Diritti / Intervista
“Pestaggio di Stato”: le violenze e i silenzi su Santa Maria Capua Vetere
Il giornalista Nello Trocchia ha ricostruito in un libro-inchiesta quanto successo nel carcere casertano il 6 aprile 2020, quando 283 agenti picchiarono decine di detenuti inermi. Una pagina buia del nostro Paese che la classe politica ha tentato in tutti i modi di insabbiare e poi di dimenticare
I video della mattanza all’interno del carcere Santa Maria Capua Vetere nell’aprile 2020 non lasciano scampo a interpretazioni, dietrologie, giustificazioni. I manganelli e le mani alzate su detenuti inermi sono eloquenti. Ma quella sequenza di immagini non dà conto di quanto successo prima e dopo: due momenti decisivi, per comprendere come quelle violenze siano state programmate, volute, e poi coperte lungo tutta la catena di comando interna all’amministrazione penitenziaria ma anche e soprattutto nei “palazzi del potere”. Tasselli fondamentali ricostruiti dal giornalista Nello Trocchia nel suo nuovo libro “Pestaggio di Stato” (Editori La Terza, novembre 2022) capace di sollevare il “velo dell’indifferenza” e del silenzio su una delle pagine più buie del nostro Paese.
Nello, dopo le “puntate” dell’inchiesta che hai pubblicato su Domani perché era necessario un libro?
NT L’idea nasce dall’esigenza di fare memoria, dando un respiro più ampio al mio lavoro di inchiesta svolto per Domani e aggiungendo elementi nuovi e decisivi. Nel libro svelo infatti l’origine della menzogna di Stato: il 16 ottobre 2020 il governo (Conte 2, ndr) a seguito di un’interrogazione parlamentare sulle violenze nel carcere casertano, descrive quanto successo come un’operazione di “ripristino della legalità”. Una bugia di cui non conoscevo la “fonte”. La relazione in aula ho scoperto poi non essere nient’altro che un copia e incolla di ampi stralci di un’informativa sottoscritta dal principale imputato del processo.
Facciamo un passo indietro. Che cosa succedeva nell’aprile 2020 nelle carceri italiane?
NT L’Italia intera faceva i conti con il Covid-19. Ma la notizia della diffusione del virus, quando arriva all’interno degli istituti penitenziari, genera grande paura. Non ci sono dispositivi di protezione, non ci sono i tamponi, non c’è ascolto, non si capisce quale sia il piano di azione messo in campo dall’amministrazione, i colloqui vengono sospesi. Arrivano così le proteste che si diffondono in tutta Italia: alcune violente, rispetto a cui ci sono indagini in corso, altre pacifiche. Così avviene nel padiglione Nilo del carcere casertano, il 5 aprile 2020. Gli ospiti pretendono delle risposte con una protesta rumorosa ma non violenta, senza neanche generare danni alle strutture ma il giorno successivo 283 agenti della polizia penitenziaria massacrano di botte per oltre quattro ore i detenuti inermi. A 60 anni, pur avendo sbagliato e commesso errori, non è accettabile che ti venga tagliata forzatamente la barba, ti sputino addosso, ti riempiano di pugni, di gomitate, di calci. A dirlo e a leggerlo, sembra fare poca impressione. I video parlano da soli e non solo.
Cioè?
NT Che cosa significhi davvero lo si capisce meglio da una frase pronunciata da un detenuto mentre parla con i suoi famigliari a poche ore dal pestaggio. “Non siamo detenuti ma prigionieri”, dice. Così ci si sentiva in quella Casa circondariale che non era più un luogo di un Paese democratico ma di un regime senza uno straccio di democrazia.
Nel libro dedichi un capitolo specifico a Lamine Hakimi. Chi era?
NT Lamine è un giovane ragazzo di origine algerina arrestato per il furto di un cellulare. A Santa Maria Capua Vetere non avrebbe mai dovuto finirci perché, per i suoi problemi psichici, avrebbe dovuto fare accesso alle Rems, residenze dedicate a chi ha disturbi mentali che soffrono la mancanza di posti rispetto al bisogni. Hakimi nonostante la sua condizione viene picchiato più volte e per più giorni di fila, su di lui vengono stilati falsi resoconti per permettere di tenerlo più giorni in isolamento di quelli che il regolamento consente. Subisce l’indifferenza e l’umiliazione estrema, non gli vengono date neanche le coperte in quella cella spoglia. Le testimonianze raccontano che negli ultimi istanti di vita chiama incessantemente la mamma, la stessa che durante un’intervista mi ha chiesto come sia possibile che suo figlio sia morto in questo modo. Da quella madre avrebbe voluto tornarci, Lamine, dopo un periodo in Europa in cui racimolare i soldi per dargli la casa che non aveva mai avuto. È morto per l’assunzione di un mix di oppiacei, stranamente presenti in una cella di isolamento, e attualmente il processo che si svolge davanti alla Corte d’Assise vede come reato contestato a decine di indagati quello di tortura aggravata per aver causato la morte di un detenuto.
Che cosa racconta la morte di Lamine?
NT È l’immagine di una spaccatura presente nel nostro Paese da anni alimentata da una profonda diseguaglianza di cui il carcere è la cartina al tornasole: se hai uno studio legale alle spalle hai la possibilità di essere ascoltato, se no rischi l’irrilevanza. Lamine per il ministro Matteo Piantedosi non è niente di più che un “carico residuale”. A questa invisibilità, ormai data per scontata, si aggiunge anche la violenza estrema di quei giorni.
Una violenza a cui è seguita la connivenza e il silenzio di tutta la classe politica.
NT Sì. Non si voleva fare luce, non si voleva dare una lettura “diversa” rispetto alla versione delle amministrazioni responsabili della mattanza di quello che era successo. La risposta invece è stata il silenzio: sia dagli esponenti di destra, che esprimevano una solidarietà cieca agli agenti nonostante le indagini, sia dalla sinistra.
Poi arriva il video pubblicato su Domani a fine giugno 2021. Le reazioni, a quel punto, non mancano. Perché succede solo in quel momento?
NT Sappiamo che non è la prima volta che succede una cosa simile, già dai campi di concentramento è così: il silenzio internazionale fino alla pubblicazione delle foto dei corpi ammassati. Le immagini spezzano, obbligano alla risposta. Ma quelle timide reazioni sono arrivate soprattutto perché quanto accaduto metteva a repentaglio l’immagine del nostro Paese agli occhi dell’Europa, di cui temiamo enormemente il giudizio.
Timide reazioni?
NT Mi aspettavo che quei video rivelassero l’urgenza di fare rete, di creare un discorso condiviso. Volevo una chiamata alle armi sul tema dei diritti, anche per introdurre finalmente i codici identificativi per gli agenti nell’ordinamento. Chiamai la capogruppo del Partito democratico Deborah Serracchiani, mi disse che ne avrebbe parlato con il gruppo ma non fu in nessun modo capace di dare una risposta compiuta. Quella proposta dovrebbe far parte del bagaglio politico, culturale, programmatico di chiunque abbia visto mezza scena del G8 di Genova del 2001. Così non è, la memoria è corta.
E la violenza si ripete. Il carcere è luogo degli “scartati” ma anche lo scarto delle altre istituzioni, abbandonato a se stesso?
NT Totalmente. Il carcere di Santa Maria Capua Vetere nasce negli anni Novanta per dare sfogo a quello di Poggioreale che dieci anni fa era stato teatro di una guerra di camorra, per far capire il livello. Nasce senza acqua potabile, su un terreno tra una discarica chiusa e un’altra ancora in funzionamento. Una struttura realizzata scientemente per non funzionare.
Il carcere oggi non funziona. Ce lo dicono anche gli 84 suicidi registrati nel 2022 (sul tema Altreconomia ha partecipato recentemente a una serata di approfondimento di cui potete vedere la registrazione integrale). Questo libro parla solo di un caso singolo o di un sistema che non funziona?
NT Ci racconta che le carceri oggi sono dei serbatoi criminali, dei luoghi di violenza, marginalizzati in cui si confinano gli scarti della società che non vogliamo vedere e ne subiamo tutti le conseguenze. Perché si riverbera non su chi vive i palazzi della politica ma su chi nella quotidianità subisce gli odiosi reati predatori. Affrontare questo tema significa lavorare da un lato in un’ottica di depenalizzazione e alternative alla reclusione dall’altro anche sull’evitare di rispondere sempre e comunque con risposte di “carcerizzazione”. Ma anche sulla certezza della pena: oggi, salvo il 41-bis e l’alta sorveglianza, che ha un’altra dialettica, in carcere ci vanno gli emarginati, non il notabilato che quando “per sbaglio” ci entra riesce a uscire subito. Nel libro racconto che per le sue condizioni di salute, legittimamente, Denis Verdini, ex ago della bilancia del governo Renzi, esce in un tempo ragionevole, da Paese civile. Ma per chi non conta niente, per chi non riceve le visite dai parlamentari, le richieste non vengono esaminate per settimane, mesi. E le persone restano dentro. Fino a quando quelle strutture non rappresenteranno i problemi reali della società, gli affarismi, e non le “percezioni”, la sicurezza urbana, non cambierà nulla.
A che cosa pensi possa servire il tuo libro?
NT Il libro serve se si innesca un passaparola, se viene utilizzato per confrontarsi su questi temi. E, attenzione, senza parlare di “carcere e società” come spesso si sente dire. Il carcere è la società, non è altro. È come parlare di istruzione, scuola, sanità. Un tassello fondamentale di un sistema democratico del Paese.
“Pestaggio di Stato” è anche una vittoria del giornalismo investigativo, della sua importanza per la salute della democrazia.
NT Direi di un giornalismo sul potere e sulle menzogne del potere che ho scoperto seguendo una storia che mi ha portato dentro le mura del carcere di Santa Maria Capua Vetere. Un atto di amore verso questo mestiere perché è un’inchiesta ad accelerazione complicata, perché è un tema che difficilmente fa presa. Una macchina lenta ma che non si può fermare per quanto detto fino a qui.
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