Finanza / Opinioni
Tassa sugli extra-profitti delle banche: il numero da circo non è riuscito
Il provvedimento estivo del Governo Meloni sugli istituti di credito rischia di fare la stessa fine della tassazione degli extra-profitti delle società del settore energetico voluta da Mario Draghi. Ma l’errore di fondo, secondo Remo Valsecchi, sta nelle politiche monetarie della Banca centrale europea e nel modo distorto di gestire il fisco
Il Governo Draghi, quello in cui Giancarlo Giorgetti, l’attuale ministro dell’Economia, era ministro per lo Sviluppo economico, aveva già provato a tassare gli extra-profitti, in particolare quelli delle società del settore energetico, realizzati grazie a speculazione e a forzature dei mercati. Si è dimostrata un’operazione inutile, secondo qualcuno perché il decreto legge era sbagliato, ipotesi forse corretta visto che nel bilancio consuntivo dello Stato, anno 2022, sono misteriosamente scomparsi 7,7 miliardi di euro di residui attivi nonostante dei 10,4 miliardi inseriti nel bilancio di previsione ne siano stati riscossi solo 2,6.
Anche l’attuale nuova tassazione degli extra-profitti bancari avrà la stessa sorte? È molto probabile. I presunti extra-profitti bancari, almeno esaminando i bilanci dei due maggiori istituti di credito italiani, non derivano da operazioni speculative. Nemmeno il “Margine di interesse”, la differenza tra interessi attivi e passivi, la voce “30” del Conto economico dello schema di bilancio delle banche, richiamata dalla norma, quella su cui la cui variazione superiore al 5% per l’anno 2022 e al 10% per il 2023 viene applicata l’imposta straordinaria del 40%, è frutto di operazioni speculative o di pratiche commerciali scorrette.
Non ho molta simpatia per le banche che hanno trasformato la finanza in mercato mentre, in un’economia reale ed equilibrata, dovrebbe servire per il sostegno dei mercati reali che, al contrario, sono diventati strumento della finanza. Non si può, però, addebitare alla responsabilità delle banche una scellerata, ed errata, disposizione della Banca centrale europea (Bce) che ha aumentato gradualmente il tasso di riferimento passando dallo 0% del 27 luglio 2022 al 4,5% attuale.
Anche i vertici della Bce, non prendiamoci in giro, sono espressione della politica che, pur critica sui provvedimenti, non ha fatto nulla per evitare che questo avvenisse. Anche l’opposizione di governo, che all’inizio degli aumenti era maggioranza, non ha detto nulla, e in effetti va bene così, ma per la politica non per il sistema Paese. Un errore grossolano, da veri incompetenti, quello dell’aumento dei tassi per contrastare un’inflazione non dovuta all’andamento della domanda e dell’offerta e nemmeno a una stagnazione dell’economia con un provvedimento che, al contrario, l’ha incrementata e, forse, ha avviato una recessione.
Un prestito a tasso variabile, mutuo o qualsiasi altro tipo, è formato da due parti: una, appunto, variabile e generalmente rapportata alla fluttuazione giornaliera dell’Euribor, determinato dalla Federazione bancaria europea (Fbe), oltre a essere influenzato dal tasso di rifermento fissato dalla Bce, e una parte fissa, lo spread, che oscilla tra l’1% e il 3%, ossia la remunerazione della banca, o altro ente erogatore del prestito, e concordato contrattualmente tra le parti.
Se il tasso di riferimento è nullo, com’era nel giugno 2022, lo spread è il ricavo della banca, se è il 4,5%, come è attualmente, il ricavo è lo spread aumentato dal tasso di riferimento, e la banca è contenta perché aumenta i profitti e garantisce dividendi ai propri azionisti.
Le imprese, quelle che producono beni e servizi per il mercato reale, quelle che incassano le fatture da tre a sei mesi dopo ma pagano oltre il 50% del prezzo di vendita prima della riscossione e devono farsi finanziare dalle banche, lo sono meno, anche perché devono trasferire il maggior costo finanziario sui prezzi di vendita, con conseguenti difficoltà in un mercato reale regolato dalla concorrenza.
Anche i consumatori, persone e famiglie (specialmente quelle con redditi fissi da lavoro o da pensione) soffrono perché il potere di acquisto di salari, stipendi e pensioni si è ridotto negli ultimi due anni in modo eccessivo e che, pur stabile o in leggera diminuzione nel 2023, non lo ha recuperato.
Dove vanno a finire le eventuali entrate per lo Stato di queste imposte? Lo spiega l’articolo del “Decreto Omnibus” precisando che sono destinate al Fondo di garanzia per la prima casa. Non si tratta di un costo, è un accantonamento per eventuali insolvenze dei mutuatari e per ridurre la pressione fiscale di famiglie e imprese.
Le banche non hanno responsabilità perché gli extra-profitti -10,8 miliardi di utili nel 2023, per le due maggiori banche italiane, 6,2 miliardi nel 2022, con un incremento di 4,7 miliardi pari al 75,94%- sono un regalo che la Bce ha fatto, con la politica nazionale, tutta e non solo il governo attuale, che ha gradito, con qualche critica ma solo per forma.
Le imposte, quelle ordinarie, sui profitti delle due maggiori banche italiane sono passate da 795 milioni di euro dell’esercizio 2021 a 2,4 miliardi del 2023, con un aumento del 208,05%. La politica è soddisfatta. Se poi riesce a raggranellare qualche altro miliardo dalla tassazione degli extra-profitti per realizzare la riduzione della tassazione, è ancora meglio.
Se la diminuzione della pressione fiscale viene realizzata per chi possiede redditi (e magari elevati) con l’aumento degli interessi sui mutui o a carico delle imprese che poi le trasferiscono sui costi dei beni e servizi che le persone e famiglie acquistano, con l’aumento delle tariffe dei servizi, che producono dividendi e imposte più alte e che sono sempre e solo un onere per gli utenti, con la riduzione del servizio sanitario nazionale a favore dei privati, che garantiscono dividendi e maggiore imposte, con l’aumento delle accise e magari anche dell’Iva, non si tratta di una strategia politica di sostegno della funzione sociale che compete allo Stato ma di una manovra per favorire qualcuno e, questo, sta lentamente cancellando l’articolo 1 della nostra Costituzione.
Ci sono politici che non hanno vergogna a dichiarare che “i poveri mangiano meglio dei ricchi” o che “un intervento sulle accise favorisce indipendentemente il ricco e il povero”. Affermazioni che non meritano un commento ma che spiegano molte cose.
Se, inoltre, un esponente di spicco del governo chiede che vengano escluse dall’imposta straordinaria le “banche di prossimità”, ma, poi, si scopre che a luglio Banca Mediolanum e Money hanno presentato un accordo per “offrire servizi bancari di prossimità” -e tutti sappiamo che quella banca ha una prossimità con il partito di quell’esponente di governo- allora si capiscono tante cose.
Remo Valsecchi, già commercialista, è autore del nostro dossier “Carissimo gas”
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