Esteri / Attualità
Il Sultanato del Brunei, sotto scacco autoritario, cerca nuove alleanze
Viaggio nel piccolo Stato nell’Isola del Borneo, che da quest’anno ha dato piena applicazione a uno strumento oppressivo che può portare alla lapidazione degli omosessuali. Un tentativo di compiacere Arabia Saudita ed Emirati del Golfo
Nessun azzardo. Finito al centro di un ciclone mediatico per i diritti civili, il Sultanato del Brunei resta fermo sulle proprie posizioni, semplicemente perché messo in scacco da tutti. La piena applicazione a partire dal 3 aprile 2019 della sharia, l’ideale legge sacra dell’Islam cui conformare il diritto positivo, ha poco a che vedere con l’obiettivo di “far rinsavire”, o peggio ancora punire, il popolo LGBT del minuscolo Stato nell’isola di Borneo: una virgola di appena 5.700 chilometri quadrati, benché un tempo temuta potenza marittima del Mar cinese meridionale. Prima dello sdegno internazionale contro la decisione di Hassanal Bolkiah, dal 1967 padre-padrone dell’ex protettorato inglese nonché cavaliere della Regina Elisabetta II, il provvedimento era stato infatti accolto in patria senza clamori.
“Abbiamo ricevuto una circolare d’informazione dieci giorni prima che scoppiasse le polemica -conferma Daniele Cicuzza, assistant professor alla facoltà di scienze dell’Università Brunei Darussalam, nella capitale del Sultanato- e l’unica vera reazione è stata la sorpresa per il mantenimento di un impegno giurisprudenziale preso ormai diversi anni fa. Ufficialmente, il percorso di adeguamento alla sharia era stato avviato nel 2013 con l’istituzione della corte religiosa, ma non aveva comportato alcuna conseguenza sulle scelte o le abitudini sessuali della popolazione. Per il 70% musulmani, gli abitanti del Brunei considerano l’omosessualità contraria al proprio credo religioso e perciò un’esperienza da vivere lontano dagli occhi pubblici, al pari di ogni altra manifestazione affettiva. Viene tacitamente tollerata senza mai farne una questione di Stato, com’è costume fra gli asiatici: una scelta che dipende dalla coscienza individuale, in primis, e dal modo in cui ci si rapporta verso le istituzioni”.
Studenti e professori omosessuali dell’università in cui insegna Cicuzza, assunto in Brunei nel 2016 per l’eccellenza dei suoi studi in botanica e dopo anni di ricerca presso l’Accademia cinese di scienze XTBG, hanno continuato a comportarsi come sempre fatto. Stesso modo di vestire. Stessi atteggiamenti. Stessi codici nei luoghi d’incontro. Uno dei punti di riferimento del cruising pare sia ancora la moschea Omar Ali Saifuddien: elegantissimo esempio di moderna architettura islamica, ideata nel 1958 dallo scultore lombardo Rudolfo Nolli, con l’obiettivo d’impreziosire la capitale Bandar Seri Bagawan. Ragazze o ragazzi hanno qui l’abitudine di scambiare occhiate d’intesa anche con persone dello stesso sesso, fingendo a volte di scattare fotografie di fronte allo scenografico edificio dai minareti in marmo bianco e cupole d’oro, altre volte rivolgendosi battute sulle rive della sua laguna artificiale. Apparentemente, nulla più che una passeggiata nei pressi dell’imbarcazione reale a forma di drago. Una volta riconosciuti, ci si allontana fianco a fianco evitando qualsiasi tipo di effusione. Tutti sanno, nessuno parla. Così da anni.
Per gli abitanti del Brunei è stata forse più eclatante la campagna di boicottaggio lanciata in Occidente, temendo un reale inasprimento da reazione qualora il caso continui a tener banco. “Chi vive qui non è abituato a parlare di politica o a mettere in questione le scelte del Sultano -aggiunge Cicuzza- perché i sudditi vengono ‘gratificati’ con ampi benefici: il sistema sanitario, così come quello educativo, sono completamente gratuiti; non ci sono tasse da pagare allo Stato e, in caso di difficoltà, ai cittadini sono messe a disposizione case sussidiarie. Finché il sistema di ammortizzamento sociale regge, al Sultano può dunque essere riconosciuto anche il ruolo di leader spirituale, ben sapendo che si tratta di una funzione con finalità politiche, più che di controllo dei costumi”.
Come confermano altri colleghi universitari, la nuova legislazione basata sulla sharia appare troppo complicata per trovare reale applicazione. Sulla carta è uno strumento indubbiamente pericoloso ed oppressivo, perché può autorizzare la lapidazione degli omosessuali o la loro mutilazione punitiva, oltre a conferire al Sultano un’autorità teocratica ancor più difficile da contrastare politicamente. L’obiettivo non dichiarato, però, consiste nel compiacere formalmente l’Arabia Saudita e gli emirati del Golfo, con i quali il Sultanato sta ormai stringendo legami sempre più vincolanti per fronteggiare la principale emergenza nazionale: una pesante crisi economica dovuta al crollo dei prezzi del petrolio e del gas, di cui il Brunei è uno dei maggiori esportatori mondiali. La metà del suo Pil, circa 33,5 miliardi di dollari all’anno, è infatti generato dalla vendita di idrocarburi, fra l’altro vicini all’esaurimento: qualora non fossero scoperti nuovi giacimenti, gli attuali pozzi potrebbero restare a secco già entro 20 anni. Una delle conseguenze più pericolose per gli equilibri interni, oggi, appare il tasso di disoccupazione dei sudditi, giunto ormai al 7,1%, ma con picchi del 30% fra gli under 30.
La “sustainable generation” su cui il governo del Sultanato confida per diversificare l’economia nazionale, attraverso progetti di educazione, formazione e conservazione quali “Green Brunei”. “Recentemente abbiamo organizzato iniziative di pulizia e riciclo -spiega Yang Berhormat Khairunnisa binti Haji Ash’ari, direttrice della comunità- partecipando a mostre, campi di lavoro e di esplorazione. Lavoriamo inoltre con la British High Commission e il Dipartimento forestale nazionale alla piantumazione di 400 alberi lungo la costa, nei pressi della riserva di Beraks, mentre siamo in discussione con alcune agenzie per avviare un piano di pulizia esteso a tutto Kampong Ayer, l’area storica della capitale dove si continua a vivere su palafitte tradizionali”.
“Favorire una maggior internazionalizzazione del Sultanato, anziché un suo isolamento, resta di vitale importanza” – Daniele Cicuzza
Secondo il World Risk Report, il Brunei è al settimo posto su 171 Paesi per esposizione a fenomeni naturali a forte impatto ecosistemico, dal momento che la maggior parte dei suoi 430mila abitanti vive lungo la costa. Se da una parte questo ha permesso negli ultimi anni di avviare importanti progetti di allevamento ittico sostenibile, di organic farming e sviluppo eco-turistico, preservando completamente una delle foreste primarie più antiche del mondo, il processo di diversificazione dell’economia procede troppo a rilento. Le previsioni del Centro per l’Energia dell’ASEAN (Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico) sono chiare: entro il 2035 la produzione di energia da fonti rinnovabili, che oscilla oggi attorno all’1,9 GWh, riuscirà a coprire solo il 10% del consumo nazionale. Senza un ampio coinvolgimento di specialisti internazionali, ogni iniziativa decisionale resta in mano alla famiglia reale, producendo esiti per lo più modesti. Col boicottaggio occidentale della Royal Brunei Airlines, la compagnia di linea, e il decremento degli arrivi dal Vecchio Continente e dall’America, il tentativo di uscire dalla dipendenza dagli idrocarburi potrebbe subire una pesante battuta di arresto. Anziché invitare a non soggiornare nei nove hotel di lusso posseduti dal Sultano in Europa e negli Stati Uniti, le voci di condanna avrebbero probabilmente ottenuto risultati più efficaci scagliandosi contro compagnie petrolifere quali Shell, BP o Total, veri partner strategici del Brunei. Su questo fronte, però, il silenzio è stato assordante. Nonostante la storica rivalità, la spirale economica sta spingendo il Sultanato ancor più nelle braccia della Cina, investitore ormai interessato anche a un rafforzamento in Brunei della propria marina militare, oltre che dei Paesi arabi a orientamento conservatore.
“Dall’altra parte -ha evidenziato Bridget Welsh, esperta dell’Università John Cabot sulle tematiche relative al Sud-Est asiatico- il blocco occidentale teme che la politica di appeasement del Brunei verso le richieste del mondo arabo possa rappresentare un caso in Asia, spingendo Stati musulmani ancor più strategici, fra cui l’Indonesia e la Malaysia, a provvedimenti integralisti e antioccidentali”. L’arroccamento sulle rispettive posizioni rischia infatti di avere ricadute tragiche proprio su chi, sino ad ora, era riuscito a convivere con le leggi del Brunei senza incorrere in problemi inaggirabili: le comunità locali omosessuali, ma anche le minoranze etnico-religiose.
“Favorire una maggior internazionalizzazione del Sultanato, anziché un suo isolamento -aggiunge il professor Cicuzza- resta di vitale importanza. Dal punto di vista della ricerca botanica, in questi anni sono riuscito a far in modo che l’importante Symposium Flora Malesiana fosse messo in calendario per la prima volta in Brunei. Dal 30 giugno al 5 luglio ospiteremo infatti il ‘fiore’ degli esperti internazionali a Bandar Seri Bagawan. Nazioni come la Svizzera sono state pronte a sfruttare l’occasione per rafforzare i propri legami col Sultanato, puntando su presentazioni dedicate a grandi botanici attivi nel Sud-Est asiatico, quali ad esempio Heinrich Zollinger. L’Italia, invece, ha semplicemente chiesto di far esporre durante i lavori un poster del nostro grande Odoardo Beccari. Per il resto, non abbiamo avuto nessun altro tipo di contatto o scambio”. Un vero peccato. L’appoggio di Cicuzza come responsabile dell’evento e la valorizzazione di prestigiose figure storiche come Antonio Pigafetta o lo stesso Odoardo Beccari, di cui nel 2020 si commemoreranno i 100 anni dalla morte, possono rappresentare per il nostro Paese una preziosa porta di dialogo col Brunei. Solo tre anni fa, infatti, era stata organizzata in Borneo una missione celebrativa dell’esploratore toscano col patrocinio della Società Geografica Italiana, grazie alla quale sarebbe stato anche possibile facilitare l’arrivo di Flora Malesiana in Italia, a Firenze. Cicuzza proseguirà invece in Brunei i suoi studi sulle felci delle zone equatoriali aride, di cui nessuno ha pubblicato ancora nulla e che solo il sostegno del Sultanato ha sino ad ora reso possibile. Un contributo che rappresenta oggi una delicata, ma indispensabile, opera di mediazione culturale, di cui i nostri ricercatori emigrati sono spesso i soli e unici alfieri.
© riproduzione riservata