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Esteri / Reportage

Un racconto del fallimento della nuova costituzione cilena

© Alessandra Cristina

Il 4 settembre 2022 la maggioranza degli elettori cileni ha bocciato la proposta di una nuova carta ecologista, femminista e plurinazionale, frutto di un percorso di lotta che ha visto nelle proteste dell’ottobre 2019 un passaggio chiave. In quale contesto è maturato il tonfo e quali prospettive si aprono per un Paese “orfano”

Camminare nei centri delle principali città cilene è come leggere un libro che non fa troppi giri di parole e che colpisce per la sua incisività. I muri, oltre a esprimere un dissenso politico, confermano la polarizzazione di questo popolo: per alcuni quelle scritte sono sintomo di degrado e violenza, per altri sono un modo per marcare la propria presenza.

Da quando nel 2019 sono scoppiate le proteste per un Paese più democratico e con più diritti sociali, gli slogan sui muri hanno accompagnato il popolo cileno nel processo per scrivere una nuova costituzione ecologista, femminista e plurinazionale che, nonostante i buoni propositi, il 4 settembre 2022 ha fallito nel suo tentativo.
Questa volta si trattava di concludere il processo iniziato il 25 ottobre del 2020, quando gli elettori avevano deciso con il 78% dei voti che non volevano più l’attuale costituzione scritta durante la dittatura di Augusto Pinochet. Due anni dopo, la nuova proposta elaborata dalla convenzione costituente eletta democraticamente, è stata rifiutata con un sorprendente 62% dei voti, uno scenario impensabile per un popolo che dal 2019 a oggi sembrava essere l’avanguardia nella disputa del potere politico.

I manifesti referendari © Alessandra Cristina

Durante la giornata di domenica 4 settembre per le strade del Cile si respirava un’aria piena di speranza e di incertezza. I volti delle persone nelle numerosissime file per entrare a votare erano tutt’altro che rilassati, la posta in gioco era troppo alta. Dopo aver messo la scheda nelle urne molti correvano a casa per seguire gli scrutini in televisione, con familiari e amici. Dopo i risultati a favore dell’apruebo dei cileni all’estero, alle 17 locali, sono iniziati i primi scrutini nella Regione di Magallanes, che è un’ora avanti. Voto dopo voto, l’opzione del rechazo andava aumentando sempre di più. Alle 18 si sono aperte le urne in tutto il resto del Paese. Alle 19.15 la sconfitta dell’apruebo era una conferma.

Per il 37% della popolazione che ha approvato, il risultato di domenica è stato uno shock, un risveglio troppo brusco da un sogno condiviso e collettivo iniziato con le rivolte dell’ottobre 2019. A Santiago molti di loro hanno deciso comunque di andare a Plaza Dignidad, simbolo e centro delle proteste nella capitale, per elaborare il lutto collettivamente. Al posto dell’empatia sono stati ricevuti dai cannoni ad acqua e dal lancio di gas da parte dei carabineros, che hanno iniziato a reprimerli. Per altri, i più conservatori, è stata una vittoria dei simboli patriottici, del nazionalismo e di un sentimento anticomunista ancora molto diffuso nel Paese. È stata festeggiata tanto nei quartieri ricchi come in quelli più umili.

La vera differenza l’hanno fatta però gli elettori che non si riconoscono né a destra né a sinistra, ovvero circa un terzo dei votanti, che hanno “dovuto” esprimere una preferenza a causa del voto obbligatorio. A gran sorpresa, soprattutto per la sinistra che l’aveva promosso, molti di loro hanno scelto l’opzione del rechazo per manifestare la loro disillusione nei confronti dei politici e dell’attuale governo.
La campagna elettorale è stata combattuta su diversi fronti: se da un lato i muri delle città si riempivano di scritte spontanee che appoggiavano la nuova proposta, dall’altro nei canali televisivi risuonavano le voci di un potere economico e comunicativo che invitavano a rifiutarla. Ancora una volta la destra ha attaccato a colpi di fake news che assicuravano che se avesse vinto l’apruebo lo Stato si sarebbe impossessato, tra le altre cose, dei fondi pensionistici e delle case di proprietà dei cittadini.
Ma sarebbe un grave errore incolpare solo ed esclusivamente il potere economico della destra per questa sconfitta dei movimenti sociali e del governo, senza fare una profonda autocritica a sinistra, perché la vittoria è stata troppo schiacciante e in tutto il territorio: l’apruebo ha vinto in soli otto municipi su 346.

© Alessandra Cristina

In questo senso il caso cileno dimostra una profonda crisi politica e di legittimità, in uno scenario economico sfavorevole simile a quella di altri Paesi, con una recessione che non si vedeva da anni e con un’inflazione che rende più caro il costo della vita solo dei più umili. Il governo -giovane e ingenuo per la sua pochissima esperienza al comando- non è riuscito ad imporsi, mentre la destra, unificata in questo caso da un progetto in comune, ha indicato il “colpevole” di tutto questo, convincendo le persone: ovvero il presidente Gabriel Boric.

La destra ha capito la crisi di rappresentanza molto bene. Hanno abbandonato la scena pubblica i volti classici, che sono stati sostituiti da persone nuove, giovani, che fanno finta di avere una certa indipendenza e che si presentano con un apparente discorso critico, riuscendo così a interpretare il cileno medio.
La battaglia sul piano della comunicazione la destra l’ha vinta sin dalla prima settimana di campagna, è riuscita a muovere l’asse con un discorso che non si basava sulla difesa della costituzione del dittatore. Gli slogan “Rifiuto per riformare” e “No a una costituzione scritta in questo modo” guadagnavano sempre più approvazione man mano che perdeva legittimità una convenzione che sembrava mettere in dubbio l’aspetto più sensibile dell’identità dell’elettorato: la propria “cilenità”.
Secondo una ricerca di Cadem -azienda che conduce studi di mercato e sull’opinione pubblica-, uno dei fattori che ha fatto più rumore della proposta costituente è stata la plurinazionalità che mirava al riconoscimento dei popoli originari che vivono nel territorio come nazioni. A differenza di altri Paesi dell’America Latina che hanno delle costituzioni plurinazionali, come la Bolivia e l’Ecuador, dove la popolazione indigena supera l’80%, in Cile solo il 12% della popolazione si riconosce nativo.
I mezzi di comunicazione e i rappresentanti del rechazo hanno approfittato di questa divisione per aprire una frattura profonda nel cuore della nuova proposta costituzionale. Il rechazo domenica ha vinto anche perché è riuscito ad imporre questo discorso per mesi. Si sono appropriati della bandiera, dell’inno e dell’identità cilena, a scapito di una proposta plurinazionale che, secondo loro, avrebbe offeso l’essenza del patriottismo, la propria nazionalità. Poco importava il testo, è bastato il titolo per generare il rumore sufficiente a rendere tutto illegittimo.
Le regioni con maggiore concentrazione indigena sono state quelle dove il rechazo ha vinto di più. L’indigenismo costituente è partito con delle bellissime intenzioni ma non è riuscito a fare una buona diagnosi nel momento in cui doveva interpellare i suoi popoli e tutto il resto del Cile.

Il caso cileno sembra essere quello di un Paese in cui nonostante il modello di accumulazione e la rispettiva dirigenza politica siano costantemente in agonia, il popolo non riesce a rompere con l’ideologia dominante. È vero che la rivolta dell’ottobre 2019 ha acuito una crisi senza precedenti, ma il risultato di domenica 4 settembre ha dimostrato che i cambiamenti ideologici e culturali sono stati più apparenti che reali. Come sosteneva Karl Marx 150 anni fa, la falsa coscienza dell’ideologia dominante è riuscita ad imporsi come visione del mondo collettiva, quando rappresenta solo gli interessi di una classe in particolare.

Lo scenario politico dopo il plebiscito è ricco di incertezze. Il governo da parte sua vuole insistere sulla via costituzionale con un nuovo processo costituente, mentre ricominciano le proteste degli studenti e con loro la repressione. Nonostante il presidente Boric non abbia la forza per imporsi, la cosa certa è che nemmeno la destra ha un leader chiaro, tantomeno un progetto unico.
La legittimità della vittoria del rechazo è effimera come le scritte sui muri che la domenica sera hanno assunto un nuovo significato per chi in questo processo ci credeva. È come se gli elettori di sinistra, tanto quanto le parole sui muri, fossero diventati orfani di significato, decorando solo le strade di un Paese profondamente incerto.

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