggi i nostri formaggi sono molto riconosciuti, e una forma di 10 anni può valere anche 390 euro al chilo. Questo ci ha permesso di sottoscrivere un accordo coi produttori per fissare il prezzo di acquisto a 17 euro al chilo -il più alto al mondo probabilmente-, a riconoscimento anche della loro attività di salvaguardia culturale e ambientale”. Tuttavia il numero di produttori dello “Storico” è in calo: “Siamo partiti in 16, oggi siamo la metà. Ma ci sono alcuni giovani interessati. Anche chi ci accusava di essere dei ‘trogloditi’ non se la passa bene: anche loro sono ridotti del 50%. È stata una battaglia in cui abbiamo perso tutti”.
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