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Esteri / Approfondimento

Le donne palestinesi costrette a lavorare negli insediamenti illegali israeliani in Cisgiordania

© Ronit Shaked - Unsplash

L’occupazione limita l’accesso alle terre, alle risorse e alle opportunità di sviluppo, e ha portato l’economia palestinese allo stremo. In assenza di alternative molte donne sono costrette a cercare lavoro nei settori agricoli e manifatturieri all’interno degli insediamenti. Senza contratti formali e con salari miseri. Il report di Oxfam

Ogni giorno Mariam esce di casa alle tre del mattino. Per arrivare al lavoro, le servono circa quattro ore, di cui due passate solitamente ai posti di blocco. Perché Mariam è palestinese ed è una delle 6.500 donne impiegate negli insediamenti illegali israeliani, principalmente nel settore agricolo (65,5%) e manifatturiero (33,3%).

Il suo reddito è di 90 shekel al giorno, l’equivalente di 23 euro circa, meno della metà del salario minimo in Israele: troppo poco per vivere e Mariam è l’unica ad avere un’entrata economica in famiglia. Così non lavora solo nel turno della mattina, ma prosegue con quello del pomeriggio. La sera poi riprende il viaggio per tornare a casa con le stesse attese della mattina, in cui si sa quando si parte, ma non quando si arriva. E il giorno dopo si ripete tutto da capo.  

Il numero di donne palestinesi che lavorano negli insediamenti illegali israeliani è cresciuto, passando dallo 0,7% del 2018 al 3,4% di oggi: a denunciarlo è il report di Oxfam, pubblicato ad aprile 2025, e realizzato con il Palestine economic policy research institute (Mas) e la Mother school society (Mss).

Il lavoro di queste donne non è il frutto di una scelta libera ma è un riflesso della coercizione economica imposta dall’occupazione militare israeliana della Cisgiordania e dall’espansione degli insediamenti illegali. Le restrizioni alla circolazione e alla libertà di movimento, le demolizioni e le confische di terreni, risorse e riserve idriche hanno sistematicamente represso l’economia palestinese, soffocandone la crescita. Questo ha progressivamente ridotto le possibilità di trovare alternative professionali nell’economia locale per migliaia di uomini e donne palestinesi. Tuttavia, se per gli uomini è generalmente più facile trovare impiego in settori come quello dell’edilizia, le donne palestinesi sono concentrate nei lavori agricoli e di trasformazione alimentare, ambiti in cui i salari sono più bassi, le tutele praticamente inesistenti e i rischi di sfruttamento più elevati, soprattutto negli insediamenti illegali.

Come denuncia il report, il 94% delle donne intervistate non ha contratti scritti, mentre il 93% ha dichiarato di lavorare in condizioni malsane e non sicure, per esempio utilizzando pesticidi pericolosi senza norme di sicurezza o dispositivi di protezione.

“L’aumento di donne palestinesi impiegate negli insediamenti illegali israeliani è un effetto diretto di quasi sei decenni di occupazione militare. La Cisgiordania, come Gaza, subisce questa occupazione dal 1967 e i suoi effetti, tra cui quello di comprimere l’economia, la capacità di autodeterminazione di un individuo e del popolo intero. L’occupazione militare -spiega ad Altreconomia Paolo Pezzati, portavoce crisi umanitarie di Oxfam- è la causa principale del fatto che l’economia palestinese non abbia potuto esprimere il suo potenziale, soprattutto in ambito agricolo. In questo contesto i profili più vulnerabili subiscono le conseguenze maggiori”. 

La situazione non fa che peggiorare: dall’inizio dell’offensiva israeliana nella Striscia di Gaza dall’ottobre 2023 la Cisgiordania ha visto un’accelerazione allarmante dell’espansione degli insediamenti. Israele ha illegalmente sequestrato 23,7 chilometri quadrati di terra palestinese solo nel 2024, più di quanto confiscato complessivamente nei 30 anni precedenti. Ne è conseguito un declino economico drammatico, con il tasso di disoccupazione che, tra l’inizio di ottobre 2023 e la fine di settembre 2024, ha raggiunto una media del 34,9% in Cisgiordania, mentre è triplicato a Gaza, arrivando al 79,7%. Nello stesso periodo, il numero di posti di blocco è aumentato da 567 a 700. 

“In questo anno e mezzo, sono stati toccati record su record di annessioni di territorio da parte di Israele, così come sono aumentati gli ordini di demolizione. Negli ultimi due anni -continua Pezzati- le demolizioni sono raddoppiate: erano 957 nel 2022, 1.100 nel 2023 e 1.860 nel 2024. La crescita delle unità abitative israeliane nel solo 2025 si tradurrà, invece, nella presenza di almeno 60mila nuovi coloni. Inoltre, -continua il portavoce di Oxfam- in corrispondenza dell’inizio del cessate il fuoco a Gaza, in Cisgiordania è iniziata un’operazione militare che ha visto crescere in un modo esponenziale la violenza e la distruzione di case e infrastrutture, con oltre 40mila sfollati. All’operazione militare si aggiungono le aggressioni dei coloni che, con una violenza diffusa, creano un clima invivibile”.  

Particolarmente emblematica di come l’occupazione e la repressione economica costringano le donne palestinesi al lavoro negli insediamenti illegali è la situazione nella Valle del Giordano, dove le politiche israeliane di confisca di terre, demolizioni di case, e restrizioni alla circolazione, attuate dal 1967, hanno portato l’88% della popolazione a essere sfollata. Oggi, i 60mila palestinesi rimasti vivono in uno stato sempre più isolato e precario, dove l’accesso alle loro terre e alle risorse è giornalmente ostacolato. Ne è un esempio il fatto che le politiche israeliane impediscano alle comunità di costruire infrastrutture legate all’acqua, negando la possibilità di attuare pratiche agricole sostenibili. In questo scenario, in alcuni villaggi più della metà della forza lavoro femminile è impiegata negli insediamenti israeliani invece che nell’economia locale, perché non c’è altra scelta.  

“Quando si parla di occupazione si parla proprio di questo: di un controllo del territorio e delle sue risorse, sfruttandole a scapito delle comunità locali. In questo quadro -spiega Pezzati- è evidente che le condizioni di vita della popolazione diventino gradualmente, ma progressivamente e inesorabilmente peggiori, con la capacità di resistere e di poter programmare un futuro migliore che viene a ridursi. E questa coercizione non è casuale, ma è parte di un piano voluto”.  

Il desiderio di Mariam e di tante altre lavoratrici palestinesi è di poter abbandonare, un giorno, il lavoro negli insediamenti per opportunità professionali con condizioni più sicure, dignitose e stabili. Per farlo è necessario che la Cisgiordania possa avere delle politiche economiche che permettano la rivitalizzazione dell’economia locale. Questo richiede la rottura del ciclo di dipendenza, con lo smantellamento dei sistemi di occupazione e di repressione imposti da Israele, spezzando, una volta per tutte, questo ciclo di sfruttamento e disuguaglianza. 

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