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Diritti / Opinioni

Un racconto dalla nave dei folli che attraversa il mare tempestoso dell’insensatezza carceraria

© De an Sun - Unsplash

L’apparato penitenziario italiano non è più in grado di tenere una rotta già sgangherata. Suicidi ed episodi di conflitto, pur frequenti in passato, si verificano ormai quotidianamente. Il governo sa rispondere solo con “giri di vite” legislativi, una soluzione buona per gli annunci e non per le vite dei reclusi. La testimonianza di Monica Cristina Gallo, Garante di Torino, dalla casa circondariale Lorusso e Cutugno

“Direzione Casa Circondariale Lorusso e Cutugno Torino”. Chissà quante centinaia di volte sono passata sotto questa targa negli ultimi nove anni eppure ogni volta l’indicazione di casa circondariale mi ricorda che fra pochi minuti la contraddittoria realtà con cui mi confronterò mi porterà a incontrare persone appartenenti a tutti i circuiti detentivi previsti dall’ordinamento e non solo in attesa di giudizio o condannate a pene inferiori ai cinque anni come invece prescrivono le norme per questa tipologia di struttura. In ogni caso al Garante dei diritti delle persone private della libertà personale è richiesto di monitorarne la praticabilità da parte di tutte le persone presenti in carcere, anche di quelle che non dovrebbero essere recluse, appunto, in una casa circondariale.

Ormai dopo quasi un decennio di attività so per certo che, in termini generali, il bilancio per ciascun detenuto è palesemente in passivo: se lo Stato ti condanna, a prescindere dal reato commesso, non solo perdi la possibilità di libero movimento, la ricchezza del tempo di vita, le relazioni significative; perdono anche di intensità i diritti di cui sei ancora detentore, uno per tutti, quello relativo alla salute e alla possibilità di cura.

Quando le giornate si aprono, come oggi, con una lastra grigia di cemento al posto del cielo, i dubbi sull’utilità del mio ruolo e l’ipotesi di costituire una democratica ed elegante foglia di fico per un sistema per niente efficiente ed efficace, si fanno insistenti e verrebbe voglia di rimettersi in macchina e andarsene. Invece ogni volta il vecchio motto contadino “l’ottimo è nemico del buono” finisce per prevalere e così anche oggi mi avvicino allo sportello per essere accreditata all’ingresso.

La carta d’identità scivola per pochi millimetri per essere raccolta dall’altra parte del vetro dalle dita di una giovane agente della polizia penitenziaria. Non ci mette molto a tornare indietro accompagnata da un pass numerato; dovrò esibire l’una e l’altro ogni volta che accederò a un nuovo padiglione. All’uscita sarà uno strazio separarli, dopo averli conservati in tasca per l’intera giornata, rischiando che l’identità finisca per confondersi nel numero e il numero nell’identità.

Quello che succede quando la persona condannata o reclusa in attesa di una sentenza oltrepassa questo cancello: fino a poco tempo prima era una persona, poi diventa un reato, a seguire è la sua condanna con annesso il fine pena e infine dell’originaria identità rimane un involucro corporeo dalla dignità di numero, di oggetto.

Recupero dalla feritoia documento e “pass 8” e poi pochi passi per raggiungere il bar interno e tentare di occupare un tavolino insieme ai componenti dell’ufficio Garante per programmare i colloqui della mattinata. Il colpo d’occhio di agenti, infermieri, educatori e avvocati da una parte del bancone e di detenuti-baristi dall’altra per un visitatore del carcere alle prime armi potrebbe sembrare rassicurante. Si sprecano i “buongiorno”, i “per cortesia”, i “prego, grazie”, si sorride, si chiacchiera, si sbircia il televisore per intercettare l’ultim’ora del telegiornale, si fa la raccolta differenziata. C’è ordine, almeno nell’organizzazione dei rifiuti.

Consumato il caffè, mentre procediamo a dividerci cognomi, padiglioni, emergenze e verifiche da fare, abbandoniamo il civile brusio e ci mettiamo in coda per essere accreditati e ammessi all’area più interna della casa circondariale Lorusso e Cutugno. Quattro agenti: uno seduto e tre in piedi alle sue spalle. Questa volta carta d’identità e pass effettuano insieme il percorso di andata e ritorno e a questo punto possiamo avviarci all’area dei padiglioni per verificare lo stato dell’esigibilità dei diritti delle persone private della libertà che incontreremo. Ci vengono incontro due persone con borse ricolme di effetti personali, presumibilmente stanno per essere dimesse, un agente al di là della barriera li aspetta e tende loro un paio di cellulari, ciascuno in una busta di plastica trasparente, un gesto che sancisce simbolicamente la conclusione della detenzione.

La vista della saletta in cui attendono le persone fermate in attesa delle procedure di presa in carico da parte del personale ci conferma che le dinamiche che generano il sovraffollamento sono costantemente operative: tre giovani uomini siedono con la schiena piegata, la fronte verso il pavimento, i capelli crespi e abbigliamento decisamente non firmato. Azzardo: non hanno la cittadinanza italiana. Mentre varchiamo il portoncino che immette alla struttura da cui si diramano i padiglioni il risultato è “Ingressi vs Dimissioni 3 a 2”.

Poi parte la raffica di “Buongiorno”, offerti a tutti e da tutti ricevuti. Il galateo del carcere lo prevede, è come se con quel saluto insistito si volesse addolcire la dura esperienza della reclusione e dell’articolato lavoro che la rende possibile, come se quella garbata postura potesse allontanare la cruda realtà delle relazioni, la violenza del quotidiano sopravvivere, l’incommensurabile distanza fra detenuti e le altre persone.

Raggiunto il padiglione in cui incontrerò i detenuti che hanno richiesto un colloquio tramite la “domandina”, aspetto che si liberi uno dei bugigattoli che sono destinati a questo tipo di attività. Mobilio di recupero, sedie improbabili che a volte sembrano sottratte a qualche scuola elementare, prevale il senso di squallore, ma non è ancora niente: fra poco, facendosi largo nel rumore di fondo composto dallo sbattere dei cancelli che si aprono e chiudono in continuazione, dalle urla che arrivano dai corridoi delle sezioni, dalle comunicazioni altrettanto urlate degli agenti, entreranno le vite di scarto, vicende marginali, genitorialità interrotte, dolori inferti e subiti, ignoranza e speranza.

Entrano spesso con ciabatte di plastica ai piedi: sono piedi che a volte hanno superato migliaia di chilometri di terra e mare, piedi che non sono autorizzati a soggiornare, piedi a volte senza nome, piedi che non dovrebbero essere stanziali, piedi che, in quanto piedi, dovrebbero camminare e che invece paradossalmente la nostra società, respingendoli, trattiene. Raramente sono piedi da grave reato, solitamente poggiano sui gradini più bassi della scala della devianza, piedi buoni per il castigo della politica e dell’opinione pubblica a mezzo televisione.

Sono piedi che, scuri o chiari che siano, entrano e ci chiedono di fare qualcosa, qualunque cosa pur di non passare le giornate nel tipico nulla del carcere. Chiedono lavoro, soprattutto per sé, per la propria dignità ma anche per provvedere a qualche impegno familiare esterno. Entrano zoppicando e a volte trafficando per entrare nello stanzino perché, ormai inutili, si spostano con la carrozzina.

E sono braccia che sporgono da magliette di squadre di calcio oppure coperte, a nascondere l’aratura di tagli ripetuti della pelle che raramente fruttano attenzione e quasi mai un qualche cambio di destino. Li definiscono sbrigativamente come “gesti strumentali”, ma nei colloqui che svolgiamo aiutano a mettere a fuoco una frustrazione che trova quel linguaggio per esprimersi, per trovare una possibilità di ascolto. La pelle come campo identitario: negli spazi lasciati liberi da queste linee che demarcano l’area del dolore da quella della custodia si sviluppano i racconti tatuati della vita precedente e di quella futura. Lacrime, spade, nomi, frasi che legano e impegnano. È un racconto che sempre più spesso occupa luoghi, fino a qualche tempo fa inesplorati, come il viso.

Entrano occhi gonfi di noia e di speranza, occhi che ne hanno viste di ogni tipo, insonni, occhi pieni dei gesti che li hanno condannati, occhi, sempre più spesso, vuoti anche se abitati da ingombranti fragilità mentali, occhi che sono lo specchio di un anima -chissà se esiste- che la persona vorrebbe mettersi in pace, ma che in pace non ci sa stare.

E, sotto gli occhi, le bocche, che si fanno più educate perché con noi non c’è bisogno di urlare per farsi ascoltare da un agente o da un compagno di sezione. Bocche “Lo dico, ma non ditelo”, “Con quella storia io non c’entro, mi hanno messo in mezzo”, bocche “Mi raccomando, solo voi mi potete aiutare”. Bocche “Io qua dentro ci muoio”. Bocche che a volte non capiamo.

E nei colloqui vengono esibite epidermidi malate, non curate, ulcerate: in questo contesto mura e cura non hanno lo stesso peso. Infezioni che attendono i lunghi tempi della presa in carico della sanità carceraria, carie e ascessi che fanno il proprio quotidiano lavoro incuranti della tempistica delle visite odontoiatriche prenotate a distanza di semestri, accertamenti esami e interventi subordinati alla disponibilità di personale addetto alla scorta. Questo il rosario delle, chiamiamole, disfunzioni carcerarie che le persone ci riferiscono regolarmente e che noi, altrettanto regolarmente, riportiamo ai responsabili sanitari perché ne traggano le necessarie valutazioni.

Il malessere emotivo ed esistenziale delle persone che incontriamo è sempre più palese, le bocche a volte rimangono senza parole e molti colloqui finiscono con la persona che boccheggia, scuote la testa e, non di rado, piange. Manca un senso, non c’è collegamento tra la norma che disciplina e regola gli obiettivi e le modalità della carcerazione e la vita che, faticosamente, si svolge nella struttura penitenziaria. Chiamare “percorso di reinserimento nella comunità” quella che ha tutta l’aria di essere esclusivamente una vendetta, fa girare la testa a me per prima, figurarsi alle persone che sono protagoniste di questa insultante ipocrisia. Ne ho ulteriore conferma all’uscita del padiglione “F”, dove ancora una volta ho incontrato quella eccentrica condizione di reclusione che vivono le donne ristrette, per le quali è davvero difficile spiegare tutte quelle “giornate amare” consumate in una subalternità di genere che le rende ultime fra gli ultimi.

Questa nave dei folli naviga nel mare tempestoso dell’insensatezza carceraria spiegando le vele della distribuzione di farmaci, quelli che attenuano il vento e le folate della disperazione, quelli che impattano sulla psiche e, insieme alla massiccia assunzione di nicotina e all’ipnosi televisiva, aiutano a trascorrere il tempo recluso smussandone gli spigoli più acuti. Ultimamente questo sistema pare però essere entrato in una profonda crisi, a Torino come altrove: le vele farmacologiche e l’intero apparato non sembrano più capaci di tenere la già sgangherata rotta e la nave sembra senza controllo e gli episodi di conflitto, già frequenti in passato, si verificano quasi quotidianamente e non saranno gli imminenti “giri di vite” legislativi promossi dall’attuale governo a creare le condizioni per una nuova, serena navigazione.

Gli incontri proseguono fra la denuncia di mancati colloqui con i familiari, di nottate passate in compagnia di scarafaggi, di cibo scadente, di mancati trasferimenti per avvicinarsi a figli che stanno crescendo lontani, di tentativi di suicidio di compagni di cella, dell’assenza di educatori mai incontrati, mentre nell’aria si spandono gli odori dei pasti che si vanno preparando in cella mischiati a quelli rilasciati dal carrello del vitto che entra nelle sezioni.

Chi ha un fine pena prossimo e scarse prospettive per il periodo successivo alla dimissione ci chiede di indicargli una soluzione abitativa alla sua portata e l’indicazione di un’opportunità lavorativa, tutte richieste a cui non possiamo dare una risposta. La tutela dei diritti della persona privata della libertà non si estende anche alla dimensione della vita libera anche se lo stato delle cose ci convince che tale libertà non durerà a lungo e il rischio di recidiva per le persone è così alto che l’ipotesi di rientro in galera ha forti probabilità di realizzarsi.

Questa è la galera di Torino, ma “galera” è anche un vecchio termine ancora in voga che deriva dalla “galea”, un’imbarcazione veneziana ai cui remi persone condannate scontavano i lavori forzati. Mentre lascio il padiglione e mi accingo ad espletare al contrario le procedure per l’accreditamento, mi fermo a respirare all’aria aperta, faccio un bilancio di ciò che ho vissuto nella giornata e mentre mi avvio sento nitido alle mie spalle il rumore dei remi mossi da quella incredibile umanità che si agita a bordo. Oggi, ogni tanto qualcuno si è alzato, ha poggiato i remi, ha lasciato il posto per incontrarmi per qualche minuto per poi tornare a vogare ben sapendo che la rotta è confusa e che a nessuno dei capitani importa davvero. Sono persone che ho guardato negli occhi, ascoltato e cercato di capire, che mi hanno affidato frammenti di vita, raccontato un pezzo della loro esperienza.

Sono davanti allo sportello che mi ha accolto a inizio giornata, restituisco il pass e nell’introdurlo nella feritoia il tesserino si piega e il numero “8” diventa per un istante “∞”, infinito. Infinito come il senso di frustrazione che sento nel girarmi un’ultima volta a guardare questa nave dei folli, che naviga, senza timone e senza timore, verso il naufragio. Suo e del mondo sedicente libero.

Monica Cristina Gallo è Garante dei diritti delle persone private della libertà di Torino. Luigi Colasuonno è membro dell’ufficio del Garante

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