Finanza / Opinioni
Le Borse non sono “cadute” solo per l’instabilità creata da Trump. Chi ci ha guadagnato

Nel primo trimestre di quest’anno le prime cinque banche statunitensi -JPMorgan Chase, Goldman Sachs, Morgan Stanley, Bank of America e Citigroup- hanno registrato profitti per qualcosa come 37 miliardi di dollari. L’origine di questi risultati strabilianti smonta la falsa idea di una finanza “democratica”, e conferma l’azione di un’élite che si autoregola in base alla ricerca dei propri profitti. L’analisi di Alessandro Volpi
Nei primi tre mesi del 2025 i cinque principali istituti statunitensi, JPMorgan Chase, Goldman Sachs, Morgan Stanley, Bank of America e Citigroup, hanno registrato profitti per 37 miliardi di dollari. È interessante capire da dove siano derivati questi risultati strabilianti. In larga misura dipendono dalle commissioni che hanno fatto pagare ai propri clienti per “gestire” i loro portafogli durante le violente oscillazioni scatenate dalle dichiarazioni di Donald Trump e dalla sua guerra con i grandi fondi BlackRock, Vanguard e State Street (Big Three).
In altre parole, le grandi banche, e dunque i loro azionisti principali -proprio BlackRock, Vanguard e State Street-, hanno lucrato anche sull’incertezza determinata dalle mosse dei loro stessi grandi azionisti, a danno della clientela più “popolare”. La sequenza è molto chiara: Trump crea instabilità, le Big Three la alimentano con lo scontro, i listini traballano e centinaia di migliaia di clienti delle banche devono essere “seguiti” con maggior attenzione e quindi devono pagare commissioni più elevate alle loro banche.
Si tratta di un’ulteriore dimostrazione che il capitalismo vive di costante parassitismo. Ma c’è ancora di più. Una fonte informata come Bloomberg ha reso noto che tra gennaio e marzo ci sono stati vari movimenti sulle Borse americane molto “particolari”. Nello specifico, i vertici di alcune grandi società hanno deciso di vendere nel momento in cui il valore del titolo di tali società era molto alto, “scommettendo” sulla successiva, repentina caduta del suo prezzo, e contribuendo così a generarla, sull’onda delle dichiarazioni di Trump sui dazi.
Jamie Dimon, il presidente di JPMorgan, Mark Zuckerberg di Meta, Safra Catz di Oracle, Nikesh Arora di Palo Alto Networks hanno realizzato in poche ore guadagni per quasi quattro miliardi di dollari dalle vendite di titoli delle proprie società. È probabile, peraltro, che questo fenomeno sia solo la punta dell’iceberg, costituito da vari amministratori delegati che hanno deciso di vendere, naturalmente senza che gli altri detentori delle azioni di quelle società fossero avvertiti e con buona pace dei milioni di risparmiatori che hanno quei titoli nei loro fondi.
Queste vicende costituiscono, in estrema sintesi, un facile esempio per dimostrare tre cose. La prima: la finanza non è affatto democratica -al di là delle tante affermazioni retoriche in tal senso- ma è il prodotto dell’azione di un’élite che si autoregola in base alla ricerca dei propri utili. La seconda: le dichiarazioni di Trump sono soltanto una parte della caduta dei listini, scatenata invece anche da queste manovre “occulte”. La terza: gli algoritmi ad alta frequenza hanno la capacità di incidere sulle Borse ma c’è sempre qualcosa che li muove quegli algoritmi.
Nella stessa direzione si muove poi un altro elemento. I continui annunci di dazi da parte di Trump destabilizzano i listini, provocando cadute repentine dei prezzi dei titoli che possono essere ricomprati a saldo e poi magari rivenduti in conseguenza del successivo annuncio presidenziale di segno diverso: un ottovolante concepito dal presidente non solo per generare “nuovi miliardari” ma anche per mettere in difficoltà le Big Three e i grandi fondi, a cui sottrarre ogni certezza.
In questo senso, ancora una volta, anche i dazi sono prima di tutto una strategia finanziaria nel mondo della finanziarizzazione totale. In questa logica Trump sembra voler spingere una massa crescente di capitali fuori dalle ormai inaffidabili Borse regolamentate per farli approdare allo sterminato mondo della “finanza ombra”, dagli hedge fund al private equity, dove non esistono, di fatto, regole e dove, di nuovo, le Big Three non hanno un monopolio, per quanto Larry Fink, amministratore delegato di BlackRock, abbia indicato nell’ultima lettera ai suoi investitori una possibile predilezione verso tale ambito.
La guerra finanziaria in corso, dunque, sembra destinata a sottrarre migliaia di miliardi di dollari a qualsiasi regola, rendendoli praticamente invisibili e non tracciabili, tanto da mescolare con grande facilità ricchezza lecita e illecita.
Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento. Il suo ultimo libro è “Nelle mani dei fondi” (Altreconomia, 2024)
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