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Torniamo dal futuro, dove abbiamo visto la fine del capitalismo

In tre libri il pensiero di Gustavo Esteva, intellettuale messicano vicino ad Ivan Illich. Dal 4 al 14 aprile attraversa l’Italia, per parlare dell’insurrezione dei movimenti che cambiano il mondo, dell’Università della terra e del valore del cibo e l’esigenza di una nuova agricoltura

Intellettuale deprofessionalizzato, fra i più convinti continuatori del pensiero di Ivan Illich, di cui fu amico e collaboratore, con una ricca esperienza di lotta, il messicano Gustavo Esteva è stato -negli anni- consulente dell’Esercito zapatista di liberazione nazionale nella stesura degli Accordi di San Andrés, partecipante nel 2006 all’esperienza della Comuna di Oaxaca, la Assemblea popolare dei popoli di Oaxaca-APPO, un moderno esperimento rivoluzionario che può evocare la “Comune di Parigi”, vicino al Congresso nazionale indigeno e a molti movimenti di base.
Esteva, attento osservatore delle articolazioni assunte dal capitalismo contemporaneo in America Latina e nel mondo, interprete della molteplicità di risposte che dal basso, dai movimenti sociali, dal mondo indigeno-campesino e dai marginali urbani, i quali oppongono resistenza e costruiscono alternative sociali alle relazioni di potere imposte dal mercato e dallo Stato, sarà in Italia nella prima metà di aprile e farà tappa in diverse città (per il programma dettagliato c’è il sito www.kanankil.it): Venezia (4 aprile), Torino (5 e 7 pomeriggio), Val di Susa (6 e 7 mattina), Milano (8), Padova (9), Bologna (10), Lucca (11), Firenze (12), Roma (13 e 14).

In un breve saggio dal titolo Torniamo dal futuro -pubblicato in Italia a metà marzo col titolo Senza insegnanti. Descolarizzare il mondo-, Esteva descrive i principi ispiratori e le pratiche di quella originale Universidad de la Tierra “de-scolarizzata” che ha fondato a Oaxaca assieme a Sergio Beltrán. All’inizio del saggio Esteva traccia una propria brevissima ma significativa biografia intellettuale: da manager imbevuto dall’ideologia dello “sviluppo”, con notevole successo prima nel privato e poi nel pubblico, alla progressiva delusione in quella che Rist ha definito “una credenza occidentale” e quindi al passaggio alla militanza sociale, con la riscoperta della cultura indigena della nonna materna e con l’esperienza delle lotte assieme ai contadini delle campagne, agli emarginati delle città, a “tutti i soliti intoccabili” del mondo costituiscono il suo nuovo orizzonte. Un orizzonte questo gratificante per i suoi ricchi rapporti sociali ma un po’ nebuloso per un uomo esigente come lui. Qualcosa non gli quadrava concettualmente: “…i trovavo confuso e disorientato… per un po’ ho pensato di avere bisogno di studiare di più, di fare una ricerca accademica più ampia. Ho studiato freneticamente… E la mia confusione cresceva… poi un giorno mi sono cadute le lenti dello sviluppo, mio malgrado e nonostante l’educazione che mi era stata impartita… Poi ho incontrato Ivan Illich".

Il modo più semplice per raccontare il suo pensiero è parlare di tre dei suoi libri, recentemente pubblicati in Italia dall’editore Asterios di Trieste. Hanno una mole ridotta, ma un contenuto denso. Sono dedicati a tre tematiche precise, ma solo apparentemente slegate fra loro.

Il primo, cui già abbiamo accennato è “Senza insegnanti. Descolarizzare il mondo”, il più breve (60 pagine) e il più scorrevole (forse un po’ aspro per il palato di qualche educatore “sistemico”). Ricorda nulla il titolo ai meno giovani? Forse l’eretico Descolarizzare la società di Ivan Illich, che tanto rumore fece negli anni ’60 del XX secolo? Esattamente.
È il testo di una lunga conferenza tenuta in un incontro del 2004 di amici di Ivan Illich col titolo di Scuola e educazione. Il titolo originario del libro è “Ritorno dal futuro”. Alla brevissima biografia prima citata segue l’enunciazione delle premesse teoriche e delle modalità operative dell’Università della terra, dove le intuizioni di Illich sull’apprendimento in un clima di amicizia e libertà hanno trovato una brillante concretizzazione. Una università alla quale si può accedere e dalla quale si esce senza alcun titolo legale, ma ferrati per esercitare il proprio desiderio lavorativo.
È una lettura che suggerita specie a chi è impegnato nel mondo dell’“educazione”: un forte stimolo a ripensare ciò che sembra scontato nella nostra organizzazione sociale. Alcuni esempi di Universidad de la tierra oggi sono attive in Chiapas e in altri luoghi, ognuna con caratterizzazioni legate alla specifica situazione locale ma tutte ispirate dalla critica di Ivan Illich all’insegnamento istituzionalizzato. Il libro si conclude ricordando l’appello di Paul Goodman a iniziare qui ed ora, ciascuno di noi, il cambiamento che compiremmo nel mondo diverso che agognamo.

I cambiamenti di comportamento che sempre più numerosi si possono scorgere oggi nel mondo costituiscono il tema del secondo libro, anche questo testo di una conferenza, che l’editore italiano presenta col titolo “Antistatis, l’insurrezione in corso”.
Questa insurrezione, sulla quale possiamo e dobbiamo oggi puntare pur senza certezze che avrà pieno successo, passa attraverso il cambiamento di pratiche di vita: nel modo di cibarsi, nel modo di apprendere, di curarsi, di abitare, di scambiare, di rivalutare altri saperi e conoscenze etc.
Alla fine della prima parte del libro, che compie un excursus su queste “insurrezioni” individuali, l’autore si chiede: “Qual è il carattere e la portata di quest’insurrezione? Qual è la sua natura? È realmente anticapitalista o risulta funzionale al regime dominante e prolunga la sua agonia? Perché chiamare insurrezione dei comportamenti che a prima vista sono mere reazioni di sopravvivenza, spesso disperate, senza un’articolazione evidente tra di loro?”.
Nella risposta l’autore affronta la più complessa tematica dell’organizzazione della vita sociale e delle forme di lotta che si susseguono in diverse parti del mondo. “La fine di un’era esige l’abbandono del tipo di pensiero nel quale ci siamo formati e il riconoscere che per 150 anni siamo rimasti intrappolati nella disputa ideologica tra capitalismo e socialismo. Abbiamo smesso di pensare… Abbiamo perso la capacità d’influenza sulla politica reale e due o tre generazioni di pensiero… La cosa interessante è che, in vista del fatto che stiamo modificando le nostre relazioni con la scienza, il progresso e il potere, stiamo finendo in una situazione molto particolare, nella quale dobbiamo guardare verso il passato per incontrare risposte sul futuro.”

I problemi toccati, in modo sintetico come si è obbligati in una conferenza, ma denso e stimolante sono vari: il buen vivir come paradigma alternativo, la fine del capitalismo, l’articolazione e organizzazione della lotta per la democrazia, la rigenerazione o la costruzione degli ambiti di comunità, la territorialità della lotta, l’articolazione pluralista, la costituzione dei soggetti, la natura della crisi e la rottura con la modernità, la natura e urgenza di estendere questa insurrezione.

E veniamo al terzo libro: “Torniamo alla tavola. Sovranità alimentare e cultura del cibo”. È, in realtà, frutto del lavoro di più autori, coordinati da Esteva e introdotto da Silvia Pérez-Vitoria, l’autrice de Il ritorno dei contadini, realizzato in collaborazione col PRATEC, il Proyecto Andino de Tecnologias Campesinas di Lima. Una pluralità di riflessioni sul cibo come fonte di sostentamento e come rito comunitario, che giungono da due dei centri originari dell’agricoltura, il Messico e il Perù.
Quale il nesso con gli altri due libri? Sulla IV di copertina leggiamo: “L’idea di ri-collocare il cibo nella agri-cultura non si riferisce a coltivazioni, terra o agricoltura organica, anche se include tutto questo. Va al di là del movimento per un’agricoltura migliore… Si riferisce al modo in cui viviamo. Non ha niente a che vedere con un regime alimentare più sano o con migliori modelli di produzione e di consumo per motivi ecologici, economici o, anche, politici. Si tratta della gente, del recupero del significato di comunità, della creazione di nuovi spazi comunitari… Con la recinzione degli ambiti di comunità, la modernità ha isolato dalla società e dalla cultura una sfera autonoma, quella economica, e la ha collocata nel centro della politica e dell’etica. Andare al di là della società economica implica ripristinare vecchi ambiti di comunità o crearne di nuovi, reinserendo l’economia nella società e nella cultura (Polanyi), subordinandola così di nuovo alla politica e all’etica e marginalizzandola, ponendola al margine –che è, precisamente, quello che i “marginali” stanno facendo o almeno cercando di fare” (Esteva pagg 32,33).

Si tratta di tre potenti frammenti dell’ampia letteratura esteviana, tutta tesa a fornire gli strumenti per la costruzione di un mondo nuovo, che deve nascere da oggi e dal basso, se non vogliamo restare travolti impreparati da quel mondo che sta crollando, come hanno ammoniti i popoli indigeni zapatisti del Chiapas durante la loro recente “marcia del silenzio”.

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