Esteri / Approfondimento
Armi, potere e impunità: perché i militari minacciano ancora il Brasile
Una linea rossa unisce le forze armate che governarono il Paese durante la dittatura, eliminando i dissidenti e devastando l’Amazzonia, e quelle che hanno in parte appoggiato i “bolsonaristi” nel tentato di colpo di Stato. Ecco perché
La politica di distruzione dell’Amazzonia messa in atto durante gli anni della presidenza di Jair Bolsonaro è l’eredità di un progetto della dittatura militare che l’ex capitano dell’esercito ha sempre sostenuto: trasformare la foresta in un pascolo per il bestiame, incentivare i cercatori d’oro illegali e tutti coloro che si appropriavano delle terre abitate dagli indigeni senza averne diritto. Additando questi ultimi come un ostacolo alla modernizzazione del Paese.
Durante gli anni della dittatura (tra il 1964 e il 1985) i generali avevano garantito incentivi fiscali e finanziamenti a chi trasferiva i propri allevamenti nella regione. Una pubblicità del 1972 recitava: “Portate il vostro bestiame verso il più grande pascolo del mondo. In Amazzonia la terra costa poco e la vostra fattoria può avere tutto il pascolo di cui i buoi hanno bisogno. Senza il freddo e la siccità che brucia l’erba, il bestiame sarà garantito da gennaio a dicembre”. Sotto la guida dei militari, la logica dello sfruttamento ha acquisito una veste ideologica ambiziosa e che si è radicata profondamente: alcuni slogan propagandistici diffusi dal regime (ad esempio “Integrare per non consegnare” e “Terra senza uomini per uomini senza terra”) fanno parte ancora oggi dell’immaginario collettivo brasiliano.
Nel 1971 l’ex comandante del quinto Battaglione di ingegneria e costruzione” Carlos Aloysio Weber, uno dei primi ad arrivare nella regione, nel corso di un’intervista alla testata Realidade, dichiarava: “Come pensa che abbiamo costruito 800 chilometri di strada, chiedendo il permesso? Abbiamo usato la stessa tattica dei portoghesi, che non hanno chiesto l’autorizzazione agli spagnoli per attraversare la linea di Tordesillas. Se tutto quello che abbiamo fatto non avesse funzionato, sarei in prigione, vecchio mio”.
Per contrastare l’idea dell’Amazzonia come “deserto verde”, il regime ha creato alcuni organi governativi per lo sviluppo della regione come la Sovrintendenza allo sviluppo dell’Amazzonia (Sudam) e la Sovrintendenza per lo sviluppo del Nord-est (Sudene): entrambi sono attivi ancora oggi. “La società brasiliana non è stata in grado di riconoscere il regime insediatosi con il colpo di stato del 1964 come dotato di un progetto economico, politico e morale. È questo modello di Paese e di nazione che ha giustificato, ad esempio, il modo in cui i militari hanno affrontato la questione amazzonica e quella indigena”, dice Lucas Pedretti, ricercatore e coordinatore dell’organizzazione Coalizione brasiliana per la memoria, la verità, la giustizia, la riparazione e la democrazia.
Pedretti sottolinea inoltre come la struttura delle forze armate brasiliane sia rimasta sostanzialmente intatta dagli anni Sessanta a oggi, anche per quanto riguarda il modo di pensare. Sebbene indossino divise diverse, i militari di oggi hanno una mentalità molto simile a quelli del 1964. “Il comunismo ha lasciato il posto al politicamente corretto: con questo termine intendo la difesa delle popolazioni indigene e dell’ambiente, la lotta contro le diseguaglianze di genere -riprende il ricercatore-. E il contrasto di quest’orientamento dell’opinione pubblica è esattamente ciò che sta al centro del programma politico di Bolsonaro”.
Se durante il regime militare l’Amazzonia era rappresentata come un ostacolo che impediva l’espansione economica, durante gli anni del governo Bolsonaro (2018-2022) la foresta è stata devastata da politiche che hanno garantito l’impunità a chi ha commesso reati ambientali. Tuttavia, chi in questo quinquennio ha beneficiato della protezione governativa sapeva che questa avrebbe avuto fine se l’ex presidente non fosse stato riconfermato alla guida del Paese.
L’8 gennaio 2023 migliaia di persone hanno assaltato le sedi delle istituzioni a Brasilia e tentato di rovesciare la democrazia. I “bolsonaristi” -come vengono chiamati i seguaci dell’ex presidente- hanno invaso, occupato e distrutto le sedi dei tre rami del potere nella capitale, per chiedere il ritorno dei militari al potere e la rimozione immediata del neo-presidente Luiz Inácio Lula da Silva che si era insediato alla guida del Paese solo il primo gennaio. Secondo Lula è possibile che tra i golpisti possano esserci anche persone legate al “malvagio agrobusiness”, oltre ai taglialegna e minatori illegali: le categorie su cui poggia il consenso elettorale di Bolsonaro. Anche la magistratura sta indagando in questa direzione.
Accampati da due mesi davanti alle caserme dell’esercito nelle principali città brasiliane, gli assaltatori hanno potuto contare sulla protezione di una parte delle forze dell’ordine e dell’esercito durante il periodo del presidio fino al momento del tentato (e poi fallito) golpe. Durante quelle ore convulse, i “bolsonaristi” hanno rubato, saccheggiato e devastato tutto quello che trovavano lungo il loro cammino. Chi in Brasile o in altre parti del mondo assisteva incredulo a quelle scene -trasmesse prima sui social network e poi dalle tv- non poteva non pensare al colpo di Stato del 31 marzo del 1964, con la paura di vedere il Paese ripiombare nuovamente nello stesso incubo, durato più di vent’anni, durante il quale i militari hanno perseguitato, sequestrato, torturato e assassinato dissidenti politici e non solo. Secondo dati della Commissione nazionale per la verità (Cnv) circa ottomila indigeni sono stati massacrati, espropriati delle loro terre, allontanati forzatamente dai loro territori, contagiati da malattie infettive, arrestati, maltrattati e torturati. Gli omicidi ai danni degli attivisti e dei leader indigeni brasiliani non si sono fermati: il 2023 si è aperto con la tragica notizia dell’assassinio di due giovani (Nawir Brito de Jesus, 17 anni, e Samuel Cristiano do Amor Divino, 25) del popolo Pataxó. Un duplice omicidio che con ogni probabilità è legato agli intensi conflitti tra gli indigeni e gli allevatori.
Se consideriamo il tentativo di golpe in Brasile una copia di quello statunitense si corre il rischio di cancellare la partecipazione e la responsabilità dei militari
Molti analisti hanno paragonato l’occupazione dei palazzi di Brasilia all’assalto di Capitol Hill del 6 gennaio 2021: in quell’occasione i fedelissimi dell’ex presidente statunitense Donald Trump urlavano contro le “elezioni rubate”. Limitarsi a considerare il tentativo di golpe in Brasile come una semplice copia di quello statunitense sarebbe però un errore. Il rischio, infatti, è quello di ignorare il ruolo svolto dai militari e la loro responsabilità in questo drammatico evento. Sembra infatti che esponenti di diverse forze armate abbiano sostenuto attivamente il movimento bolsonarista. Le prime indagini hanno accertato la presenza tra i manifestanti di uomini dell’esercito e della riserva, oltre ai loro familiari. Non considerarli responsabili dell’attacco alle istituzioni democratiche significherebbe ancora una volta perpetrarne l’impunità. Per José Eduardo Faria, professore e decano della facoltà di Giurisprudenza dell’Università di San Paolo e direttore del dipartimento di Filosofia e teoria generale del diritto, “il fatto di non aver punito le violenze e i crimini commessi durante i vent’anni di dittatura ha generato una sensazione di impunità che dura ancora oggi”.
Secondo il professore “abbiamo concesso l’amnistia ai prigionieri politici, ma anche agli agenti dello Stato che hanno torturato e ucciso. Se nel 1979 lo avessimo evitato sicuramente non ci troveremmo nella situazione in cui siamo oggi. Perché il passato diventa presente e pretende questa impunità come un diritto acquisito”. Per Faria, l’indulgenza nei confronti delle violenze commesse durante la dittatura ha generato nel tempo una cultura di irresponsabilità ampiamente diffusa negli ambienti militari. È significativo in questo senso il fatto che il governo di Jair Bolsonaro è quello che ha avuto tra le sue file il numero più alto in assoluto di uomini in divisa da quando il Brasile è tornato a essere una democrazia. “Questo è l’amaro prezzo che il Paese sta pagando per non aver sviluppato, nel corso delle generazioni, una memoria o una cultura delle brutalità, dei crimini e delle atrocità commesse tra il 1964 e il 1985”, conclude Faria.
La legge sull’amnistia ha prodotto una semplificazione narrativa sulle vicende di quel periodo: da una parte, la rottura tra il passato recente e il presente, dall’altra, l’oblio. Proprio la mancanza di una solida memoria storica ha alimentato i fatti dell’8 gennaio: migliaia di fanatici sono stati mandati allo sbaraglio e sono stati i primi a cadere. Dopo l’assalto, il giudice della Corte suprema, Alexandre de Moraes, ha aperto un’inchiesta e circa 1.500 persone sono state arrestate. Successivamente, il governatore di Brasilia, Ianeis Rocha, è stato destituito dall’incarico per 90 giorni mentre l’ex ministro della Giustizia, Anderson Torres, è stato arrestato di ritorno da un viaggio in Florida, non appena ha messo piede nella capitale. Anche Jair Bolsonaro -che al 20 gennaio si trovava ancora negli Stati Uniti- è finito sotto indagine con l’accusa di essere il principale istigatore dell’assalto.
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