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L’ordine è nessuna forma di vita dentro il nuovo “perimetro” di Gaza voluto da Israele

Ai soldati dell’Idf sarebbe stato ordinato di annientare deliberatamente, metodicamente e sistematicamente qualsiasi cosa si trovasse all’interno di una nuova “linea” disegnata a tavolino sulla mappa della Striscia e destinata a delimitare un’area di “sicurezza” che ha fagocitato il 16% del territorio e un terzo delle terre coltivabili. Le testimonianze da dentro le brigate e le unità corazzate raccolte da Breaking the Silence

Dopo gli attacchi del 7 ottobre 2023 da parte di Hamas e altre fazioni armate palestinesi, il Governo Netanyahu ha dichiarato sin dalle primissime ore gli obiettivi della violenta rappresaglia che si sarebbe scatenata sulla Striscia di Gaza: l’eliminazione del movimento islamico palestinese e la restituzione degli ostaggi israeliani. 

Le nuove testimonianze raccolte da Breaking the Silence, l’organizzazione fondata da veterani israeliani durante la seconda Intifada per denunciare la realtà dell’occupazione, dimostrano tuttavia come molte delle operazioni condotte durante l’invasione di terra fossero in realtà completamente estranee agli obiettivi dichiarati apertamente. 

Tra queste spicca quella che ha dato il titolo all’ultimo rapporto pubblicato lo scorso 7 aprile e intitolato “Il perimetro”. Secondo quanto emerso dalle interviste raccolte, infatti, ai soldati sarebbe stato ordinato di annientare deliberatamente, metodicamente e sistematicamente qualsiasi cosa si trovasse all’interno di una nuova “linea” disegnata sulla mappa della Striscia, destinata a delimitare l’area di sicurezza che l’esercito si stava preparando a costruire sul territorio palestinese, poi terminata nel dicembre del 2024. 

La creazione di zone cuscinetto non costituisce una novità ma rappresenta da decenni un elemento chiave della strategia di Israele sui fronti in cui è stata impegnata, dal Libano alla Siria. “La creazione del nuovo perimetro a Gaza -si legge nell’introduzione del rapporto- non fa che ampliare e replicare un elemento significativo del fallimentare approccio alla sicurezza dell’apparato difensivo israeliano, prevalente alla vigilia del 7 ottobre 2023”.  

Prima dell’attuale offensiva, inquadrata come genocidio da importanti organizzazioni per i diritti umani come Amnesty international e al vaglio della Corte internazionale di giustizia, Israele aveva già istituito una buffer zone che si estendeva per circa 300 metri all’interno del territorio palestinese, mentre Gaza, sotto assedio dal 2007, rimaneva sotto il controllo costante israeliano via terra, mare e aria. 

La maggior parte delle terre agricole palestinesi si trovava a ridosso di quell’area. Per anni i contadini hanno subito attacchi, spesso mortali, da parte dei cecchini israeliani nel tentativo di impedir loro di coltivare i campi, che venivano a loro volta distrutti dall’alto, con aerei militari che irroravano diserbanti per distruggere i raccolti. 

Per la realizzazione del nuovo perimetro l’esercito israeliano ha condotto un’imponente operazione di ingegneria militare, distruggendo sistematicamente ogni cosa con lo scopo di ampliare la fascia di sicurezza tra gli 800 e i 1.500 metri lungo tutto il confine della Striscia. L’area rasa al suolo corrisponde a circa il 16% del territorio di Gaza (tra i 55 e i 58 chilometri quadrati), che include oltre il 35% delle sue terre coltivate. 

In concomitanza con la pubblicazione del rapporto, il ministro della Difesa Israel Katz ha annunciato il completamento del cosiddetto “Asse Morag”, dal nome di una ex colonia israeliana presente nell’area prima del “disimpegno” del 2005. Rafah, città che prima della guerra contava oltre 200mila abitanti, è oggi completamente svuotata e distrutta, trasformata in una nuova, ennesima, zona cuscinetto. 

Non traspare alcun pentimento né rimorso dalle testimonianze dei militari raccolte dagli attivisti di Breaking the Silence. Ogni parola è un pugno allo stomaco. Non perché si possa paragonare alle immagini strazianti riprese senza tregua dai reporter palestinesi –spesso uccisi mentre cercavano di mostrarle al mondo– né perché eguagli l’effetto disturbante dei video intrisi di sadismo pubblicati su TikTok da militari che ridono mentre bruciano case e abbattono scuole, cantando ritornelli macabri come il celebre “Le scuole non servono più, perché a Gaza non ci sono più bambini”.

Sono piuttosto la fredda linearità e la lucida operatività a rendere sconcertanti i loro racconti: è il genocidio che si fa banalità. Sono le parole di chi sa esattamente che cosa sta facendo, che obbedisce agli ordini dei superiori senza farsi troppe domande, perché le domande non servono quando basta la convinzione di essere dalla parte giusta, quella della vendetta.  

Un capitano del corpo corazzato, intervistato dopo aver preso parte all’invasione di terra, lo ha ribadito in maniera inequivocabile: “La distinzione tra civili e infrastrutture terroristiche non contava nulla. A nessuno importava. Abbiamo tracciato una linea: oltre quella linea, chiunque è un sospetto. Non so nemmeno se i palestinesi sappiano che quella linea esiste”. 

Hiroshima”. Così che un riservista ha descritto la zona dell’area settentrionale di Gaza, diventata parte della nuova area cuscinetto. Gli ordini erano chiari: creare un chilometro e mezzo di nulla dalla recinzione di confine verso l’interno. Niente agricoltura, niente case, nessuna forma di vita. Per farlo, l’esercito si serviva di mezzi corazzati come gli Achzarit -che in ebraico significa “il crudele”- e di altri veicoli pesanti.

Un sergente maggiore, operativo nella stessa zona tra novembre e dicembre 2023, racconta l’uso di “un grande escavatore che portava via tutto il terreno, lo arrotolava in un certo senso, lo appiattiva”.  

Non si salva nulla all’interno del perimetro. Non solo terreni agricoli ma anche interi quartieri residenziali, edifici pubblici, istituti scolastici, moschee e persino cimiteri sono stati completamente rasi al suolo. Non era necessario che le strutture fossero sospettate di essere collegate ai combattimenti perché la distruzione era di natura puramente geografica: la presenza di un edificio all’interno dell’area designata era motivo sufficiente per decretarne la demolizione. Era un lavoro quotidiano e intenso a tal punto -hanno riferito i testimoni intervistati- che in alcuni casi le unità dell’esercito hanno esaurito le cariche esplosive, dovendo ricorrere a vecchie mine arrugginite. 

Anche la zona industriale di Shuja’iyya a Est della città di Gaza, è stata completamente distrutta. Lo racconta un altro ufficiale. Nessun rimpianto, solo una nota amara, quasi nostalgica, perché quell’area era stata edificata sulla spinta promettente degli Accordi di Oslo, che avrebbe dovuto favorire lo scambio commerciale. Invece è esploso tutto, insieme a ciò che restava di quella storica stretta di mano. A terra non erano rimasti che cocci di vetro: quelli della fabbrica di Coca-Cola ridotta in macerie, sparsi ovunque. Talmente tanti che, ha sottolineato il militare, era impossibile sedersi sul terreno senza rischiare di ferirsi. 

Dentro il perimetro, più di tutto, sono le persone a non salvarsi. Ogni linea tracciata sulla mappa militare diventa una zona di morte, che si trovi al confine o lungo i “corridoi” aperti dai mezzi corazzati per spezzare la Striscia. Non ci sono regole di ingaggio chiare. Non c’è una vera procedura se non quella decisa al momento dal comandante di turno. 

“All’inizio, gli ordini erano: siamo in guerra. Se rilevi una minaccia o qualcosa, spari. All’inizio potevi anche sparare a duemila metri di distanza”. Il pericolo a cui si riferisce il sergente maggiore della decima brigata, tra i primi a prendere parte all’invasione di terra tra ottobre e novembre 2023, non era altro che un “punto caldo” rilevato dai binocoli termici: una figura umana qualsiasi.

Qualunque movimento era sospetto perché così era stato deciso. La minaccia non è il gesto che si compie ma il corpo stesso, quello palestinese, che esiste: “È così che ragiona l’unità corazzata. Poi spari un proiettile, un sacco di munizioni. Dopo un mese l’ordine è diventato: se non sei minacciato, non sparare”. Nessuna decisione etica, si affretta però a ribadire il sergente a chi lo stava intervistando, ma solo una mera questione di economia delle munizioni. 

Sospetto diventava anche chi, stremato dalla fame, si avvicinava a una postazione militare abbandonata per raccogliere della malva selvatica. In questo caso “vengono chiamati i carri armati e aprono il fuoco, ma i palestinesi continuavano a tornare anche dopo che avevamo sparato”, ha rivelato un sergente maggiore che operava nella zona di Beit Hanoun. 

In quel momento, lui e la sua brigata erano già rientrati in territorio israeliano, ma la postazione restava monitorata da lontano. Il fuoco contro un gruppo di persone che cercava semplicemente del cibo era partito da ben 800 metri di distanza: “Le persone hanno fame; quindi, vengono con le borse a raccogliere hubeiza. Il punto è che l’Idf stava davvero adempiendo al desiderio pubblico per il quale a Gaza non ci sono innocenti. Gliela faremo vedere”. 

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