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Diritti / Opinioni

L’eredità della scuola Diaz

12 anni dopo i fatti, le vittime delle violenze della Polizia sono tornati in quello che oggi è il Liceo Pertini. Un incontro simbolico, per rompere la rimozione istituzionale _ _ _
 

Tratto da Altreconomia 152 — Settembre 2013

Siamo dunque tornati alla scuola Diaz. Lo scorso 22 luglio ero con Mark Covell e Arnaldo Cestaro, miei compagni di sventura nella “notte dei manganelli” del 21 luglio 2001, e poi con Enrica e Roberto, genitori Sara Gallo Bartesaghi, anche lei pestata e arrestata in quelle aule. C’erano anche Vittorio Agnoletto, ex portavoce del Gsf e Antonio Bruno, consigliere comunale genovese, e c’erano soprattutto alcuni insegnanti del Liceo Pertini, che ha sede appunto nella scuola Diaz. Quella mattina è avvenuto un fatto singolare. Ci siamo ritrovati in cerchio nella palestra della scuola al piano terreno a rievocare i fatti di allora e ci sentivamo tutti egualmente coinvolti in una vicenda importante per il nostro Paese. Noi testimoni come i professori, gli attivisti di allora e di oggi come il preside Aldo Martinis, l’ideale padrone di casa. Mentre ci conoscevamo e mentre noi testimoni mostravamo il luogo esatto delle violenze subite e cui avevamo assistito, eravamo tutti coscienti di portare un peso e una responsabilità. Il peso della memoria di una grave violazione della legalità costituzionale, per un episodio che ha segnato la nostra storia recente e che ancora condiziona la vita pubblica nel nostro Paese, e la consapevolezza che è necessario trovare una via d’uscita, un modo per fare tesoro di quella memoria e trarne un insegnamento per tutti.
È stato soprattutto Mark a volere il nostro ritorno nella scuola, negato per anni dalle autorità scolastica e reso invece possibile dal nuovo preside. Mark attribuiva a questo ritorno sul luogo del (quasi) delitto un valore terapeutico. Si torna sul posto a distanza di tempo per rivivere un’ultima volta una vicenda scioccante e dolorosa, al fine di trasformarla in un’esperienza umana, senza più incubi notturni né crisi di panico.
Ma alla fine il ritorno alla scuola si è trasformato in qualcos’altro: una sorta di liberazione e anche un possibile passaggio di testimone. Per dodici anni i docenti e gli studenti del Pertini hanno evitato di discutere fra loro, e a maggior ragione in pubblico, quel che era avvenuto nelle aule, nei corridoi, nei bagni, nella palestra del loro istituto. La Diaz-Pertini era stato il luogo di uno scempio politico, morale, umano; il teatro di un’autentica sospensione della democrazia, ma era vietato parlarne. O si preferiva non parlarne. Colpa di autorità scolastiche troppo prudenti, se non ostili a un tema scomodo come l’abuso di potere? Può darsi. Ma forse c’è di più, perché a ben vedere la rimozione compiuta per dodici anni dagli organismi di istituto del Diaz-Pertini è una perfetta metafora di quanto avvenuto nel paese. Forse il Parlamento italiano ha preso sul serio tutti i risvolti legati al caso Diaz? Forse i governi che si sono succeduti hanno affrontato con lealtà e rigore democratico quanto denunciato dai testimoni e confermato da inchieste e processi? Evidentemente no. E potremmo estendere il discorso ai maggiori media, che hanno assistito pressoché silenti a una rimozione politica e civile tanto colpevole quanto densa di gravi conseguenze, salvo stupirsi e scandalizzarsi quando il caso Shalabayeva -il rapimento e la consegna al regime kazako di moglie e figlia di un oppositore- ha mostrato quanto siano opachi, distorti, malati i rapporti fra istituzioni politiche e vertici degli apparati di sicurezza. Perciò stiamo consegnando alla storia Genova G8 registrando una disfatta civile e politica. È una disfatta perché i princìpi democratici e i diritti fondamentali della persona sono stati messi in secondo piano rispetto a logiche di potere perverse. Le sentenze Diaz e Bolzaneto, con condanne clamorose che hanno colpito anche altissimi dirigenti degli apparati, sono state registrate con una punta di fastidio, come un’interferenza indebita. L’Italia è oggi un Paese incapace di tutelare i diritti fondamentali della persona. Ma una democrazia che non sa garantire i diritti fondamentali, diceva Norberto Bobbio, non è più una democrazia, anche se pluralismo ed libertà di voto sono garantiti.

In questa chiave, l’incontro del 22 luglio 2013 nella palestra della scuola Diaz di Genova, un evento di per sé minimo ma simbolicamente importante, può diventare un punto di svolta, un ideale passaggio di testimone. Se è vero che il silenzio osservato finora nell’istituto è la metafora della nostra storia dal 2001 in poi, forse è arrivato il momento del risveglio. Siamo tornati alla Diaz e i docenti, quanto e forse più di noi testimoni, hanno vissuto questo evento come una liberazione. Ne parleranno con i loro studenti, discuteranno, organizzeranno nuovi incontri e nuove visite: saranno così custodi di una memoria difficile e anche -speriamo- gli ispiratori di un nuovo percorso di consapevolezza e azione. —
 

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