Altre Economie
Vino da taglio addio – Ae 75
Il trapanese è il secondo distretto vinicolo europeo, dopo Bordeaux. Ma soffre la concorrenza, anche dal Cile Il vino è sempre più globale: una bottiglia su tre viene consumata lontana dal Paese di produzione. Nel 2005 sono stati scambiati…
Il trapanese è il secondo distretto vinicolo europeo, dopo Bordeaux. Ma soffre la concorrenza, anche dal Cile
Il vino è sempre più globale: una bottiglia su tre viene consumata lontana dal Paese di produzione. Nel 2005 sono stati scambiati sui mercati internazionali 78,7 milioni di ettolitri, che rappresentano il 33 per cento dei consumi mondiali.
Negli anni ‘80 la media era del 18 per cento. Quest’anno l’Italia è stato il primo Paese esportatore, davanti a Spagna e Francia, ma sul primato mondiale degli europei pesa -ogni anno di più- la crescita dei nuovi produttori dell’emisfero Sud (Australia, Cile, Nuova Zelanda, Sud Africa, vedi grafico a lato). E l’aumento della concorrenza a livello mondiale provoca la crisi della viticoltura in molte regioni storiche: è il caso della Sicilia e dei suoi 26 mila viticoltori. Tra il 1997 ed il 2004 l’export dall’isola -dove si produce un quinto del vino italiano-, è crollato passando dal 18,3 al 4,1per cento sul totale nazionale.
Se chiedi il perché, i siciliani ti spiegano che è colpa della globalizzazione, dei nuovi accordi per la liberalizzazione degli scambi di prodotti vinicoli (l’accordo sull’agricoltura in ambito Wto o i trattati bilaterali firmati dall’Ue, come quello con gli Usa del settembre del 2005). Ma anche, riconoscono, di una miopia tutta siciliana (o italiana): l’essersi cullati per trent’anni sui finanziamenti comunitari, e svegliarsi tutt’a un tratto “drogati” e “fuori mercato”.
“Fuori mercato” è finito il vino sfuso e di bassa qualità, l’85% dei bianchi e dei rossi siciliani: in solo cinque anni l’export è passato da quasi due milioni di ettolitri nel 1999 a poco più di 150 mila, con una perdita del 90%. La Francia (dove lo sfuso è usato come vino da taglio: per intenderci, per correggere la gradazione alcolica e il colore di un Bordeaux), che era il mercato principale fino agli anni ‘90, oggi compra vino spagnolo, più economico di quello italiano. E anche se nel frattempo è più che raddoppiato l’export siciliano in bottiglia (260 mila ettolitri nel 2004), la crisi è evidente. Soprattutto nel trapanese, che con una superficie vitata di quasi 60 mila ettari è il secondo distretto vinicolo in Europa per dimensioni, dopo quello di Bordeaux, e copre da solo la metà della produzione siciliana. In aprile a Marsala è nato il Distretto vitivinicolo della Sicilia occidentale, di cui fanno parte 172 tra cantine sociali, aziende e imprese vinicole, consorzi, distillerie, e una trentina di enti locali, tra cui le province di Trapani e Palermo. Per salvare il vino siciliano, spiegano, guardando al mercato e lavorando sulla qualità del prodotto e sulle economie di scala.
Il Distretto nasce in una realtà produttiva molto frammentata -il 60% delle aziende agricole coinvolte ha una superficie vitata inferiore ai tre ettari- ma economicamente importante: i soci controllano il 70% dei vigneti nel palermitano e nel trapanese, e producono vino per 220 milioni di euro annui. Per fatturato, il Distretto è la terza azienda italiana del settore (vedi box): sfruttare le economie di scala potrebbe aiutare a superare le difficoltà ed entrare sul mercato della Grande distribuzione (Gdo), dove -spiega Alessandro La Grassa, presidente del Cresm, il Centro di ricerche economiche e sociali per il Meridione (http://www.cresm.it), che è stato animatore e promotore del Distretto- “viene commercializzato circa il 70% del vino”. Ad oggi solo il 15%
del vino siciliano viene imbottigliato e da poco i Syrah o i neri d’Avola sono sugli scaffali dei supermercati: “Se si escludono le Cantine Settesoli -riprende La Grassa- non ci sono realtà siciliane in grado di competere sul mercato”. Si punta, insomma, a un’operazione Tavernello sicilian style da distribuire in tutta Italia (e all’estero). Tra gli interlocutori del Distretto c’è anche la Regione Sicilia, da sempre più occupata a redistribuire i fondi Ue tra le Cantine che a tracciare una strategia di sviluppo per il settore (il presidente della Regine, Salvatore Cuffaro, ha costruito parte della sua rete di clientele proprio occupando la carica di assessore regionale all’Agricoltura tra il 1996 ed il 2001). Oggi la Sicilia fa grande ricorso alla distillazione di crisi per eliminare le eccedenze di vino: nel 2006 l’Unione Europea ha garantito un contributo per ogni ettolitro di vino trasformato in alcol. Anche quest’anno in tutta Italia si potranno distillare fino a 2,5 milioni di ettolitri di vino da tavola e la spesa complessiva comunitaria per la distillazione (ne usufruisce anche la Francia) è quest’anno di 131 milioni di euro. Sono fondi che dal 2007 però verranno meno.
Nel trapanese la viticoltura non è solo economia, è un patrimonio della società: Lorenzo Barbera, un pioniere dello sviluppo locale (ha fondato il Cresm nel 1973 a partire dall’esperienza del Centro Studi e Iniziative per la Piena Occupazione nella Sicilia Occidentale, tra il 1956 ed il 1969), mi racconta che molte famiglie si sono dedicate alla viticoltura dopo il terremoto del Belice, che nel gennaio del 1968 ha colpito la Sicilia occidentale. Con il risarcimento concesso dallo Stato, un milione per ogni morto, per la prima volta si trovavano tra le mani un capitale da investire senza dover pensare al raccolto dell’anno. In Sicilia, però, non esisteva una cultura della trasformazione dell’uva: nessuno aveva il tino, le botti. È per questo che la proprietà è frammentata e ci sono moltissime cantine sociali, nate in quegli anni, a cui i viticoltori conferiscono tutta l’uva prodotta. I progetti del Distretto stridono con la proposta della nuova normativa Ue sulla viticoltura, presentata dal Commissario all’agricoltura e allo sviluppo locale, Mariann Fischer Boel, il 22 giugno. Bruxelles vorrebbe estirpare nei prossimi cinque anni 400 mila ettari di vigneti “non redditizi”, eliminando totalmente gli incentivi per la distillazione e favorendo la concentrazione dei diritti d’impianto di nuove vigne nelle mani di “produttori competitivi”. Secondo La Grassa, “il rischio è che in una Regione vocata alla viticoltura ma povera di risorse e di mercati come la Sicilia, (ma lo stesso vale per esempio per il Sud della Francia), i contadini saranno costretti ad estirpare, garantendosi almeno il contributo di espianto”. La normativa, così com’è scritta, favorirà le grandi società che hanno puntato sulla viticoltura industriale, dove l’agricoltore è quasi superfluo e il risultato finale è un prodotto standardizzato che poco ha a che fare con il territorio. È il vino senza viticoltori.
Conoscete il vostro vino?
Stabilire che cosa stiamo bevendo quando ci versiamo un bicchiere di vino è sempre più difficile. L’Unione Europea, con il regolamento Ce 162/2000, permette ai Paesi del Nord (Francia, Germania, Inghilterra) lo zuccheraggio dei vini per aumentarne la gradazione alcolica, senza obbligo di indicazione sull’etichetta.
In Italia -e in tutto il bacino del Mediterraneo- questa pratica è però proibita.
L’accordo del settembre 2005 tra la Comunità europea e gli Usa prevede, invece, che “nessuna parte impone l’obbligo di indicare sull’etichetta i processi, i trattamenti o le tecniche usati nella vinificazione” (art. 8): peccato che negli Stati Uniti sia consentito “allungare” il vino con l’acqua (fino al 7%). E ancora, l’Ue sta discutendo se rendere o meno possibile anche da noi l’invecchiamento del vino coi trucioli invece che in botte (per ottenere l’effetto barrique in modo più veloce ed economico).
Il vero nome del Tavernello
Sono nomi sconosciuti quelli dei giganti del vino italiano. La prima azienda è la Caviro (www.caviro.it) ed ha chiuso il 2005 con un fatturato di 264,2 milioni di euro. È una cooperativa con 35 mila soci e commercializza, tra gli altri, i marchi Tavernello e Castellino. Al secondo posto c’è il Gruppo italiano vini (www.giv.it) con 258 milioni di euro. Possiede vigneti in una decina di regioni; sono suoi i marchi Bigi (Umbria) e Rapitalà (Sicilia). Il terzo è Cavit (www.cavit.it), con i vini Terre Fredde, con 161,5 milioni di euro di fatturato nel 2005. Le nostre aziende sono però ben lontane dal fatturato del leader mondiale, che è l’americana Constellation (Usa) con 3 miliardi di dollari.