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Inchiesta

Cina, ritorno al futuro

Viaggio alla periferia di Pechino, nelle fattorie cooperative dove produttori e consumatori solidali -in tutto il Paese oltre 350mila famiglie- s’incontrano per promuovere un’agricoltura a basso impatto ambientale. Negli ultimi cinque anni sono nate circa 800 aziende "supportate dalla comunità". Il reportage di Jason Nardi

Tratto da Altreconomia 180 — Marzo 2016

Nevica e c’è un vento gelido. Non è normale a novembre a Beijing (Pechino), tant’è che la capitale cinese si è paralizzata per due giorni, aggravando i quotidiani problemi di traffico: salgono i tassi di Pm10 e Pm2.5 (o materia particolata, la misura dello smog), e l’inquinamento permanente dell’aria e della terra ormai sono le preoccupazioni principali di chi vive in questa città. Siamo alla periferia di Pechino, nella sesta cerchia (o raccordo anulare) della seconda megalopoli cinese dopo Shanghai, con una popolazione di oltre 20 milioni di abitanti. Qui, nel distretto di Shunyi, ci sono interi villaggi specializzati in forme di agriturismo che avvicinano produttori, consumatori e turisti (cinesi per la maggior parte) in maniera innovativa. Offrono la possibilità a famiglie o gruppi di “coltivatori del fine settimana” di imparare a produrre e raccogliere il proprio cibo in orti condivisi, e incoraggiano a portare bambini e amici a sperimentare direttamente con attività organizzate come si coltiva in modo naturale. Si può poi mangiare al ristorante della fattoria e dormire presso le case della comunità, ospiti degli abitanti del villaggio.

Dopo due giorni la neve si ferma, e ho la possibilità, assieme ad altri, di visitare alcune di queste fattorie e villaggi semi-rurali.
“Con lo sviluppo accelerato che ha avuto la Cina negli ultimi 10 anni e la spinta a consumi sempre maggiori -racconta Chen Li Yan, uno dei fondatori di Shared Harvest, ‘Raccolto condiviso’, il nome di due fattorie ‘cooperative’ nei villaggi di Mafang e di Liuzhuanghu- ci ritroviamo a mangiare cibo ogni giorno più insicuro e avvelenato”. I problemi legati alla sicurezza alimentare si stanno moltiplicando e l’inquinamento agricolo “rappresenta ormai quasi la metà di quello del Paese”, spiega Chen Li.  
La crescita economica e l’allargamento della classe media stanno anche portando a un’attenzione sempre maggiore al cibo “sicuro”, sano, naturale, biologico e a uno stile di vita sostenibile. Di conseguenza, ci sono sempre più persone che, in controtendenza, decidono di abbandonare la vita di città e di trovare una “buona vita” nella periferia rurale o ritornando al villaggio d’origine.
“Io sono uno di quei giovani della classe media urbana che ha deciso di tornare in campagna -dice Chen Li-. Mi sono laureato alla Xi’an Jiao Tong University nel 1999, con un doppio diploma in ingegneria industriale e automazione, e ho passato più di dieci anni a lavorare in alcune industrie cinesi. Quattro anni fa mi sono licenziato. Avevo due scelte -prosegue Chen Li-: continuare come ingegnere e venditore e guadagnare 2 milioni di Yuan nei prossimi 10 anni, per comprarmi un piccolo appartamento o cambiare auto, ma non aver tempo per la famiglia, oppure cambiare completamente, mangiare sano, avere tempo e vivere bene”. E così ha fatto, Chen Li, dopo aver incontrato la dottoressa Shi Yan, la persona che ha più di ogni altro contribuito all’emergere in Cina del movimento definito Community Supported Agriculture (CSA), cioè agricoltura sostenuta dalla comunità. In altre parole, fattorie con una comunità di consumatori associati. “Nel maggio del 2012 sono diventato un socio di Shi Yan -conclude Chen Li-, e abbiamo creato Shared Harvest”.
Non è un caso, dunque, se a metà novembre 2015 in questa stessa provincia cinese (che si definisce slow living) si è svolta la settima conferenza nazionale del movimento CSA, co-organizzata con il 6° simposio internazionale di Urgenci, la rete internazionale dei CSA (a sua volta membra di RIPESS, la rete intercontinentale dell’economia solidale).  Obiettivo: riconnettere gli abitanti della città a quelli della campagna, ricreare le filiere corte, il commercio equo locale e sviluppare le fattorie CSA con il loro impatto positivo sulla sicurezza alimentare e il cambiamento climatico. 
 
In Cina a partire dagli anni 90 la popolazione rurale è diminuita e invecchiata. Le politiche governative concentrate sullo sviluppo urbano e sulla produzione agricola industriale (la spesa pubblica a sostegno dell’agricoltura è passata dal 10% al 3%) hanno contribuito a svuotare le campagne. Al tempo stesso, però, una nuova generazione di contadini sta portando nuova vita alle campagne economicamente (e socialmente) depresse, mettendo insieme le terre in strutture consortili. Questo sviluppo è recentissimo e si stima che sia presente in una dozzina di città (tra le più grandi) del gigante asiatico, con oltre 350mila famiglie di consumatori “coscienti” (secondo gli organizzatori della conferenza). IFOAM -la Federazione mondiale dei movimenti per l’agricoltura biologica- nel suo ultimo rapporto pone la Cina al quarto posto per vendite di cibo biologico (2,43 miliardi di euro nel 2013), pur avendo una produzione limitata, meno del 1,4% dei terreni coltivati.
Negli ultimi 5 anni, sono sorte in Cina più di 800 fattorie CSA, grazie al lavoro della rete di nuovi agricoltori. La conferenza internazionale è stata organizzata proprio da Shi Yan, vicepresidente della rete Urgenci, in collaborazione con l’Università di Tsinghua e il sostegno del governo municipale di Shunyi District. Il tutto sotto l’insegna della “Nuova Rigenerazione Rurale”, un movimento sorto alla fine degli anni Novanta (che fa riferimento alla “rigenerazione rurale” cinese degli anni Venti) grazie al lavoro del professor Wen Tiejun, direttore del Centro di ricostruzione rurale dell’Università di Renmin, che sta portando giovani abitanti urbani, altamente qualificati, a spostarsi in campagna. Come spiega Shi Yan, “la Community Supported Agriculture offre una delle alternative più promettenti ed è l’unico modello di agricoltura in cui i consumatori accettano di condividere i rischi e i benefici con gli agricoltori. Si crea un legame fiduciario e si riconnettono le persone alla terra dove si coltiva il loro cibo”. 
Oggi “Shared Harvest” dà lavoro a 45 agricoltori e allevatori, quasi tutti usciti da una facoltà di agraria. Guadagnano in media 3.000 yuan al mese (circa 500 euro), ovvero il 30% in più di quanto riceverebbero in una fattoria tradizionale. La fattoria ha una comunità di 500 famiglie sostenitrici, quattro gruppi parentali dalle scuole locali e fornisce mercati contadini e ristoranti bio a Pechino. Sul muro di fronte all’edificio principale campeggia una scritta: “Chi è il tuo contadino? Da dove viene il tuo cibo?”.
 
“Little Donkey farm” è un’altra fattoria “condivisa”, nel villaggio di Houshajian. Fondata nel 2008, è probabilmente la CSA più grande, con 60 lavoratori e oltre 500 famiglie socie.
Occupa circa 13 ettari. La prima cosa che vede chi arriva sono gli orti condivisi: i residenti di Pechino possono raggiungerla nel fine settimana per coltivare uno spazio assegnato, assistiti dallo staff del “Little Donkey” che mostra loro come utilizzare nuove tecniche ecologiche assieme a quelle tradizionali. Ci si può associare a “Little Donkey” in due modi: con un “abbonamento lavoro” a 1.200 yuan (circa 160 euro all’anno, per un orto di 30 metri quadrati, co-gestito dalla fattoria oppure di 60 metri quadri in gruppo, riforniti di tutti i materiali necessari, dai semi al concime naturale, attrezzi e assistenza tecnica) e con l’“abbonamento paniere”, che costa tra i 1.500 e 3mila yuan all’anno e dà diritto a una cassetta settimanale di prodotti di stagione, che può essere ritirata presso la fattoria o consegnata a domicilio. 
Ordini e pagamenti sono in gran parte fatti online con il cellulare, grazie ad applicazioni sviluppate appositamente come “Real Farm” (realfarm.cn) o attraverso “Wechat”,  la chat “WhatsApp” cinese. 
Dentro “Little Donkey” c’è un bosco dove razzolano all’aperto le galline, un laboratorio artigiano con attività di falegnameria per bambini, bagni eco-compostabili (con fitodepurazione) e un piazzale con un palco, luogo di ritrovo per attività conviviali, come la festa del ringraziamento cinese. Qui si affaccia un minimarket-magazzino che distribuisce anche prodotti non alimentari, e rivende a negozi e ristoranti in città, e l’edificio con il ristorante, utilizzato anche come centro di formazione e ricerca. Dopo mangiato al ristorante, ci mettiamo in fila per lavare i piatti: non usiamo sapone, ma una polvere di scarti delle crusche dei cereali coltivati nei campi. La poltiglia di avanzi di cibo e crusca viene poi data agli animali.
Per arrivare alla Phoenix Hills Commune, una sorta di eco-villaggio biodinamico di 13 ettari, ci portano ai piedi di una collina di un parco naturale, a circa 15 chilometri dal “centro” di Pechino. Sulla collina, in bella vista dietro ai campi, si staglia la scritta 凤凰公社 (“Phoenix Hill”), fatta di arbusti.  C’è molta gente al lavoro: donne e uomini stanno arando i campi e preparando la terra per la prossima stagione. Utilizzano il metodo Demeter e si fanno inviare una parte del preparato biodinamico dalla Svizzera: adesso interrano il corno bovino e a primavera lo dissotterrano. Coltivano principalmente frutta, verdura e soia, che trasformano in tofu e altri derivati. Uno dei campi che ci mostrano è a forma circolare, come anche il calendario annuale. Nell’eco-villaggio c’è anche un ostello, un maestro di Tai-Chi (che si allena sul campo), e una scuola che segue un misto tra gli insegnamenti di Confucio e di Rudolf Steiner.  
 
Le fattorie CSA sono una parte del nuovo movimento che collega produttori e consumatori. L’altra è costituita dalla rete dei farmers’ market, i mercati contadini urbani.  In un contesto dominato sempre più dal commercio internazionale (la Cina è entrata nell’Organizzazione mondiale del commercio nel 2001) e dalla grande distribuzione del “libero mercato”, l’apparizione e la moltiplicazione di queste forme di vendita diretta è certamente incoraggiante. Tianle Chang è la coordinatrice del “Farmers’ market” di Pechino. Mi ha invitato a presentare l’economia solidale in Europa a una trentina tra lavoratori e volontari, presso la loro sede e centro di distribuzione bio, situato all’interno di un centro commerciale. Non è un caso: così è possibile intercettare i consumatori e offrire loro una reale alternativa. Il centro commerciale si trova vicino alla fermata Chanchunquiao della metro. Costruito nel 2004, era considerato fino a pochi anni fa il più grande della Cina (e probabilmente del mondo), con un’area commerciale di 560mila metri quadri su sei piani, tanto da guadagnarsi in inglese il soprannome di “Great Mall of China” (gioco di parole con “Great Wall of China”, la Grande muraglia). 
Il “Community Market Center” è colorato, e Tianle mi spiega come è nata la loro iniziativa, oggi una rete in rapida crescita: “Stavo facendo una ricerca sui sistemi di produzione alimentare in Cina per un’ong americana (Institute for Agriculture and Trade Policy, ndr) e mi sono resa conto che il consumatore urbano è l’anello mancante per la ricostruzione di sistemi alimentari sostenibili. Quando un gruppo di artisti stranieri ha cominciato il primo farmers’ market di Pechino, mi sono  unita come volontaria per provare a creare quel collegamento, e da lì ho messo insieme una squadra per espandere il progetto: oggi 17 persone lavorano all’organizzazione, la distribuzione, la formazione e al centro comunitario, e ci sono 100 volontari che collaborano”, racconta Tianle.
Come funziona il vostro sistema di associazione al farmers’ market e alla rete nazionale? “Il ‘Beijing Farmers’ Market’ utilizza un sistema di garanzia partecipata per valutare i produttori che ne vogliono far parte. Prevede criteri e un protocollo condiviso tra produttori e consumatori. Quando facciamo visita alle fattorie alla nostra squadra si uniscono altri produttori, consumatori, esperti di agraria, ong e media: a volte il gruppo può essere composto da 50 persone. In queste visite gli agricoltori imparano l’uno dall’altro ed è un’ottima esperienza per i consumatori”. I produttori, mi spiega, pagano una quota fissa mensile, che dipende dalla loro capacità: “Ci sono una decina di mercati come questo in Cina -dice Tianle- e abbiamo una rete informale per lo scambio di informazioni”. Cosa ne pensi dell’economia solidale? “Trovo che sia molto stimolante. Abbiamo bisogno di studiarla più da vicino per garantire che le nostre pratiche ne seguano i principi, soddisfino la domanda della comunità locale e possano essere sostenibili e indipendenti”.
 
Non va tutto bene, però. Secondo Yifan Jiang, organizzatore della rete dei farmers’ market a Shanghai, la questione della terra rimane uno dei problemi principali ancora da affrontare. Oggi la Cina ha 1,8 miliardi di Mu (è l’unità di misura della terra cinese) di terra coltivabile, che corrispondono a 120 milioni di ettari, che danno lavoro a 900 milioni di contadini, gran parte dei quali ha un piccolissimo appezzamento di terra assegnato (1,38 Mu, ovvero 0,09 ettari pro capite). Per aumentare la produttività agricola, da anni il governo incoraggia l’agricoltura estensiva e promuove l’uso di pesticidi e fertilizzanti chimici: la Cina da sola consuma quasi il 40% della produzione mondiale. “Tecnicamente, i terreni rurali sono proprietà collettiva della comunità di villaggio (mentre il terreno urbano è proprietà dello Stato) -spiega Yifan-. Negli ultimi 30 anni, abbiamo assistito all’aggressiva urbanizzazione del territorio rurale. Gli agricoltori ricevono talvolta un hukou urbano (ovvero lo stato di registrazione della famiglia, che significa “cittadinanza urbana”, ndr) e una compensazione in danaro, cedendo in cambio il loro diritto d’uso della terra. L’urbanizzazione, oltre a svuotare i villaggi rurali della forza lavoro sta privando molti contadini della terra. La riforma agraria in corso sta portando di fatto alla privatizzazione e mercificazione della terra, indebolendo i diritti degli agricoltori e aumentandone la concentrazione in poche mani”, afferma Yifan.
 
Il movimento della “Nuova Rigenerazione Rurale” è riuscito ad influire sulle politiche governative, facendo passare il concetto di “multifunzionalità” dell’agricoltura: nel 2007 il governo centrale cinese ha recepito l’idea di un’agricoltura ecologica sostenibile e ha promulgato la legge sulle cooperative agricole professionali. Ma la strada è ancora in salita. “Molte delle cooperative oggi esistenti lo sono più di nome che di fatto, non essendo organizzate democraticamente”, conclude Yifan. 
La conferenza internazionale in sé è stata utile e ricca di spunti, alternando sessioni plenarie e più teoriche a laboratori focalizzati su questioni pratiche. “Come movimenti sociali -ha spiegato Judith Hitchman, presidente di Urgenci- lavoriamo per cambiare il sistema e contribuire alla costruzione di alternative. I due pilastri di Urgenci sono la sovranità alimentare e l’economia solidale. Questi sono uniti attraverso l’agroecologia. I nostri alleati principali -la Via Campesina e RIPESS- sono le reti che rappresentano contadini e consumatori solidali, e il nostro lavoro comune è costruire sistemi alimentari alternativi, collegando i contadini ai mercati locali e le politiche di sostegno a livello nazionale e globale”. 
Lo ha ribadito anche uno dei relatori cinesi: “senza semi non c’è biodiversità; senza biodiversità non c’è agroecologia; senza agroecologia non c’è sovranità alimentare”. E quest’ultima può essere messa in pratica solo se vi è un’alleanza tra chi produce e chi consuma cibo, attraverso processi democratici e partecipativi. 
Come recita la scritta davanti alla Shared Harvest: “Chi è il tuo contadino?”. 

* Solidarius Italia/RIPESS Europe

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