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Esteri / Intervista

Arrampicare in Palestina non è come arrampicare altrove. Intervista a Tim Bruns

Un climber palestinese (Tawfiq) arrampica nella falesia di Ein Fara nella West Bank prima che venisse impedito l'accesso ai palestinesi stessi © Miranda Oakley

Il climber statunitense ha contribuito a fondare il movimento dell’arrampicata sportiva in Palestina e a promuovere il diritto all’autodeterminazione oltreché il legame con la terra. Condizioni negate dall’occupazione israeliana. Ci racconta come sta oggi questo sport dinanzi alla catastrofe umanitaria di Gaza e della Cisgiordania. “Quando le cose sembrano davvero buie trovo la luce nei miei amici palestinesi”

Tim Bruns è un climber statunitense e si definisce un “imprenditore sociale con la comprovata capacità di rendere operative le grandi idee”. In effetti, dopo un viaggio in Palestina nel 2012, si è reso conto delle grandi potenzialità che c’erano per lo sviluppo dell’arrampicata, non solo in termini sportivi.

Dopo due anni ha guidato il primo viaggio di “Wadi climbing”, che all’inizio era solo il nome di una pagina Facebook che faceva riferimento a un gruppo di volontari e oggi è una delle realtà di riferimento dell’arrampicata sportiva palestinese con una palestra indoor a Ramallah e oltre 200 vie di arrampicata “chiodate” sulla roccia. Nel 2014 Bruns ha scritto con Benjamin Korff e Albert Moser la guida “Climbing Palestine” e nel 2023 ha prodotto lo splendido documentario “Resistance Climbing” (che si può vedere gratuitamente qui).

Lo intervistiamo in un momento drammatico per il popolo palestinese: nella Striscia di Gaza, dopo un fragile cessate il fuoco, sono ripresi i bombardamenti dell’esercito israeliano che dal 7 ottobre 2023 hanno ucciso oltre 50mila persone. Anche anche in Cisgiordania la situazione è diventata molto più critica da quando Tel Aviv ha lanciato, il 21 gennaio 2025, l’operazione “Iron Wall”.

Secondo l’Unicef dal 7 ottobre 2023 fino a febbraio 2025 sono stati uccisi in Cisgiordania 195 bambini (un aumento del 200% se paragonato ai 16 mesi precedenti) e solo nei primi due mesi del 2025 ne sono morti 13. Nel Nord, nei campi per rifugiati di Jenin, Tulkarem e Nur Shams, le forze di sicurezza israeliane hanno ucciso, al marzo 2025, 44 palestinesi (fonte Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani, Ohchr), molti dei quali erano disarmati e non rappresentavano una minaccia.

È il caso di Sundus Shalabi, 23 anni, che il 9 febbraio stava fuggendo dal campo profughi di Nour Shams con il marito quando le forze di sicurezza israeliane hanno sparato contro la loro auto, ferendo gravemente il marito. Quando ha lasciato l’auto in cerca di sicurezza è stata colpita e uccisa insieme al figlio che portava in grembo.

Oltre alle uccisioni arbitrarie ci sono poi gli sfollamenti di massa. Secondo l’agenzia Unrwa, l’operazione israeliana ha finora sfollato oltre 40mila palestinesi. L’Ohchr riceve rapporti quotidiani dai residenti sfollati che descrivono come questo avviene e lo è schema sempre lo stesso. Le persone vengono fatte uscire dalle loro case dai soldati e dai droni sotto la minaccia della violenza. Sono poi costrette a lasciare le loro città dai cecchini posizionati sui tetti intorno alle case usate come postazioni dalle forze di sicurezza israeliane.

Una giovane donna ha raccontato di essere fuggita dalla sua casa di Tulkarem in preda al panico, a piedi nudi e con i suoi bambini di uno e quattro anni, quando ha sentito le forze di sicurezza israeliane minacciare con gli altoparlanti delle jeep e dei droni che chiunque non fosse uscito immediatamente sarebbe stato colpito. Ha supplicato gli agenti di poter tornare dentro per prendere le medicine per il cuore del più piccolo o per indossare almeno le scarpe. “Lasciate questo posto e dimenticate il campo. Non tornerete mai più. Muovetevi ora prima che lo distruggiamo completamente”: è stata la risposta che ha riferito nella sua testimonianza. Anche altri racconti hanno dato conto di membri delle forze di sicurezza israeliane che avrebbero detto ai residenti sfollati di “dimenticare” e “dire addio” alle loro case, sottolineando che non sarebbe stato loro permesso di tornare. Un residente ha riferito che gli è stato detto di “andare in Giordania”. Ma cominciamo dall’inizio.

Tim, come è cominciato tutto e che cosa ti ha motivato a intraprendere questo percorso?
TB Tutto è cominciato quando ho iniziato a studiare l’arabo all’università. Avevo una meravigliosa professoressa di arabo, Mona, che mi ha incoraggiato ad approfondire la materia in Giordania. Mentre ero in Giordania, nel 2012, ho iniziato a sentire parlare e a interessarmi alla questione palestinese. Il 60% dei giordani è infatti di origine palestinese, dai rifugiati del 1948, e anche la famiglia con cui vivevo era palestinese. Inoltre, da amante e praticante dell’arrampicata sportiva, mi sono immerso nella scena unica e accogliente dell’arrampicata giordana. Quando io e il mio amico Will abbiamo visitato la Palestina per la prima volta quell’autunno ci è venuta un’idea: perché non costruire una palestra di arrampicata in Cisgiordania? All’epoca non c’erano praticamente arrampicatori palestinesi ma c’era un grande potenziale per l’arrampicata outdoor.

Tim Bruns arrampica nella West Bank © Julie Ellison

Arrampicare in Palestina non è come arrampicare altrove, il senso di libertà che si prova quando con il proprio corpo si compiono gesti e movimenti nuovi, sotto l’occupazione ha un significato particolare?
TB Tra le prime cose che ogni visitatore della Palestina noterà ci sono le soffocanti restrizioni di movimento imposte dalle forze di occupazione israeliane. È difficile per i palestinesi andare da qualsiasi parte senza incontrare i militari israeliani, i checkpoint, le barriere stradali o gli insediamenti dei coloni. Questo è intenzionale. Israele ha progettato l’infrastruttura fisica della Cisgiordania per rendere il movimento, e quindi la vita, difficile o impossibile. Nel 2014 abbiamo iniziato a pubblicizzare e guidare viaggi di arrampicata per principianti in piccole falesie vicino alla città palestinese di Ramallah. All’inizio siamo rimasti sorpresi dalla popolarità di queste escursioni ma presto ci siamo resi conto che rappresentavano una rara opportunità per i palestinesi di godersi il movimento nell’ambiente naturale. L’arrampicata è simbolica in questo senso. Nell’arrampicata si può sperimentare la libertà di movimento e si possono superare le sfide. Lo abbiamo visto ogni volta che abbiamo accompagnato dei gruppi e abbiamo visto qualcuno superare la paura, usare il proprio corpo in modo creativo e spingersi oltre le proprie possibilità.

Arrampicare sulla roccia permette di rafforzare ancora di più il legame con la terra e l’ambiente, che cosa significa questo in Palestina? Arrampicare, qui, può essere considerato un atto politico?
TB In “Resistance Climbing”, il documentario del 2023 sull’arrampicata in Palestina, il mio amico Faris dice che “l’esistenza è resistenza”. Per il popolo palestinese tutto ciò che connette alla terra, agli altri e a se stesso è resistenza al colonialismo sionista che cerca di espropriare la terra, di disconnetterli gli uni dagli altri e, in definitiva, di distruggerli come popolo. Quindi, sì, l’arrampicata può essere considerata un atto politico in questo contesto. Perché altrimenti i soldati israeliani arresterebbero gli scalatori palestinesi in falesia? Gli scalatori israeliani hanno rubato e rinominato le vie degli scalatori palestinesi. I coloni israeliani hanno rubato intere aree di arrampicata. Molti scalatori in tutto il mondo hanno il privilegio di separare la loro vita ricreativa da quella politica. I palestinesi no.

La palestra di arrampicata di Wadi Climbing a Ramallah © Tim Bruns

Invece, nella vita di tutti i giorni, che cosa vuol dire per tanti bambini e ragazzi avere a disposizione associazioni, palestre e falesie attrezzate per praticare questo sport?
TB Penso che la crescita dell’arrampicata palestinese offra ai giovani l’opportunità di godere del bellissimo paesaggio. E ora che la Palestina è stata accettata nell’Ifsc (l’International federation of sport climbing), spero che ci saranno più opportunità per gli arrampicatori palestinesi di viaggiare e di entrare in contatto con la comunità internazionale. In questo momento, con l’escalation di violenza dei coloni e dell’esercito israeliano in Cisgiordania, per i ragazzi palestinesi è più difficile e pericoloso che mai vivere all’aria aperta. Ma anche la comunità palestinese dei climber ha l’opportunità di viaggiare e di entrare in contatto con gli arrampicatori di tutto il mondo. La comunità internazionale sembra prestare maggiore attenzione alla situazione della Palestina e ha organizzato eventi e raccolte di fondi come “Climb The Wall”, che sfrutta l’arrampicata per raccogliere fondi per i soccorsi a Gaza.

Tim Bruns, al centro, e gli altri membri della community alla falesia di Yabrud nel 2019. Oggi questa è stata sottratta da un nuovo insediamento di coloni israeliani

Dal 7 ottobre 2023 e in particolare dall’inizio del 2024 la situazione è diventata molto più grave anche in Cisgiordania. Che cosa ne pensi alla luce della tua lunga esperienza sul campo?
TB È molto difficile rispondere a questa domanda. È difficile esprimere a parole come si sente un essere umano che guarda un genocidio in diretta streaming per oltre un anno. Svegliarsi ogni giorno con un nuovo e inimmaginabile orrore. Non solo assistere all’omicidio di massa di migliaia di bambini, donne, uomini e anziani palestinesi, ma anche vedere l’indifferenza dell’Occidente e, cosa più esasperante, il continuo sostegno finanziario dei nostri politici corrotti. E ora, negli Stati Uniti, gli studenti che si esprimono sulla Palestina vengono fatti sparire dalle strade da agenti in borghese. Chiunque abbia studiato la Palestina abbastanza a lungo sa che il genocidio e la pulizia etnica sono sempre stati il fine logico del progetto sionista. In quale altro modo si può creare uno Stato ebraico in una terra in cui la popolazione non è a maggioranza ebraica? I leader del sionismo scrivevano di questa necessità già alla fine del 1800. Ma vederlo accadere durante la nostra vita e con il consenso della comunità internazionale rende difficile avere speranza per il futuro. Ma se c’è una speranza la si può trovare nel popolo palestinese stesso che è incredibilmente resistente e sembra ancora trovare il modo di provare gioia nonostante tutto. Non so come ci riescano. Ma quando le cose sembrano davvero buie, trovo la luce nei miei amici palestinesi.

Dana arrampica a Yabrud © Tim Bruns

La possibilità per persone o gruppi internazionali di viaggiare in Palestina e conoscere la realtà dell’occupazione è sempre stata molto importante per la popolazione palestinese. Pensi che questa possibilità sia messa a rischio? Che cosa significherebbe questo per i palestinesi?
TB Per i viaggiatori internazionali è ancora possibile visitare la Cisgiordania (ma non la Striscia di Gaza). Questo è sempre stato incredibilmente importante perché la realtà è innegabile per qualsiasi persona assennata e moralmente onesta. Non si può andare lì senza testimoniare la disumanità del progetto sionista e la sua sottomissione del popolo palestinese. Ecco perché l’ex ministro della Difesa israeliano Moshe Dayan ha detto: “Preferirei vedere un pilota di caccia palestinese che una guida turistica palestinese”. Per gli scalatori, in particolare, visitare la Cisgiordania è un’esperienza bellissima e allo stesso tempo un modo per diventare pienamente consapevoli della realtà dell’apartheid israeliano. C’è una falesia, ad esempio, per raggiungere la quale gli scalatori palestinesi dovevano camminare per un’ora, mentre gli scalatori israeliani potevano arrivare in auto alla base e camminare per cinque minuti. Ora quella falesia è completamente chiusa ai palestinesi. Questa è stata l’ispirazione che ci ha spinto a scrivere la guida “Climbing Palestine” nel 2019; volevamo incoraggiare i climber stranieri a visitare personalmente questo luogo bellissimo e tormentato. È significativo che solo a metà marzo 2025 una famosa libreria palestinese a Gerusalemme Est sia stata bersaglio di un raid dei servizi segreti israeliani. “Climbing Palestine” era uno dei libri che sono stati portati via per le indagini. Una guida di arrampicata. L’assurdità è difficile da sopravvalutare ma credo che questo sottolinei anche la fragilità del sionismo di fronte alla verità. In questo momento, in ogni caso, per sostenere gli arrampicatori palestinesi, si può seguire anche il lavoro di Wadi Climbing e della Palestinian Climbing Association. È da considerare anche la possibilità di fare donazioni per i soccorsi a Gaza, perché la popolazione ne ha un disperato bisogno.

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