Crisi climatica / Intervista
Rachel Donald. Raccontando la “corruzione climatica” (e la fine del capitalismo)
Intervista alla giornalista britannica autrice del seguitissimo podcast “Planet: Critical”. Forte dei contributi di oltre 150 esperti, tratta da tre anni di clima e ambiente con un innovativo approccio multidisciplinare. Ne ha tratto preziose lezioni sulle relazioni che gli esseri umani hanno costruito con la Terra e tra loro stessi, e su come queste dovranno -inevitabilmente- cambiare
La giornalista britannica Rachel Donald è la creatrice di “Planet: Critical”, un podcast e una newsletter con oltre 15mila abbonati in 172 Paesi, che costituisce una fonte essenziale di informazioni sulla crisi climatica e le sue ramificazioni, viste con le lenti di molti ambiti di studio: non solo le scienze della Terra e l’energia ma anche la politica, la sociologia, i media, la psicologia e la sanità.
“Questo lavoro è nato dall’esigenza di fare qualcosa durante la pandemia da Covid-19. Da un’intervista ne è nata un’altra -spiega ad Altreconomia– e il numero di esperti coinvolti e di argomenti trattati è cresciuto in fretta”.
I suoi articoli sono stati pubblicati anche sul Guardian, Al-Jazeera, Mongabay, The Intercept, Byline Times e New Republic. L’abbiamo intervistata per farci raccontare il suo lavoro e le conclusioni più significative a cui è giunta finora.
Donald, lei ha coniato l’espressione “corruzione climatica”. A che cosa si riferisce?
RD La uso per indicare tutto ciò che facilita la crisi. Molti altri giornalisti denunciano la lunga campagna di lobbismo e disinformazione fatta dall’industria dei combustibili fossili. Grazie al loro ottimo lavoro, l’argomento è finalmente noto a gran parte del pubblico mainstream. Io però non volevo fare lo stesso e ho iniziato ad adottare un approccio diverso, delineando ciò che causa la crisi in senso lato. Ritengo che l’intero sistema economico attuale sia corrotto, insieme agli interessi politici, finanziari e persino accademici che lo sostengono, perché con l’aumento della ricchezza crescono anche l’iniquità, la schiavitù e lo sfruttamento delle persone e della Terra. Il problema è la gerarchia che mette l’umanità al di sopra della natura, ma anche l’uomo al di sopra della donna, e le persone e i Paesi più ricchi al di sopra di quelli più poveri. Anche la religione pone il mondo successivo al di sopra di questo, il che porta a considerare sacrificabile il Pianeta. Tutto ciò crea le condizioni per l’esaurimento delle risorse naturali. Un modo di pensare radicato nella cultura occidentale da migliaia di anni. Non scomparirà da un giorno all’altro, soprattutto perché le persone che oggi occupano posizioni di potere lo perderebbero se tentassero di fare qualcosa di diverso. Andare controcorrente richiede molta energia ed è per questo che il cambiamento sistemico non può essere realizzato dai singoli individui.
Il capitalismo può sopravvivere alla crisi climatica?
RD Vorrei sottolineare che il cambiamento climatico è solo un sintomo del dominio umano sulla Terra -ci sono anche la distruzione della biodiversità, l’acidificazione degli oceani e così via- e potrebbe anche non essere il più pericoloso se paragonato alla sesta estinzione di massa delle specie viventi. Quindi, no, non credo che il capitalismo possa sopravvivere in un mondo così instabile. È un sistema che dipende dall’estrazione e dallo sfruttamento continui per garantire profitti, ma non può durare se vengono meno le condizioni su cui si basa. Che sia per un progetto o per reazione agli eventi, la società umana cambierà. Stiamo già assistendo alla fine della globalizzazione: basti pensare all’Inflation reduction act dell’amministrazione Biden. Probabilmente in futuro vedremo aumentare la diffusione di regimi autoritari e militari. Il capitalismo e il fascino dei mercati non regolamentati hanno danneggiato proprio ciò da cui dipendono: un ambiente stabile. La crescita economica richiede un’enorme impronta materiale, che inevitabilmente si ridurrà a causa della transizione energetica, di eventi meteorologici estremi sempre più costosi e di danni alle catene di approvvigionamento di beni necessari come cibo e acqua. L’Ordine degli attuari del Regno Unito ha già stimato un calo del 50-65% del Prodotto interno lordo (Pil) globale entro la fine del secolo. Saremo costretti a passare a sistemi diversi.
La crisi riguarda ogni aspetto della nostra esistenza e questo può farci sentire sopraffatti e portarci all’inazione. Come possiamo reagire?
RD Ognuno reagisce in modo diverso. Io posso solo fornire alle persone le informazioni che ritengo necessarie, ma non posso dire loro che cosa farne. Detto questo, penso che abbiamo certamente bisogno di comunità, di tempo libero e di contatto con il mondo naturale per assicurare la nostra salute mentale. È normale sentirsi precari in un mondo instabile”.
Quali sono le misure più efficaci per garantire l’adattamento alla crisi e la sua mitigazione?
RD Ne ho parlato con molte persone, in particolare rappresentati di Ong: di solito insistono sulla mitigazione, perché dobbiamo affrontare il problema con tutte le forze ora disponibili, anziché dire che possiamo adattarci in un secondo momento. Una delle politiche migliori è la rinaturalizzazione, che consiste nel restituire alla natura quanta più terra possibile. Naturalmente, ciò non significa piantare alberi come monocolture per ottenere crediti di carbonio, ma piuttosto destinare terreni al ripristino della biodiversità, il che tra le altre cose assorbirà anidride carbonica e sosterrà il ciclo dell’acqua. Ma dobbiamo anche smettere di pensare che la sola tecnologia ci salverà: la crisi è complessa e non ha soluzioni semplici e universali.
Pensa che per affrontare la crisi si possa usare la scienza come strumento di governo, aggirando il normale processo democratico?
RD La democrazia può essere elusa in tanti modi, ma non vedo la ricerca scientifica come una minaccia, perché di solito gli scienziati vengono ignorati. E capisco il perché: il legame tra combustibili fossili e crescita economica è straordinariamente profondo, e se smettessimo del tutto di usarli domani, l’impatto socioeconomico sarebbe devastante. Tutto ciò di cui ci preoccupiamo ora, dal potere geopolitico ai salari e alle pensioni, diventerebbe improvvisamente insignificante. Ma con l’aggravarsi della crisi, uno shock ci sarà comunque. Dobbiamo ridistribuire le risorse quando accadrà, o meglio ancora prima che accada, per arrivarci preparati. L’idea di ciò che uno Stato dovrebbe fornire deve cambiare. Ciò richiederà un’enorme collaborazione di sforzi internazionali, su una scala mai vista prima.
È possibile un equilibrio tra la necessità di evitare gli scenari peggiori di riscaldamento globale e l’accettazione dei necessari cambiamenti economici e sociali?
RD Di solito parliamo di questi cambiamenti con un senso di urgenza, ma non avvengono dall’oggi al domani; questo però non significa che non vadano perseguiti. Se un’amministrazione locale dice di voler costruire tre nuovi ospedali, in Europa ci vogliono circa dieci anni. Forse in Cina si può fare più in fretta, ma noi sappiamo già che occorre aspettare per vedere le cose realizzate. Perché dovrebbe essere diverso quando si tratta di misure a favore di clima e ambiente? Siamo abituati ad aspettare sia per il bene sia per il male. Un esempio è l’Europa, che viene costretta a misure di austerità senza fine con la promessa che le cose miglioreranno, cosa che poi non accade. Nelle città che si sono prese il tempo di investire nella trasformazione, i risultati sono già visibili ed eccellenti. Amsterdam, ad esempio, è diventata una città a misura di bici e ha introdotto i principi dell’economia circolare nella gestione urbana, mentre Barcellona sta proteggendo gli spazi verdi esistenti e ne sta creando di nuovi, sta ampliando le zone senza auto e aumentando gli alloggi per le persone vulnerabili. Con ricadute positive sull’inquinamento, il consumo di tempo, la salute fisica e mentale. Le cose benefiche per le persone e il Pianeta non richiedono più tempo di quelle dannose. Pensate a quanto tempo ci vuole per esplorare un pozzo petrolifero, estrarre il greggio, raffinarlo e distribuirlo: decenni.
Che cosa dovrebbe cambiare nel racconto della crisi da parte dei media?
RD Molto. Quando si parla di clima e ambiente, i media non riportano sistematicamente ciò che accade: anche i grandi eventi meteorologici estremi sono spesso decontestualizzati. Viene fatto apposta per offuscare la realtà. Vale anche per i conflitti, trattati perlopiù come problemi politici e ideologici: pochi discutono le loro determinanti economiche. Sono stata la prima a riferire che l’Ue ha firmato un memorandum con Israele per importare gas dal giacimento Leviathan al largo delle coste di Gaza e che l’oro proveniente dal Sudan viene usato dalla Russia per sostenere il rublo dopo le sanzioni imposte al Paese in risposta all’invasione dell’Ucraina. I giornalisti hanno pregiudizi come chiunque altro e dobbiamo iniziare a essere onesti al riguardo, per non mascherare la perpetuazione di interessi acquisiti, in particolare quelli della classe dominante. Infine, i media dovrebbero essere trasparenti riguardo ai loro finanziatori e smettere di insultare i lettori. L’avvento di internet ha indotto la maggior parte dei giornali a servirsi della dipendenza da dopamina generata dai media digitali per sopravvivere: l’unico obiettivo è vendere storie velocemente e riempire gli spazi pubblicitari ancora più velocemente, a scapito della qualità dell’informazione. Ma lettori e ascoltatori sono ancora disposti a pagare per il giornalismo, se ben fatto: Substack (piattaforma che permette ai creativi di creare newsletter e su cui si appoggia Planet: Critical, ndr) ne è un buon esempio. L’industria dei media nel suo complesso deve capirlo o continuerà a fallire.
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