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Il dispositivo istituzionale che non crede alle donne quando denunciano una violenza

La manifestazione a Roma del 23 novembre 2024 in vista della Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza sulle donne © Federico Perruolo/NurPhoto/Shutterstock / ipa-agency.net / Fotogramma

Nei tribunali italiani il fenomeno della vittimizzazione secondaria è realtà. Gli abusi vengono infatti spesso archiviati e le valutazioni degli psicologi non prendono atto dell’esperienza traumatica delle madri vittime di violenza, privilegiando i padri maltrattanti, ritenuti invece idonei, in più della metà dei casi, per un affidamento condiviso, o addirittura esclusivo, dei figli. Le storie di Julia e Vanessa

Essere credibile, come donna, nella macchina giudiziaria, è complicato. Sei invisibile, anche per lo Stato che dovrebbe tutelarti. La violenza, per molte donne, non finisce infatti con la denuncia dell’ex partner, anzi. Subito dopo, entrano in gioco le istituzioni, spesso fonte di ostacolo nel riconoscimento della violenza domestica. Ed essere madri è un ulteriore aggravante: gli esiti delle sentenze evidenziano infatti casi brutali che non tutelano le donne e i loro figli, affidati spesso al padre maltrattante.

Un faro sul fenomeno della vittimizzazione secondaria delle donne è l’ultima relazione della Commissione femminicidio (2022) dove su 2.089 procedimenti di separazione giudiziale con figli minori, soltanto 724 sono stati presi in considerazione dal giudice per la presenza di allegati di violenza e/o disfunzionalità genitoriale.

Gli abusi vengono infatti spesso archiviati e le valutazioni degli psicologi non prendono atto dell’esperienza traumatica delle madri vittime di violenza, privilegiando i padri maltrattanti, ritenuti invece idonei, in più della metà dei casi, per un affidamento condiviso, o addirittura esclusivo, dei figli.

È questo il caso di Julia, madre di origine peruviana con un trascorso di violenza fisica e psicologica da parte dell’ex partner, ma ritenuta “inaffidabile” dal Tribunale di Trieste, nel 2022, per l’affidamento dei suoi figli, due gemelli di un anno, collocati in via quasi esclusiva presso il padre maltrattante. A lei, invece, è concesso vederli soltanto dieci giorni al mese.

Nel suo caso, il giudice non ha riconosciuto la violenza domestica, archiviando fin da subito il procedimento penale e ritenendo la madre non adeguata per alcune difficoltà contestuali, come la ricerca di una nuova casa, e senza considerare l’assenza di una rete di supporto alle spalle.

Un caso paradigmatico che mostra come la violenza istituzionale agisce con prepotenza sulla vita delle madri, ma anche dei loro figli.

“Troppo spesso la violenza scompare nel contesto giudiziario, si preferisce parlare di conflitto o litigio fra coniugi”, racconta ad Altreconomia Maria Grazia Apollonio, psicoterapeuta e operatrice del Centro Antiviolenza Goap di Trieste. I due ex-partner vengono così valutati senza considerare la cornice della violenza.

“Le donne che subiscono maltrattamenti -continua la psicologa- hanno spesso dei sintomi post-traumatici, visibili in dichiarazioni confuse e incoerenti, che però non vengono analizzate dal personale giuridico in un quadro di violenza. Al contrario, gli uomini maltrattanti mettono in campo strategie di difesa, assumendo comportamenti più assertivi”.

La credibilità delle donne viene minata, poi, da alcuni pregiudizi scientifici, ancora radicati nell’immaginario culturale. Il mito delle false querele stenta a morire -prosegue Apollonio- nonostante le donne che scelgono di denunciare siano ancora una minoranza. E anche l’alienazione parentale, una teoria smentita scientificamente, si ritrova troppo spesso nelle formazioni giudiziarie. Si tratta di una credenza introdotta negli anni Ottanta che non intende considerare le testimonianze dei bambini, poiché ritenute influenzabili dal cosiddetto genitore alienante, ovvero manipolatore. Nei casi di violenza, quindi, il rifiuto dei minori a rimanere con il padre maltrattante rimane spesso inascoltato, senza alcuna garanzia di tutela per i bambini e le madri, imprigionate nella categoria di alienanti e quindi non ritenute adatte per un affidamento esclusivo.

È vero che la teoria dell’alienazione parentale è stata già rigettata dall’Onu, dal Parlamento europeo e dalla Commissione nazionale del femminicidio, ma continua ad essere pervasiva. A sostituire il termine -racconta Apollonio- ci sono nuove espressioni analoghe come madre “ostacolante”, “ostativa” o “malevola”. Sono questi gli aggettivi che si leggono nelle valutazoni dei consulenti tecnici d’ufficio (Ctu), figure implicate nella valutazione delle capacità genitoriali in contesti di violenza che coinvolgono minori. Una professione, quella del Ctu, a cui è richiesta una laurea in psicologia, ma che non prevede una formazione specifica sulla protezione dei minori e la violenza domestica, come dimostra un’indagine empirica (2021) pubblicata sulla rivista Sistema penale e approvata dal Comitato etico dell’Università di Trieste.

“La valutazione del Consulente tecnico d’ufficio equivale a una diagnosi specialistica, concorrendo alla decisione finale del giudice. Le parole usate in una consulenza, depositata poi in tribunale, potranno essere riscavate e riprese a distanza di anni”, aggiunge Laura Pomicino, Consulente di parte, professionalità dedicata alla stesura di una contro-valutazione da affiancare a quella del Ctu.

Parole incisive sono impresse anche nel ricordo di Vanessa, madre italiana con un passato di molestie e violenza fisica da parte dell’ex partner, che racconta di essere stata descritta nella relazione della consulente “come madre troppo adesiva ai suoi figli, che trasferisce le sue ansie e i suoi pregiudizi ai bambini”. Si tratta di un richiamo evidente alla teoria dell’alienazione parentale, un elemento concorrente, secondo il Tribunale di Trieste, alla decisione finale di un affidamento paritario dei figli.

Eppure, le linee guida per tutelare i minori, e le loro madri, non mancano. Lo stesso Protocollo di Napoli, documento per orientare il lavoro dei Ctu in caso di violenza domestica e assistita, dedica un paragrafo, chiamato “no contact”, a ribadire l’importanza di evitare frequentazioni tra padri maltrattanti e i loro figli, vittime di violenza subita o assistita. Ma spesso la carta non si traduce in azione. Forse l’unica strada è la decostruzione degli stereotipi di genere che riproducono la matrice culturale della violenza, come scrivono gli articoli 12 e 14 della Convenzione di Istanbul. Un cambio di rotta radicale è l’unica speranza verso un sistema giuridico ostile alle donne, e ai loro bambini.

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