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Crisi climatica / Reportage

Alla Corte dell’Aia è in corso una tra le più importanti cause climatiche del nostro tempo

Lelepa, un'isola dello Stato insulare del Pacifico di Vanuatu © Goya Studio - Unsplash

A inizio dicembre si sono tenute le udienze per un caso che potrebbe influenzare le controversie sul clima a livello globale. Tutto è nato grazie ai giovani delle isole del Pacifico, e in primo luogo dall’arcipelago di Vanuatu, e punta a chiarire gli obblighi degli Stati e la protezione delle comunità più vulnerabili. Coinvolti oltre 100 Stati, Ong e gruppi, compresa l’Ue. L’Italia non ha preso parte

“Avete il potere di aiutarci a correggere la rotta e a rinnovare la speranza nella capacità dell’umanità di affrontare la più grande sfida del nostro tempo”. Cynthia Houniuhi, originaria delle Isole Salomone e presidente degli studenti delle Isole del Pacifico che lottano contro il cambiamento climatico, sceglie parole decise per esortare i giudici della Corte internazionale di giustizia a riconoscere come illegale il comportamento dei grandi Paesi inquinatori.

Una decorazione tradizionale di perline rosse le orna la fronte mentre parla a voce alta e scandisce per ogni concetto la traduzione nel suo idioma natale: “è sulla nostra terra (Mako) che i nostri valori e principi sono radicati, preservati e trasmessi attraverso le generazioni. Il cambiamento climatico sta minando la nostra capacità di rispettare questo sacro contratto”.

È il 2 dicembre e quella in corso presso quest’aula decorata da marmi, soffitti a volta e vetrate colorate del Palazzo della pace dell’Aia, nei Paesi Bassi, è la causa climatica tra le più importanti della storia recente.

Ralph Regenvanu, inviato speciale per i Cambiamenti climatici e l’ambiente della Repubblica di Vanuatu, che ha dato il via alle udienze, dice alla Corte che “questo potrebbe essere il caso più importante nella storia dell’umanità”. E davanti ai 15 giudici rincara la dose: “i nostri popoli hanno costruito nel corso dei millenni culture e tradizioni intimamente intrecciate con le nostre terre e i nostri mari ancestrali. Eppure, oggi ci troviamo in prima linea in una crisi che non abbiamo creato noi”.

Vanuatu è un arcipelago di 83 piccole isole nell’Oceano Pacifico, che contribuisce in maniera minima alle emissioni di gas serra, ad esempio nel 2015 ha emesso appena lo 0,0011% dei gas climalteranti globali, e ora si trova a fronteggiare innalzamento dei mari e frequenti cicloni che negli ultimi anni ne hanno messo in ginocchio l’economia.

Dal 2 al 13 dicembre, 98 Paesi e 12 organizzazioni internazionali hanno presentato le proprie argomentazioni alla Corte delle Nazioni Unite all’Aia. L’Italia non ha preso parte, mentre l’Unione europea ha presentato il suo caso proprio nell’ultima giornata di udienze.

Questo parere consultivo è stato richiesto nel 2023 dall’Assemblea Generale dell’Onu e dovrà chiarire questioni come gli obblighi legali degli Stati sulla protezione del clima e se i grandi Paesi che contribuiscono alle emissioni di gas serra possano essere responsabili dei danni, in particolare nei confronti delle piccole nazioni insulari e degli individui più colpiti dal cambiamento climatico. Fuori dai cancelli all’Aia qualche decina di manifestanti si è riunita con striscioni con messaggi come “all rise for climate justice”.

“Ci rivolgiamo alla Corte affinché riconosca che la condotta che ha già causato danni immensi al mio popolo e a tanti altri è illegale, che deve cessare e che le sue conseguenze devono essere riparate”, ha ripreso poi Ralph Regenvanu alla Corte. Questo può avvenire sia attraverso aiuti finanziari sia con riconoscimenti morali. I rappresentanti legali di Vanuatu hanno anche invocato il loro diritto alla vita e all’autodeterminazione, duramente conquistato dopo secoli di colonialismo e messo nuovamente a repentaglio dal cambiamento climatico.

I pareri consultivi della Corte internazionale di giustizia non sono vincolanti ma sono giuridicamente e politicamente significativi. L’opinione della Corte potrebbe arrivare già nel 2025 e ha il potere di influenzare i contenziosi climatici in tutto il mondo, anche in Italia.

Le udienze sono iniziate una settimana dopo la fine della Cop29, che si è tenuta dall’11 al 22 novembre a Baku, dove i Paesi più ricchi hanno concordato 300 miliardi di dollari in finanziamenti annuali per aiutare gli Stati più poveri a fronteggiare il cambiamento climatico.

Secondo la delegazione di Vanuatu, però, l’esito è inadeguato e la Cop ha di nuovo fallito nel raggiungere accordi per i tagli alle emissioni. Secondo l’ultimo report dell’Onu i gas climalteranti si stanno accumulando più velocemente che in qualsiasi altro momento storico, mettendo a rischio la possibilità di fermare il riscaldamento a 1,5 gradi come fissato dagli Accordi di Parigi del 2015. La speranza è che il parere della Corte internazionale di giustizia possa responsabilizzare i grandi inquinatori nei negoziati futuri, in cui per ora gli obblighi rimangono solo su base volontaria. 

Oltre agli Stati insulari anche molti Paesi occidentali come la Germania hanno presentato le proprie argomentazioni nella prima giornata di udienze. I rappresentanti tedeschi hanno dichiarato che l’Accordo di Parigi e la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Unfcc) regolano già gli obblighi degli Stati sul clima.

Posizioni simili sono state espresse i giorni seguenti dai rappresentanti di Stati Uniti e Cina, i due Paesi più “responsabili” al mondo, e nel pomeriggio del 9 dicembre dall’Arabia Saudita, il primo Paese per esportazioni di petrolio. “Imporre obblighi o conseguenze che vadano oltre o siano in conflitto con quelli contenuti nel regime del trattato specializzato sui cambiamenti climatici rischierebbe di minare l’integrità di quest’ultimo e di compromettere i progressi futuri”, ha dichiarato il principe saudita Jalawi Turki al Saud.

“È molto triste e frustrante sentire queste argomentazioni”, racconta ad Altreconomia Vishal Prasad, direttore degli studenti delle Isole del Pacifico che lottano contro il cambiamento climatico. “Si tratta di Paesi che hanno la responsabilità storica del cambiamento climatico, ma sono intenzionati a diluire qualsiasi forma di azione. Vogliono continuare con l’approccio business as usual quando il mondo sta bruciando”. 

Uno degli impatti principali della crisi climatica sulle isole del Pacifico deriva dall’innalzamento del livello del mare. Quando l’acqua salata invade i villaggi, gli impatti sono devastanti: le case vengono inondate e le persone sono costrette ad andarsene, le infrastrutture si indeboliscono, i luoghi di sepoltura che spesso si trovano vicino alle coste vengono devastati e le famiglie devono recuperare il poco che resta dei loro avi, i campi diventano incoltivabili e le riserve di acqua vengono contaminate. Tutto questo è causato da uno solo degli effetti del cambiamento climatico, spiega Prasad, mentre i fenomeni si accumulano, “il loro impatto sulle persone cresce, siamo in un costante stato di emergenza”.

Proprio gli Studenti delle Isole del Pacifico per il clima sono stati la scintilla di questo caso, organizzando una grande campagna che nel 2021 ha portato Vanuatu a sollecitare l’Onu perché richiedesse un parere consultivo alla Corte. “È molto emozionante essere qui -commenta Prasad-, è un momento storico per la giustizia climatica”. 

Mario Gervasi, ricercatore di Diritto internazionale presso l’Università di Bari, sottolinea la rilevanza di questo caso, sia per “l’autorevolezza della Corte, i cui pareri sono dotati di una grande forza morale”, sia per “l’ampiezza della domanda, che ben si attaglia alla natura globale del cambiamento climatico”. Molto dipenderà dalla natura della decisione dei giudici, ma “è difficile pensare che l’Italia e gli altri Stati possano completamente ignorare il parere della Corte”, spiega Gervasi.

“Difficilmente i giudici potranno fissare standard ulteriori, ma una lettura estensiva degli obblighi esistenti sicuramente avrebbe un impatto anche qui”, e Gervasi spiega come i contenziosi climatici siano esplosi negli ultimi anni e ci siano già molti richiami tra gli uni e gli altri.

Oltre a quasi tremila contenziosi nei tribunali nazionali dal 1986 a oggi, la scorsa primavera ci sono state le sentenze sul clima della Corte europea dei Diritti dell’uomo, nel caso delle Klima Seniorinnen contro la Svizzera, e del Tribunale internazionale del mare. In Italia si è chiusa per inammissibilità la causa del 2021 di A Sud contro lo Stato italiano, mentre ancora pende davanti alla Cassazione quella di Greenpeace e ReCommon contro Eni e due suoi importanti azionisti, il ministero dell’Economia e Cassa depositi e prestiti, per i danni climatici a cui la multinazionale degli idrocarburi è accusata di aver contribuito. 

“La crisi climatica è un problema esistenziale per il mondo intero -conclude Prasad-. La nostra speranza è che il mondo se ne renda conto prima che il Pacifico e molte delle comunità in prima linea perdano tutto ciò che hanno”. 

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