Altre Economie
Una pesca mirata
L’Italia importa la metà dei prodotti ittici consumati. È colpa delle famiglie, che scelgono solo 10 tipi di pesce. Due risposte solidali dalla Liguria e dal Friuli
Sono sei i soci della cooperativa, pescatori dal volto bruciato dal sole e le mani consumate dalle reti: lavorano su sei gozzi di 4 o 5 metri di lunghezza, oltre a una barca un po’ più grande di 8 metri. Sei sono anche i chilometri di costa e mare in cui lavorano, al centro del Golfo Paradiso, tra Pieve Ligure e Nervi: una zona bellissima e pescosa, dall’acqua di un blu intenso d’estate come d’inverno. Si pesca con le reti della tradizione: “La nostra è una pesca mirata”, spiega Alberto di fronte alle sue reti, ognuna serve per catturare un tipo diverso di pesce: il tremaglio per le triglie, il monofilo per i naselli e i pagari. Qui il pesce è venduto in dialetto alla clientela locale nel piccolo spaccio che dà sul porticciolo, in un ambiente familiare e intimo, aperto solo quando il pesce è disponibile.
Non è sempre stato così: fino a qualche tempo fa la cooperativa vendeva il pesce al mercato ittico di Genova: “Capitava sempre che portando loro cento cassette di pescato, alla fine magari ce ne pagavano solo dieci: il resto ci dicevano che veniva buttato via -racconta Alberto-. Qualche anno fa avevamo pescato una tonnellata di pesce azzurro e il mercato non lo aveva voluto. Siamo tornati in mare per disfarci del carico: alla fine l’acqua intorno alla barca era tutta bianca, tanto era il pesce che avevamo ributtato dentro”. Una storia che sembra incredibile in un paese, l’Italia, che importa “il 50% del pesce che consuma, per un valore commerciale pari a 12 milioni di euro al giorno”, come spiega Ettore Ianì, presidente di Legapesca.
Infatti, se il Mediterraneo conta oltre 250 tipi di pesce commestibili, nel 2009 solo dieci hanno rappresentano oltre il 56% dei quantitativi consumati dalle famiglie italiane (secondo l’Ismea, l’Istituto di servizi per il mercato agricolo alimentare). “Il pesce che troviamo nella grande distribuzione organizzata proviene da almeno 40 Paesi diversi: da tutto il Mediterraneo, ma anche delle sponde atlantiche –spiega Silvio Greco, biologo marino e presidente del Comitato scientifico di Slow Fish-. Basti pensare che ogni mattina arrivano in Italia almeno sei cargo dal Senegal, essenzialmente pagelli, ma anche dentici, pagelli fragolini e bauri: pesci grossi che vengono poi venduti ad almeno 30 euro al chilo. Il nostro suggerimento è quello di andare di persona alla marineria locale e comprare di persona il pesce appena sbarcato”.
Pescare i problemi. “Il pesce che viene catturato e ributtato in mare è quello non commercializzabile -riprende Ettore Ianì-. Non perché non sia buono. Ma quale pescatore porterebbe a terra un pesce che poi comunque rimarrebbe invenduto?”. Gettare via è più conveniente. Uno dei motivi dello spreco è che le ricette della tradizione sono state dimenticate e con loro l’uso dei pesci che popolano i nostri mari. Quattro dei primi cinque pesci che prendono posto nei piatti degli italiani sono prevalentemente o esclusivamente allevati (orate, mitili, spigole e trote salmonate), mentre al terzo posto compare la prima specie pescata, le alici (Ismea).
Il tutto ha un impatto insostenibile sull’ambiente. Secondo la rivista Nature, la popolazione di 10 delle 29 specie che peschiamo con maggior frequenza si è ridotta a meno del 10 per cento rispetto a cinquant’anni fa. Secondo la Fao, a livello globale gli stock ittici a rischio sono passati in 30 anni dal 50 al 75 per cento. Un terzo dei pesci che finiscono nelle reti viene catturato per niente, e poi ributtato in mare, morto.
“Il pesce italiano ci sarebbe in abbondanza per tutti, ma la gente non lo compra -spiega Ianì-. Le specie richieste scarseggiano e, visto che i circuiti commerciali sono complessi, spesso ci si imbatte in frodi e manipolazioni, come la verdesca, che è un tipo di squalo, venduto per pesce spada, o il pangasio, che arriva dal Vietnam, spacciato per merluzzo -racconta Ianì-. Il consumatore, spesso per pigrizia, compra il pesce sfilettato, mentre dovrebbe comprare il pesce e pulirlo a casa”.
Spiega ancora Silvio Greco: “Il settore ittico, pesca, vendita, e trasformazione, è fortemente globalizzato, il che rende la tracciabilità del pesce una questione assai delicata”. È evidente dunque l’esigenza di un’etichettatura precisa, che secondo il Centro studi Legapesca nel 17% dei casi è completamente assente e quando è esposta nel 38% dei casi è incompleta. “La colpa non è dei pescatori -rivendica Ianì-. Ci vorrebbe invece una campagna di educazione sul consumatore per fargli conoscere le specie che oggi non compra: pesci che costano poco e sono gustosi, come boghe, sciabole, mustelli, alacce e argentine. Un po’ come è successo con la promozione delle alici che, se fino a qualche tempo fa erano un prodotto ‘povero’, oggi sono servite al ristorante”.
Il costo della luna. Insomma, non bisogna rinunciare al pesce, ma cambiare drasticamente le proprie abitudini di consumo. Il caso di Nervi è esemplare. Da circa un anno la cooperativa fa solo vendita diretta e rifornisce di pesce due gruppi d’acquisto solidali (Gas) cittadini e un Gas toscano.
“Il progetto funziona già da due anni –spiega Mauro Fumagalli, uno dei coordinatori dell’Intergas-. Per questo abbiamo scelto di allargarlo anche ad altri pescatori. Il nostro obiettivo non è solo vendere e acquistare pesce, ma anche valori relazionali, etici e sociali forti”. Non sono solo parole.
A livello economico il prezzo del pesce non è più imposto dai grossisti, ma è concordato con i consumatori, riscoprendo dinamiche commerciali che valorizzano la fatica del pescatore. Vale l’esempio delle acciughe: “Lo peschiamo con le lampare: quando la luna è piena il prezzo di vendita sarà più alto, perché avremo pescato di meno -spiega ancora Alberto Conti-. Pescando senza luna il buio in mare sarà totale, la pescosità maggiore e il prezzo di vendita sarà dunque più basso”. Ai consumatori vengono proposti diversi tipi di pesce, sempre secondo disponibilità. “Vogliamo restituire valore al pesce povero, quello meno conosciuto e non commercializzato.
Il mare non è fatto solo di orate e branzini, che oggi sono per la maggior parte allevati, ma anche di boghe, sugarelli, pesce lama, labridi e serranti. La gente non li richiede perché non li conosce, noi spieghiamo le ricette, insegniamo loro come cucinarli e i consumatori ne sono entusiasti. Non sprechiamo pesce, peschiamo solo quello che ci interessa, nelle nostre reti non rimangono pesci piccoli”.
Un progetto ambizioso, con cui riaffermare un’economia solidale e locale, in grado di valorizzare il pesce e la figura del pescatore, avvicinando i produttori ai consumatori, secondo i principi e la cultura della proprietà collettiva, che si caratterizzano per un rapporto di sostenibilità, rispetto e difesa del territorio. “Utilizzeremo il tipo di gestione che la proprietà collettiva impone: democrazia partecipata, rispetto delle specie ittiche e salvaguardia del territorio in primis. Contiamo di avviare il tutto entro pochi mesi” continua Ivana. Il riscontro è stato positivo tra i pescatori, che fino ad oggi erano costretti a vendere il pescato all’unico grossista presente sul territorio, che opera in condizioni di monopolio: “Fino ad oggi non avevamo nessun controllo sui prezzi del pesce -spiega Bruno Cimigotto, pescatore attivo nella laguna di Marano da generazioni-. Vendendo direttamente ai Gas contiamo che il guadagno per i pescatori sarà di circa il 40% in più. E il risparmio per i consumatori più o meno lo stesso. Quantificare o fare delle previsioni sul pescato è impossibile: come piccoli pescatori non possiamo sapere se la giornata sarà buona o meno. Sappiamo però che se un consumatore oggi compra il pesce a 10 euro al chilo, noi pescatori ci guadagniamo 3-4 euro al chilo. Il resto rimane agli intermediari. È una forbice che tenteremo di accorciare vendendo direttamente”.
Senza contare il valore aggiunto nello stabilire un rapporto di conoscenza diretto. “Mio padre e il padre di mio padre erano pescatori, e io stesso cerco di tramandare ai miei figli le arti antiche legate alla pesca in laguna. Qui peschiamo con le reti, ma anche col parangal, nel dialetto locale un lungo filo da pesca con attaccati centinaia di ami, su particolari barche in grado di andare nelle secche, sopra appena 20 centimetri d’acqua. Il nostro tentativo sarà quello di valorizzare le specie locali, dai diversi tipi di pesce lagunare -come cefali, molluschi e crostacei- al pesce del nostro mare, come acciughe e sarde”. L’obiettivo è la riscoperta dei pesci locali e di stagione, puntando sulla qualità dei prodotti e non, come fa la grande distribuzione, sulla quantità. “L’autogestione tipica delle proprietà collettive offre, attraverso la conoscenza pratica e la professionalità dei suoi pescatori, prodotti locali di alta qualità, garantendo la tutela ambientale, paesaggistica, culturale e socio-economica della laguna -riprende Ivana Zanetti-, e difendendola così da speculazioni a breve termine e dal depauperamento della risorsa naturale”.
BOX | L’epopea dei cicciarelli di noli
Si guarda in mare con lo spegiu, una sorta di oblò, finché si scorge una macchia nera. Sono i cicciarelli: pesciolini affusolati, color argento e senza squame, lunghi più o meno quanto le dita di una mano. A Noli, in provincia di Savona, da sempre, li conoscono come lussi o lussotti e, da sempre, li pescano con la rete a sciabica. I pescatori sono ancora poche decine, e fanno parte di una cooperativa antica, fondata all’inizio del Novecento come società di mutuo soccorso, eredi di una grande tradizione. Questi pesci li conoscono e li pescano solo qui: basta spostarsi di qualche chilometro e nessuno li hai mai sentiti nominare. Sono un presidio Slow Food, ma dall’anno scorso la loro pesca è proibita. Lo dice l’Unione europea, che con il Regolamento del Mediterraneo sulle pesche speciali (CE 1967/2006), approvato nel 2010, ha proibito la pesca di diversi tipi di pesce tra cui appunto i cicciarelli. “Un danno enorme per i pescatori artigianali e per la comunità intera e una vera e propria assurdità, visto che questi pesci non li conosce quasi nessuno -spiega Daniela Borriello, responsabile pesca per la Liguria di Agci, l’Associazione generale cooperative italiane-. Invece di valorizzare un pesce eccellente e salvare l’antica tecnica della pesca con la rete a sciabica, l’Ue sceglie di fare di tutta l’erba un fascio, proibendo di fatto la pesca di una risorsa culturale, turistica ed economica importante”
Il blocco include anche quella di altri pesci, tra cui i bianchetti (il nome ligure per il novellame del pesce azzurro). Sulla loro pesca, che si pratica per pochi mesi all’anno, il dibattito è dei più accesi.
Tutti d’accordo invece sulla necessità di riaprire la pesca ai rossetti, che sono pesci adulti.
BOX | Video-inchieste fatte in mare
BOX | Pesce locale e di stagione, le guide per orientarsi
Ogni mese ha il suo pesce (è di stagione quello pescato non in fase riproduttiva): sgombri e palamite in primavera, orate e sogliole d’estate, triglie e spigole in autunno, polipi e seppie in inverno. La parola d’ordine è diversificare le scelte: esistono 25.000 specie commestibili di pesce nel mondo, il mare non è fatto solo di orate e branzini. Da evitare il consumo di specie a rischio di estinzione, come il tonno rosso, gravemente minacciate, come il salmone selvatico dell’Atlantico, il pesce spada, il merluzzo nordico e lo squalo, o poco sostenibili, come i gamberi tropicali. “L’acquacoltura intensiva, che distrugge gli ecosistemi costieri e consuma enormi quantità di farina di pesce (pescato!), non è una soluzione alla sovrapesca” scrive Slowfish.