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Esteri / Approfondimento

Albania, Eritrea, Italia: il 1991 e le radici culturali dell’“esodo”

La nave “Vlora” all’arrivo nel porto di Bari: era l’8 agosto del 1991, e a bordo c’erano oltre 16mila profughi albanesi - © Luca Turi/Ansa

È passato un quarto di secolo da un anno-chiave delle nostra contemporaneità. Dall’estate in cui assistemmo all’arrivo in Puglia dei primi boat people e dalla indipendenza dell’ex colonia del Corno d’Africa, da cui scappano i profughi del 2016

Tratto da Altreconomia 184 — Luglio/Agosto 2016

I grandi passaggi storici coincidono spesso con l’abbattimento delle statue dei dittatori. Il 20 febbraio del 1991 in piazza Skanderbeg, nel cuore della capitale albanese Tirana, una folla oceanica composta da studenti e operai abbatté la statua bronzea di Enver Hoxha. Hoxha, l’artefice di uno dei regimi comunisti più totalitari e claustrofobici che siano mai esistiti, era morto nel 1985. Le redini del potere erano nel frattempo passate nelle mani del delfino Ramiz Alia, che in suo onore fece costruire quella statua alta dieci metri.

Il 20 febbraio, dopo settimane di proteste e di sciopero della fame da parte degli studenti che chiedevano semplicemente più libertà e democrazia, oltre che la propria università non fosse più intitolata al dittatore scomparso, la statua venne abbattuta. In pochi giorni, un regime basato sul più assoluto isolamento (non solo nei confronti dei Paesi occidentali, ma anche nei confronti di tutti i Paesi dell’Europa dell’est e della stessa Cina, considerati ormai come traditori dei rigidi dettami del marxismo-leninismo) andò in frantumi.

Poche settimane dopo, ai primi di marzo, iniziarono i primi viaggi dei boat people verso le nostre coste. A meno di due anni dalla caduta del Muro di Berlino, cadeva la cortina di ferro anche nel Basso Adriatico. Nella sola città di Brindisi, a bordo di diverse imbarcazioni, arrivarono ventimila albanesi, che furono accolti dalla popolazione locale. Per capire la psicologia di quei viaggi, l’ansia spasmodica di approdare sull’altra sponda, bisogna ricordare che quegli uomini e quelle donne, spesso giovanissimi, erano le prime persone “normali” (non appartenenti, cioè, alla ristrettissima élite del partito) a mettere piede fuori dai confini statali dopo quarant’anni.

Da allora, la nostra percezione del Mediterraneo si è profondamente trasformata. Tuttavia a materializzare l’immagine dell’esodo davanti ai nostri occhi non furono tanto quei viaggi di marzo, quanto l’approdo del mercantile Vlora nel porto di Bari la mattina dell’8 agosto del 1991. A bordo, stipati in ogni anfratto della nave, c’erano oltre sedicimila persone. Chi non era ancora nato, può capire qualcosa del viaggio più imponente nella storia del Mediterraneo recente, e dell’impatto che ebbe sull’opinione pubblica italiana e europea, attraverso le immagini di due film recenti: Anija di Roland Sejko e La nave dolce di Daniele Vicari.

Appena quell’enorme massa di persone sbarcò sul molo del porto, si pose il problema di dove sistemarla. L’allora sindaco di Bari Enrico Dalfino avrebbe voluto costruire un campo d’accoglienza nella zona della Fiera del Levante. Ma il ministero dell’Interno (e alle sue spalle, d’imperio, il presidente della Repubblica Francesco Cossiga) optò per una soluzione che non prevedesse il rispetto di alcun minimo standard di accoglienza, oltre che dei più elementari diritti. Quelle migliaia di uomini e donne vennero confinate nello Stadio della Vittoria, il vecchio stadio di calcio in disuso, sostituito dal San Nicola che solo un anno prima aveva ospitato la finale per il terzo posto dei Mondiali di Italia ‘90.

Dalla fine della Seconda guerra mondiale, in Europa occidentale, solo un’altra volta migliaia di civili erano stati accatastati in uno stadio. Era accaduto nel 1961 a Parigi, quando migliaia di algerini vennero rinchiusi nel Velodromo d’Inverno, già tristemente noto come luogo di internamento degli ebrei nel 1942.

Quasi tutti gli albanesi ammassati nello stadio vennero rimpatriati. Vista col senno di poi, quella decisione caldeggiata dallo stesso Cossiga portò alla creazione del primo grande centro di permanenza informale sul suolo italiano. Come se la politica dei grandi centri, successivamente articolata negli anni degli sbarchi sulle coste pugliesi e poi esportata in tutta Italia, avesse mosso i propri passi proprio a partire da quella scelta scellerata.

Tuttavia, come nel 1961 la polizia francese aveva confinato in un velodromo i figli e i nipoti dei colonizzati che protestavano, nel 1991 a finire nello Stadio della Vittoria furono i figli e i nipoti di un Paese che in passato era stato occupato dall’Italia fascista -un Paese in cui tutti parlavano italiano non solo perché i suoi abitanti riuscivano a captare le onde delle nostre emittenti televisive, ma soprattutto perché le basi dell’italianizzazione voluta dal fascismo, a cominciare dall’urbanistica, non erano state del tutto divelte dal successivo regime-.

A materializzare l’immagine dell’esodo davanti ai nostri occhi fu l’approdo del mercantile Vlora nel porto di Bari, l’8 agosto del 1991. A bordo c’erano oltre 16mila albanesi

Prende così forma, proprio nel 1991, un singolare intreccio tra miopia sulle cause dei viaggi contemporanei e rimozione di quell’antico passato coloniale, che precede spesso lo sconquasso politico da cui poi i viaggi hanno origine. A venticinque anni di distanza da quegli eventi, e dalla paura dell’“invasione albanese” che allora generarono, è facile constatare come  mezzo milione di uomini e donne provenienti dal Paese delle aquile siano stati integrati nella società italiana. In particolare, si è formata una nuova generazione italo-albanese, perfettamente bilingue, che vive in bilico tra le due sponde dell’Adriatico, e che costituisce il rovescio esatto delle politiche dello Stadio della Vittoria (e dei deliri isolazionisti di Enver Hoxha, oltre che, andando un po’ più indietro nel tempo, di quelli imperialisti di Galeazzo Ciano). Un libro utilissimo per capire che cosa è accaduto in questi anni è L’immigrazione albanese in Italia. Dati, riflessioni, emozioni del sociologo Rando Devole (Agrilavoro, 2006).

Dopo le convulsioni degli anni Novanta e la lunga transizione post-comunista, l’Albania appare oggi enormemente mutata. Basta un dato per capire come siano lentamente cambiate le relazioni nel Basso Adriatico: secondo dati forniti dal ministero dell’Interno albanese, per la prima volta nel 2013 il numero degli albanesi rientrati in Albania dall’Italia (46mila), sommato a quello degli italiani che hanno richiesto un permesso di lavoro nel “Paese di fronte” (19mila), ha superato il numero degli albanesi emigrati in Italia nello stesso periodo. A Tirana c’è ormai una Little Italy che conta alcune decine di migliaia di abitanti.

C’è tuttavia un altro venticinquennale da ricordare in questa estate del 2016. Il 24 maggio del 1991, al termine di una guerra trentennale contro l’occupante etiopico, l’Eritrea ottiene l’indipendenza. Tuttavia, nel giro di pochi anni, il governo sorto intorno a Isaias Aferwerki e alla leadership del Fronte popolare di liberazione nazionale si trasforma in una spietata dittatura. Viene istituito il Tribunale speciale; decine di migliaia di oppositori finiscono nelle prigioni, alcune delle quali sono tuttora formalmente sconosciute. Il regime impone presto la leva obbligatoria a tempo indeterminato, sia per gli uomini sia per le donne. È da questo Stato-carcere che fuggono in massa decine di migliaia di eritrei. Se guardiamo i dati degli approdi in Italia dalla Libia negli ultimi due anni forniti dall’Agenzia Frontex (oltre 300mila persone) ci rendiamo conto che il 25% dei profughi è fuggito dall’Eritrea. Eppure raramente si parla della “questione eritrea” alla base dei viaggi nel Mediterraneo. E ancora più raramente -esattamente come per l’Albania- si parla del passato coloniale italiano nei posti da cui oggi si fugge in massa (si pensi anche alla Somalia).

L’indipendenza dell’Eritrea è del 24 maggio 1991. Nel giro di pochi anni diventa uno Stato-carcere, da cui è fuggito il 25% dei 300mila profughi arrivati dalla Libia negli ultimi 2 anni

Sono davvero sorprendenti le analogie tra due Paesi diversissimi come l’Albania e l’Eritrea. Entrambi occupati dal fascismo, hanno sviluppato in seguito una forma di iperstalinismo, dal cui dissesto è poi emerso un esodo di massa.

Tale esodo ha cause recenti (il totalitarismo tragicamente edificato dai movimenti di liberazione nazionale) e fantasmi lontani (l’eco dell’occupazione italiana). Spesso non riusciamo a districare l’intreccio tra i due piani, né a comprendere come entrambi i piani abbiano a che fare con il nostro presente. Per questo è importante iniziare a considerare il 1991 un anno-chiave della nostra contemporaneità. Un anno-chiave non solo per capire cosa sia accaduto in Albania e in Eritrea, ma per leggere le cause che hanno determinato due dei principali esodi di massa degli ultimi 25 anni.

Alessandro Leogrande è nato a Taranto nel 1977 e vive a Roma. È vicedirettore del mensile “Lo straniero”. Nel 2015 ha scritto “La frontiera” (Feltrinelli), finalista al Premio internazionale Tiziano Terzani nel 2016. Nel 2012, per lo stesso editore, aveva pubblicato “Il naufragio”, che ricostruisce la storia della Kater i Rades, una piccola motovedetta albanese stracarica di immigrati, speronata da una corvetta della Marina militare italiana nel marzo  del 1997. I morti furono 57, in gran parte donne e bambini, 24 corpi non verranno mai ritrovati

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