Diritti / Intervista
Tonin Preci. Lotta e passione per i diritti
La laurea in Italia poi il ritorno in Albania con il sogno di cambiare il Paese. Deluso dal premier Edi Rama, ha fondato il primo sindacato indipendente dei call center
“Era il 2011, stavo finendo gli esami all’università, Scienze politiche, a Padova. Avevo partecipato a tutta la lotta contro la riforma Gelmini, tornai a casa per le feste di Natale. Tirana era in subbuglio: le proteste contro il governo di Sali Berisha erano all’apice, la polizia sparò sui dimostranti, ci furono vittime. Tornai per laurearmi, ma avevo deciso, dovevo tornare a casa. Se non si impegnava la mia generazione a cambiare il Paese, chi lo avrebbe fatto? I sacrifici dei miei genitori, che avevano rovesciato un regime e avevano permesso a me di studiare, sarebbero andati perduti. E sono tornato”.
Tonin Preci è stanco, parla un italiano impeccabile, fuma davanti al suo caffè in un bar affollato di Tirana e ricorda. “Appena tornato mi sono iscritto al Partito socialista. Edi Rama, come sindaco di Tirana, ci ha fatto sognare, ha convinto la mia generazione che lui era la persona giusta per portare l’Albania nel futuro. Abbiamo vinto, nel 2013, il suo primo mandato da primo ministro. Ma sono bastati pochi mesi per iniziare a sentire la delusione, giorno per giorno. Mi sono allontanato dalla politica, come tanti. E ho iniziato a lavorare nei call center. Non contava nulla la mia laurea, era l’unico lavoro che trovavo. Ero là, senza pensare, come un robot. Non è un lavoro facile, perché chi chiama è arrabbiato. Ho conosciuto un’Italia diversa, furiosa, razzista, che chiedeva di ‘parlare con un italiano’. Ma io andavo avanti. Nel 2015 ho scoperto che sarei diventato padre e tutto è cambiato. Cosa avrei lasciato a mio figlio? Mi sono chiesto: cosa sto facendo, dove sono finiti i miei sogni? La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stato Edi Rama che, in Italia, al fianco di Matteo Renzi, invitava gli imprenditori italiani a venire a investire in Albania. Perché? Perché non ci sono i sindacati. Mi sono sentito come se mi avessero sparato al cuore. Mi sono sentito uno schiavo. Ho detto basta”.
Tonin lavorava, nel 2018, a TelePerformance, multinazionale francese dei call center che opera in 78 Paesi. “Questo settore, in Albania, è molto importante. Sono almeno 25mila i lavoratori registrati, ma con il ‘sommerso’ si arriva almeno a 30mila dipendenti. Stiamo parlando del 7% dei lavoratori albanesi -racconta Tonin-. Un’ora di lavoro è pagata tra i 2,5 e i 3 euro, a seconda dei clienti dei call center e dei servizi che appaltano. Ogni compagnia, senza alcuna regola, applica un sistema di bonus e indennità, revocabili in ogni momento. Nei contratti -che adesso sono per lo più a tempo indeterminato, ma non significa nulla, nel senso che puoi essere licenziato con una mail– si specifica solo la paga base, tutto il resto deriva da accordi verbali tra il dipendente e il gestore del call center. A tempo pieno, puoi arrivare a 500 euro, 600 se sei molto performante. Non esiste alcuna tutela. I ragazzi entrano nei call center, ti raccontano tutti la stessa storia: farò questo lavoro per un po’, in attesa di meglio, con le lauree e i dottorati che marciscono nei cassetti. Ti svegli di colpo e sono passati dieci anni, non hai alcuna professionalità, non hai alcuna tutela. Ho iniziato a parlare coi colleghi, ho contattato la UniGlobalUnion (piattaforma internazionale che sostiene i sindacati indipendenti, ndr) e, a febbraio 2019, abbiamo fondato il primo sindacato indipendente dei lavoratori dei call center in Albania, ‘Solidariteti’ (Solidarietà)”.
Da quel momento sono cominciati i guai di Tonin. “Hanno aderito subito centinaia di colleghi, ma il giorno seguente alla registrazione in tribunale del sindacato, i dirigenti di TelePerformance giravano in ufficio con la foto pubblicata dai giornali chiedendo chi fossero quelli che avevano creato il sindacato. Immediatamente mi hanno spostato in una sede secondaria, con solo dieci colleghi. Nessuno mi rivolgeva la parola, solo mesi dopo ho scoperto che una mail intimava loro di non darmi retta, mentre a due colleghi son stati promessi bonus se raccontavano ai capi cosa facevo. Ero sconvolto, un’azienda francese, come quelle italiane, si comportava così? A me i miei genitori hanno insegnato che l’Europa significa libertà, diritti. E invece io, come lavoratore, ne ho meno di loro durante il regime comunista. Ma non mi sono fermato, nonostante tutti mi dicessero di desistere. Chiediamo un contratto nazionale collettivo, il riconoscimento delle malattie professionali, soprattutto per l’udito e per la schiena, chiediamo scatti di anzianità e la regolamentazione dei bonus. Cosa c’è di pericoloso? Ma è dura, i colleghi hanno paura di perdere il lavoro e i media ne parlano poco o ci danno dei ‘comunisti’, in memoria del regime, come se una dittatura e il rispetto dei diritti fossero la stessa cosa”.
“I colleghi hanno paura di perdere il lavoro e i media ne parlano poco o ci danno dei ‘comunisti’, in memoria del regime, come se una dittatura e il rispetto dei diritti fossero la stessa cosa”
La pandemia non ha aiutato Tonin e gli altri sindacalisti. “Hanno chiuso tutto, a marzo 2019. Poi ci hanno convocato in azienda, chiedendo che firmassimo un accordo per restare senza stipendio. Abbiamo rifiutato, ma allora hanno provato a imporre il controllo dello smart working con webcam istallate sui pc personali a casa. Grazie a una mobilitazione internazionale, anche in Francia, li abbiamo fermati, ma è durissima. Ho trovato lavoro in un altro call center, TelePerformance si è liberata di me”. Le ultime elezioni in Albania, il 25 aprile scorso, hanno incoronato Edi Rama per un terzo mandato; non era mai successo dopo la caduta del regime. “Nessuno crede più in lui, ormai. Il sistema del potere si basa sui rapporti tra governo e oligarchi dei settori chiave dell’economia. Un’opposizione, in Parlamento, non esiste, ma cresce ogni giorno nella società civile. Sono nati sindacati autonomi dei minatori, dei lavoratori della raffineria, tra le operaie del tessile. Siamo qui, siamo europei, se questa parola significa qualcosa. Sono un lavoratore e un essere umano, non ho nulla di diverso da un lavoratore italiano e francese e voglio gli stessi diritti. Questo ci unisce e daremo battaglia, nella società, per cambiare la politica e soprattutto la nostra vita. Ho imboccato, con gli altri, una strada senza ritorno, ma non mi sono mai pentito, perché quando guardo mio figlio so che sto facendo tutto quello che posso per lasciargli la dignità”.
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