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L’odore di Gaza e la disumana banalità dei genocidi

Un bambino palestinese a Rafah, nel Sud della Striscia di Gaza, all'inizio di febbraio di quest'anno © CHINE NOUVELLE/SIPA / Ipa-Agency.Net / Fotogramma

Senza fogne e raccolta dei rifiuti funzionanti, gli abitanti della Striscia sono costretti a vivere in “una discarica a cielo aperto” sotto le bombe. Un’incubatrice perfetta per le epidemie. “Il genocidio di un popolo passa anche per la sua condanna a dimenticare di essere umano”, osserva Gianni Tognoni del Tribunale permanente dei popoli

Leggere, ascoltare, vedere e parlare di Gaza giorno dopo giorno è diventato tragicamente ripetitivo. Cambiano solo i numeri, aumentano. Morti, feriti e mutilati di tutte le età, da tutte le parti, per i bombardamenti, per uccisioni dirette, per tutte le cause, nelle strade, sotto le case, nelle scuole, negli ospedali, nei luoghi protetti, nei campi che invece dovrebbero essere sicuri.

Solo i numeri delle vittime tra i bambini forse costringono -ogni tanto- a fermarsi. Più per un brivido di incredulità che per avere il tempo di sentire “più” orrore. Difficile perfino scegliere i report delle agenzie internazionali più aggiornati e più o meno completi. Mentre scrivo, sono circa 11.500 i morti registrati tra i più piccoli e secondo le stime di Unicef almeno 17mila minori -non si sa di quale età- sono rimasti soli perché orfani o perché hanno perso i contatti con i loro familiari. Sono più di mille quelli che hanno subito l’amputazione di un arto (non si sa quante volte con anestesia), almeno 84mila bambini con meno di cinque anni soffrono di diarrea grave e un numero altrettanto importante è affetto da infezioni respiratorie. Cercare di mantenere una traccia epidemiologica quanto più possibile accurata sembra rispondere più al bisogno di essere testimoni responsabili e a quello di garantire almeno un diritto di habeas corpus in uno scenario dove è stato cancellato ogni rituale di un funerale degno di questo nome. Dove i cimiteri possono essere stravolti, come tutto il resto, per scovare-contare i “nemici”.

“La prima cosa che viene in mente quando mi chiedono di parlare della situazione di Gaza -ha spiegato un membro dello staff dell’organizzazione umanitaria Norwegian refugee council (Nrc)- è merda. Letteralmente e metaforicamente. Certo, dopo, parole come disgustoso, invivibile, nauseante e inumano possono descrivere l’odore e le condizioni. Ma quando ci si avvicina a dei luoghi d’accoglienza collettivi l’odore può colpirti e lasciarti senza parole fin da 30 metri: ti brucia il naso e gli occhi fino a farti lacrimare”. Forse non c’è nulla che riassuma meglio il non dicibile più reale di questa shit, che è al centro di un approfondimento a firma della giornalista Dawn Clancy, pubblicato dal sito PassBlue, una testata indipendente che monitora le attività delle Nazioni Unite.

Il rapporto è importante per la banalità concreta di quello che ricorda: le centinaia di migliaia di persone che non sanno più dove fuggire sono state private delle misure minime di una decenza anche nella gestione dei corpi. Non per qualche giorno ma per un quotidiano che è qualcosa di più e di diverso anche di una guerra “classica”. Una guerra mortale e senza senso tanto quanto (o forse peggio) per l’orrore delle cronache, il cui quotidiano dura ormai da oltre quattro mesi.

Per affrontare questa situazione, l’Unicef ha lanciato un programma di cash-for-work rivolto a volontari che vengono pagati l’equivalente di 10-12 dollari al giorno per la gestione dei rifiuti di tutti i tipi. Ma soprattutto escrementi umani che si accumulano dappertutto. Il finanziamento “per l’aiuto umanitario che arriva dall’Australia ha come nucleo centrale la gestione di tutte le forme di escrementi umani”, si legge nell’articolo.

La giornalista spiega che l’aumento di infezioni respiratorie, diarrea e malattie da acque contaminate è legato a cause semplici e strutturali: una delle ragioni è il fatto che non esiste più il sistema fognario o la raccolta dei rifiuti solidi. “Anche gli appositi contenitori settici disponibili nei rifugi o nelle scuole si riempiono rapidamente e non c’è modo di svuotarli in spazi dedicati”, continua l’autrice dell’inchiesta raccogliendo la testimonianza di un’operatrice del Norwegian refugee council. Le acque reflue possono solo trasformarsi in torrenti che scorrono tra le tende. A questo problema si somma quello della raccolta dei rifiuti, che sono dappertutto: “Tutta l’area è un’unica grande crescente discarica a cielo aperto”, continua la referente dell’organizzazione umanitaria. Condizioni che fanno di Gaza un’incubatrice perfetta per lo scoppio di epidemie.

Il linguaggio, le immagini, gli odori di questa cronaca non hanno l’educazione, la decenza e l’importanza delle cronache dei bombardamenti e dei massacri perfettamente asettici e tecnologici. Il processo di genocidio di un popolo passa anche e soprattutto per la sua condanna ad essere (meglio, dimenticare di essere) umano. È una regola antica di tutti i genocidi più o meno passati o in corso, più o meno riconosciuti ufficialmente. E parlare di merda, di scarti, acque contaminate, cibi avariati o di animali da mangiare perché non c’è altro, di acqua di scolo o altro da filtrare quando si può e c’è tempo: tutto questo è veramente noioso e disgustoso. Anzi puzza, tanto da renderti ancor più inavvicinabile e ti obbliga a pensarti non degno di essere membro di una società civile.

L’odore di Gaza non è un segno in più della gravità di ciò che succede. È l’espressione perfetta del ritorno di una banalità che si sperava non potesse più tornare: quella di un male assoluto, come la guerra e i genocidi contro quei popoli di cui si vuole cancellare identità, e quindi dignità e l’esistenza. Questa banalità è tornata ed è protagonista anche della nostra storia.

La grande diplomazia (che si spera produca almeno pause, tregue, liberazioni di prigionieri: anche solo domani è troppo tardi) non si interessa degli escrementi umani, né della distanza e dell’intensità dei loro odori. E Gaza (anche questo è detto spesso: ma non è mai abbastanza) non è purtroppo sola a giocare, in una lista di attesa che non si sa a quali algoritmi-interessi risponda, il ruolo della “vittima inevitabile”.

Le cronache arrivate a inizio gennaio sul popolo dei Rohingya presentano la stessa “banalita”. Ma sono tanti i luoghi in Africa dove la cronaca “seria, perché militare e politica” nasconde l’odore banale che dà il titolo a questa riflessione. Quotidiano, per tutte le età: se ci si pensa bene è il test che sempre più dovrebbe essere posto alla “civiltà” di Paesi che, ogni giorno di più, fanno la scelta di economie di guerra.

Grazie alla giornalista Dawn Clancy che ha scelto la banalità degli escrementi come occasione e strumento per fare resistenza insieme ai tantissimi che nel mondo sembrano meno disponibili al ricatto dei discorsi che chiedono di non schierarsi e/o raccontano storie che hanno in comune la caratteristica di rendere invisibili le vittime concrete delle tante Gaza.

Gianni Tognoni è ricercatore in alcuni dei settori più critici della sanità, con progressiva concentrazione sugli aspetti di salute pubblica e di epidemiologia della cittadinanza. È segretario generale del Tribunale permanente dei popoli

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