Diritti / Approfondimento
La “giurisdizione universale” può dare giustizia alle vittime di crimini contro l’umanità, dalla Siria all’Iraq
A Coblenza in Germania è in corso il primo procedimento mondiale volto ad accertare le torture di Stato in Siria. In Europa nel 2019 i processi aperti erano 2.906. L’Italia è ancora indietro
“Sapevano esattamente come causare il maggior dolore possibile”. Così Wassim Mukdad, giovane rifugiato di origine siriana, ha descritto ai giudici del tribunale regionale superiore tedesco di Coblenza -nell’Ovest della Germania- le torture subite all’interno del “Dipartimento 251”, una struttura detentiva a Damasco, dopo essere stato arrestato al termine di una manifestazione contro il regime di Bashar al Assad nel settembre 2011. A poca distanza da Wassim sedevano gli imputati, due funzionari dell’intelligence militare siriana: Anwar Raslan ed Eyad Al Gharib. Il primo è accusato di complicità in quattromila casi di tortura e 58 omicidi oltre a casi di stupro e violenza sessuale avvenuti sotto la sua direzione all’interno del “Dipartimento 251” tra il 2011 e il 2012. Al Gharib, sottoposto di Raslan, è accusato di aver partecipato a una trentina di casi di tortura.
“Per noi siriani questo processo è molto importante. A marzo saranno trascorsi dieci anni dallo scoppio della rivoluzione in Siria e a Coblenza, per la prima volta, è stata intrapresa un’azione legale non solo contro due imputati per crimini specifici, ma contro il regime di Assad e il sistema di repressione e torture che lo sostiene”, commenta Joumana Seif, avvocato e research fellow presso Ecchr (European center for constitutional and human rights), una Ong con sede a Berlino impegnata nella difesa dei diritti umani che dal 2012 lavora accanto alle vittime del conflitto siriano.
Attivisti e oppositori politici, ma anche semplici cittadini nel 2011 sono scesi in piazza per chiedere libertà e democrazia in Siria: per tutta risposta sono stati incarcerati, torturati e uccisi. Chi è sopravvissuto ed è riuscito a fuggire in Europa non ha rinunciato a cercare giustizia. “Il processo di Coblenza rappresenta il primo procedimento a livello mondiale volto ad accertare il sistema della tortura di Stato in Siria ed è il risultato di numerose denunce presentate da quasi 50 sopravvissuti. Denunce che si fondano sul principio della giurisdizione universale”, spiega Chantal Meloni, professoressa associata di Diritto penale presso l’Università degli Studi di Milano e collaboratrice di Ecchr.
In base al principio della giurisdizione universale, una persona che ha commesso crimini contro l’umanità, crimini di guerra e genocidio (i cosiddetti core crimes cui nel 2017 è stato aggiunto il crimine di aggressione) può essere processata in un Paese diverso dal proprio anche se le vittime non sono cittadini del Paese in cui si svolge il processo. E persino se i crimini sono stati commessi all’estero. Alla base di questo principio c’è una spinta ideale molto forte: “Sono crimini che non ledono solo singoli individui e Paesi, ma feriscono la comunità internazionale nel suo insieme -continua Meloni-. Sono crimini che, per la loro natura e carattere, sono così gravi da non poter restare impuniti e per questo occorre intervenire per riaffermare quei valori che sono stati violati”.
Come è successo a Londra nel 1998 quando le autorità britanniche hanno arrestato il dittatore cileno Augusto Pinochet su richiesta di un tribunale spagnolo, che aveva accolto le richieste dei familiari delle vittime della repressione. Successivamente, nel 2001 un tribunale belga ha condannato quattro cittadini ruandesi coinvolti nel massacro della minoranza Tutsi per crimini di guerra. Ancora, nel 2005 i giudici olandesi hanno condannato due generali afghani per tortura e crimini di guerra commessi negli anni Ottanta.
Nel 2019 in Europa erano in corso 2.906 processi per crimini contro l’umanità e genocidio nei tribunali di Germania, Olanda, Norvegia, Belgio, Svezia e altri Paesi europei
“Prima del 2015 i processi celebrati sulla base del principio della giurisdizione universale in Europa riguardavano prevalentemente Paesi come Liberia, Ruanda e l’ex Jugoslavia, occasionalmente altre aree del mondo”, spiega Matevž Pezdirc, segretario del “Genocide Network”, una rete istituita nel 2002 all’interno di Eurojust (European union agecy for criminal justice cooperation) per favorire la collaborazione giudiziaria e lo scambio di buone pratiche. “Ma dopo il 2015, con l’arrivo di migliaia di profughi dalla Siria e dall’Iraq, il numero di inchieste e processi è aumentato in maniera esponenziale”. Secondo le stime di Eurojust nel 2019 in Europa sono stati aperti 1.295 nuovi casi, in leggero aumento rispetto ai 1.073 del 2016. Complessivamente nel 2019 erano in corso 2.906 processi per crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio nei tribunali di Germania, Francia, Olanda, Norvegia, Belgio, Svezia e altri Paesi europei. La Germania è il Paese più attivo, con circa 110 procedimenti in corso, secondo le stime di Ecchr.
Questo primato è il risultato di una situazione favorevole dal punto di vista normativo: già nel 2002, infatti, Berlino aveva inserito nel proprio ordinamento il “Codice tedesco dei crimini contro il diritto internazionale” che permette ai procuratori tedeschi di avviare inchieste contro i responsabili di crimini contro l’umanità anche in assenza di qualsiasi legame giurisdizionale con la Germania. Inoltre presso l’Ufficio federale di polizia criminale e presso la procura federale sono attive unità specializzate per i crimini di guerra, che si occupano della raccolta e dell’analisi delle informazioni relative ai reati internazionali e del perseguimento di questi crimini.
“Le autorità giudiziarie tedesche hanno raccolto circa 2.800 testimonianze che riguardano crimini internazionali commessi in Siria” – Chantal Meloni
Quando, a partire dal 2015, la Germania ha accolto centinaia di migliaia di profughi provenienti da Siria e Iraq, sopravvissuti alle violenze del regime e della guerra civile, il Paese aveva una macchina inquirente già strutturata, il cui lavoro è stato facilitato dalla collaborazione con le Ong impegnate nella difesa dei diritti umani. “Le autorità giudiziarie tedesche hanno raccolto circa 2.800 testimonianze che riguardano crimini internazionali commessi in Siria, delle quali oltre 300 dirette nei confronti di soggetti identificati”, sottolinea Chantal Meloni.
Ma la Germania ha portato sul banco degli imputati anche uomini e donne affiliati a gruppi terroristici come l’Isis o Jabat al Nusra. Ad aprile 2020 a Francoforte si è aperto il processo contro un cittadino iracheno accusato di genocidio, traffico di esseri umani, tortura e omicidio di una bambina yazida di cinque anni che aveva comprato come schiava nel 2015. La bambina è morta dopo essere stata lasciata per giorni incatenata sotto il sole cocente.
“Come ‘Genocide Network’ crediamo sia importante che le persone affiliate a gruppi terroristici siano processate sia per i reati di terrorismo, sia per i core crimes commessi -commenta Matevž Pezdirc di Eurojust-. Questo permette di ottenere la piena responsabilità penale del singolo combattente e di assicurare giustizia alle vittime”. Un caso esemplare è la vicenda di un cittadino olandese affiliato all’Isis condannato per appartenenza a un’organizzazione terroristica e per aver postato sui social network un selfie accanto al corpo di un uomo crocefisso.
“Questo comportamento, secondo i giudici, è inaccettabile perché ha violato la dignità di una persona uccisa: umiliare e degradare il corpo di un morto è un crimine di guerra -sottolinea Pezdirc-. Per questo motivo, la pena è stata aumentata da cinque a sette anni e mezzo di reclusione”.
All’interno del quadro europeo spicca l’assenza dell’Italia. “Il nostro Paese ha prontamente ratificato lo Statuto di Roma nel 1999, ma non ha ancora recepito le norme relative alla definizione dei reati di crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio”, spiega Teresa Magno, magistrato che lavora alla rappresentanza italiana a Eurojust. Nel 2012 è stata adottata la legge 237 relativa alle norme di adeguamento dell’ordinamento italiano alle disposizioni della Corte penale internazionale (Cpi) che si limita a considerare gli aspetti procedurali relativi alle modalità di collaborazione tra la giurisdizione nazionale e quella della Corte.
Questo significa che le autorità giudiziarie italiane non possono perseguire penalmente criminali di guerra eventualmente presenti sul territorio italiano e, secondo talune interpretazioni, potrebbe essere problematica la consegna alla Corte penale internazionale dei criminali ricercati poiché per poterli estradare è richiesto il requisito della doppia incriminazione: “Per poter estradare una persona ricercata dalla Cpi è richiesto il requisito della doppia incriminazione: ma nel nostro ordinamento mancano le definizioni di crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Mentre la definizione di genocidio, stabilita dalla legge 962 del 1967 è diversa da quella dello Statuto di Roma”, precisa Teresa Magno.
L’Italia ha ratificato lo Statuto di Roma nel 1999 ma le autorità giudiziarie non possono perseguire penalmente criminali di guerra eventualmente presenti sul territorio del nostro Paese
Una lacuna importante e che sarebbe urgente colmare al più presto per assicurare giustizia alle vittime dei crimini commessi in Libia i cui aguzzini possono essere processati solo per reati specifici come tortura, stupro o violenze. “Attualmente in Sicilia ci sono diversi casi in cui, con un ordinamento diverso, sarebbe possibile procedere per crimini contro l’umanità o crimini di guerra -conclude Matevž Pezdirc-. Oggi invece questo non è possibile ed è una sfortuna”.
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