Interni / Intervista
“Willy, una storia di ragazzi”. Il podcast che ridà bellezza a un ragazzo del suo tempo
Nella notte tra il 5 e il 6 settembre 2020, a Colleferro (Roma), veniva ucciso Willy Monteiro Duarte, giovane italiano di origine capoverdiana di 21 anni. Un accurato lavoro prodotto da Dersu e Storielibere.fm e scritto anche dal giornalista Alessandro Coltrè, s’immerge nella vicenda, uscendo dagli stereotipi sulle persone e sui paesi
“La storia di Willy c’è arrivata addosso” racconta Alessandro Coltrè. Giornalista, nato nel 1992, abita ad Artena, un Comune della provincia di Roma a pochi chilometri da Colleferro, dove nella notte tra il 5 e il 6 settembre 2020 venne ucciso Willy Monteiro Duarte, 21 anni, italiano di origine capoverdiana, residente a Paliano, un Comune del frusinate non distante.
“Willy lavorava come aiuto cuoco ad Artena, che con Colleferro, dove usciva con gli amici, e Paliano, dove viveva con la famiglia, geograficamente individua una specie di triangolo” spiega Coltrè. Insieme a Christian Raimo, Claudio Morici, Alberto Nerazzini e al musicista Teho Teardo, che ha scritto una colonna sonora originale e narrante, ha realizzato il podcast “Willy, una storia di ragazzi”, prodotto da Dersu e Storielibere.fm, che in otto puntate racconta vita, morte e -soprattutto- bellezza di Willy Monteiro Duarte, provando a uscire dagli stereotipi che hanno contraddistinto la narrazione della vicenda, che ha portato nell’estate del 2022 alla condanna in primo grado di due persone all’ergastolo e altre due rispettivamente a 21 e 23 anni di carcere. Pubblicato a partire dal 20 febbraio 2023, il 20 maggio, alle 11, “Willy” verrà presentato al Salone del libro di Torino.
L’omicidio di Willy Monteiro Duarte ha scosso l’opinione pubblica, ma i media italiani non sono preparati a raccontare le tragedie. Perché avete ritenuto che fosse importante andare a fondo sulla vicenda?
AC La sera del 5 settembre 2020 Claudio Morici, che è scrittore, autore e attore teatrale, era a Colleferro, lo avevamo invitato al mercato coperto per il suo monologo tratto dal libro “Il grande carrello” di Fabio Ciconte. Volevamo avviare una “fase 2” dopo l’emergenza Covid-19 fatta di progetti e discussioni: avevamo aperto lo Scaffale ambientalista e la nostra idea era far scendere dallo scaffale alcuni libri. A quella serata parteciparono 80 persone. Proponemmo loro anche un questionario in cui chiedemmo al pubblico “su che cosa vuoi fare la prossima assemblea pubblica”. Riusciamo a stento a rileggerli, non abbiamo più dato seguito a quella iniziativa. Siamo stati letteralmente travolti. Anche Christian Raimo, che è insegnante e scrittore, ed è stato assessore alla Cultura nel Municipio di Roma III, si è occupato spesso di Colleferro, ci eravamo sentiti spesso per le questioni legate ai rifiuti cercando di unire le lotte in corso nei diversi territori della provincia di Roma (Coltrè è tra gli animatori del movimento Rifiutiamoli, che ha contribuito alla chiusura degli inceneritori di Colleferro, ndr).
Con lui pubblicammo nell’ottobre del 2020 un lungo reportage su Internazionale, da cui nacque l’idea di coinvolgere in modo più vivo le persone, cercando di far parlare un territorio. Abbiamo così intrecciato cose che esistevano: io mi stavo occupando con Chiara Chimisso di un progetto legato alla raccolta di storie orali di Artena, con riferimento ai lavori di Sandro Portelli e all’Associazione italiana storia orale. La storia di Willy, invece, segna un’altra generazione: era un atto dovuto amplificare le loro voci, anche per rispondere al senso di fallimento, dato che non ci eravamo accorti di ciò che stava accadendo a 300 metri in linea d’aria dalla sala dello spettacolo di Claudio Morici. Abbiamo dovuto aspettare, per instaurare un rapporto con la generazione protagonista della vicenda, i ventenni. Mi sono fatto guidare da alcuni testimoni per capire chi intervistare. Si dice che Willy sia morto dopo essere intervenuto per difendere un amico, Federico Zurma, che non aveva mai parlato con nessuno, dopo una prima intervista rilasciata a caldo in cui si era sentito strumentalizzato. La sua voce, importante, è tra quelle che ascoltate nel podcast.
Per ricostruire la vicenda, uno dei punti di partenza è decostruire l’idea di un presunto Dna criminale presente nel territorio tra Artena e Colleferro, che ha guidato una narrazione da far west. Perché vi siete opposti a questa lettura?
AC È una lente che allontana in questo caso specifico da una possibile e necessaria problematizzazione della violenza di quella notte. Oggi Artena per il marketing territoriale è un borgo incantato, perché ha un centro storico molto bello e ripido, è il paese che si percorre a dorso di mulo, mentre nell’Ottocento un allievo di Cesare Lombroso raccontava che era un paese di delinquenti, poco istruito, con un alto tasso di omicidi e di delitti efferati, un racconto che non considerava le questioni sociali. Oggi come allora, queste letture stereotipate non aiutano. Quattro persone sono implicate nell’omicidio ma non esiste una “banda” di Artena: ci sono quattro singolarità che hanno in comune di essere dello stesso paese. Due dei protagonisti, i fratelli Marco e Gabriele Bianchi, emergono perché sono facilmente mostrificabili.
Le due principali figure criminali che emergono mettono però paura. Pochi ne parlano, nemmeno con voi. Quasi nessuno aveva reali contatti con loro. Chi avrebbe dovuto prendersi in carico queste due persone, per far sì che non accadesse ciò che è successo?
AC Le persone che abbiamo intervistato, chi li conosceva ma anche chi aveva solo sentito parlare di loro, dicono “erano conosciuti” per essere degli esattori, dei violenti che facevano recupero crediti, rider della violenza, l’unica cosa in cui riuscivano forse. Dei quattro condannati solo uno ha un diploma, gli altri hanno finito a stento le scuole medie. Dopo l’omicidio si è parlato tanto di ricominciare dalle scuole, ma la comunità educante non è solo la scuola, che ad Artena si ferma alle medie. Inchiodiamo i ragazzi a quello che sono a 14 anni, decidendo quale sarà il loro destino. Se la retorica “se t’impegni ce la fai”, se non riesci, che cosa ti resta? Per questo è stato a mio avviso sbagliato leggere l’omicidio con la lente dell’antirazzismo, provare a far dei Bianchi degli esponenti di estrema destra, perché non ti fa vedere come la cocaina può essere un collante sociale più forte della contrada e delle feste di paese.
Nemmeno associare Willy a George Floyd (l’uomo afroamericano che è stato assassinato da un agente di polizia a Minneapolis, negli Stati Uniti, nel maggio del 2020, ndr) non ti fa capire quello che accade. Lo spiego usando un esempio che non c’è nel podcast: a una settimana dalla morte di Willy esce un comunicato stampa del Comune in cui c’è scritto che Artena è sempre stata accogliente e parla dei profughi eritrei arrivati negli anni Ottanta. Negli stessi giorni esce un’intervista del circolo Arci locale in cui si parla di marginalità culturale e di come lo spaccio di cocaina sia un collante che permette di avere entrate economiche e anche reputazione: quel comunicato è stato criticato dal sindaco di Artena, perché dava una reputazione sbagliata del paese. La chiave del razzismo ovatta, non permette di ragionare su chi usava i fratelli Bianchi. Stupisce la violenza brutale, ma se ci fermiamo alle arti marziali e a un’idea di movida violenta non capiamo niente: l’Mma non è uno strumento di morte e i locali erano chiusi, in un posto che nemmeno definirei movida, sono quattro bar. Parliamo invece di “violenza a chiamata”. Qualcuno ti chiama per risolvere problemi. Quella è la tua reputazione. Più sei veloce, più verrai evocato. Il “servizio” è molto usato, non solo dai giovani.
Avete raccolto testimonianze di decine di giovani che vivono ad Artena e nei Comuni vicini, alla periferia di Roma, in un tessuto sociale che alcuni cercano di mantenere vivo. In questo senso, il vostro racconto si inserisce in una narrazione profonda e necessaria dei paesi e delle aree interne. Qual è il messaggio per le istituzioni?
AC Esiste la città ma anche i dintorni. La politica territoriale non dovrebbe interessarsi di queste zone solo quando bisogna piangere la morte di un ragazzo di 21 anni e nemmeno quando è in corso la campagna elettorale. La discussione che dovrebbe partire riguarda la comunità, perché di certo la festa popolare e quella della Madonna non bastano nel 2023 a farla sentire unita: anche i paesi sono uno spazio di contemporaneità e invece stratificazione delle disuguaglianze e sottrazione di servizi possono determinare molti aspetti. In quei giorni, però, dovevano far vedere solo un posto degradato, marginale, un vuoto, quando in realtà ad Artena e Colleferro ci sono anche conflitti e impegno.
Nel vostro lavoro Willy, grazie alle parole della sorella, a quelle dei suoi amici, vive. E appare come un ragazzo simpatico, sbruffone, con passioni simili a quelle di tanti suoi coetanei (la fissa per l’auto, quella per la Roma, la musica rap). Quel era il vostro obiettivo nel raccontare così la vittima della tragedia di Colleferro?
AC Era un obbligo che sentivo, dopo aver raccolto il racconto della sorella. Abbiamo voluto restituire una dimensione corporea a un ragazzo del suo tempo e del suo paese, Paliano, un ragazzo di seconda generazione, un ragazzo di provincia, che come tanti viveva le difficoltà del mondo in cui aveva scelto di lavorare, la cucina. Abbiamo intervistato 30 o 40 persone, molti suoi amici come lui lavoravano in sale o nei ristoranti, dai 13 e 14 anni. Il suo non è stato un gesto eroico, s’è impicciato per un amico. Sicuramente era un ragazzo premuroso, magari non ha percepito la situazione, anche perché tutto è durato molto poco. Willy stava diventando un’icona, ma non penso che la distinzione tra la sua figura angelica e quella dei presunti mostri sia il modo corretto per ricordarlo. Willy era un lavoratore che viveva tra Paliano, Artena e Colleferro. Il suo tragitto quotidiano univa e unisce le tre comunità.
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