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Ambiente / Intervista

Stefano Fenoglio. L’amicizia da ritrovare con i fiumi

Stefano Fenoglio coofondatore del centro studi sui fiumi Alpstream © Stefano Fenoglio

Un libro esplora il complesso legame tra l’uomo e i corsi d’acqua nella storia e racconta come abbiamo smesso di frequentarli e di capirli. Un mancato rapporto che influenza anche le nostre politiche ambientali

Tratto da Altreconomia 263 — Ottobre 2023

Stefano Fenoglio si è innamorato dei fiumi da bambino, seguendo il nonno accanito pescatore. “Tra i miei primi ricordi d’infanzia c’è il guado di un torrente”, è la frase con cui apre il suo libro, “Uomini e fiumi” (Rizzoli, 2023). Il sottotitolo racconta il perché di questa opera: è la storia di un’amicizia finita male, anche se non è così per tutti. Fenoglio, infatti, si è laureato in Scienze naturali, ha conseguito un dottorato in Scienze ambientali e oggi insegna all’Università di Torino coltivando la sua passione anche come cofondatore del Centro per lo studio dei fiumi alpini, Alpstream.

Fenoglio, il suo libro spiega che tra i motivi per cui “qualcosa è andato storto”, nel nostro rapporto con i fiumi, c’è il fatto che abbiamo smesso di frequentarli.
SF Per generazioni abbiamo avuto un contatto diretto con il territorio e specialmente con quegli elementi che hanno sempre avuto un’importanza prioritaria, come i fiumi. Da piccolo, sono nato nel 1970, ero attirato dalle acque in movimento perché una serie di attività umane giravano lì intorno. Poi c’è un aspetto che definirei innato, e che Melville descrive nel suo libro più celebre, “Moby Dick”, quando scrive che qualunque sentiero trovi in campagna, nove volte su dieci ti porta lungo un fiume.

Dietro a questo c’è del magico: i corsi d’acqua sono le vene del mondo, l’unico elemento del paesaggio in cui c’è qualcosa che scorre in ogni momento. Se dal punto di vista pratico, in ambito agricolo o per i trasporti, per i viaggi e le scoperte, i fiumi ci hanno aiutato in mille modi, è dal punto di vista immateriale che il loro fascino forma l’essere umano, che è una specie fluviale. Negli ultimi decenni, però, continuando ad aggiungere filtri alla nostra visione della natura, abbiamo perso ogni legame con il territorio intorno a noi, e quindi anche con i fiumi. Oggi, di fronte ai cambiamenti climatici, non ci preoccupiamo di ciò che non conosciamo: faccio divulgazione nelle scuole primarie e secondarie ma molti bambini non sanno nemmeno come si chiama il fiume che attraversa il loro paese.

Com’è possibile tornare ad alimentare questa relazione, quali argomenti potremmo usare?
SF Fin da piccolo la mia passione è stata in particolare per la vita dentro i fiumi: cercavo i gamberi, i girini, come facevano tanti bambini. Questa cosa mi è rimasta dentro e quando si è trattato di scegliere il percorso di studi ho frequentato un dottorato sulle acque interne, entrando poi in università dopo anni di precariato. Una cosa chiara è che non ci si stufa mai lavorando sui fiumi, che sono tra gli ambienti più dinamici che conosciamo: ogni corso d’acqua è diverso dall’altro, ma anche da sé stesso. Spostandoci verso monte o verso valle ci troviamo in ambienti completamente differenti, sia per gli organismi presenti sia per le opportunità o gli usi che ne fa l’uomo, a mille metri d’altezza o in pianura. Ogni fiume, inoltre, cambia moltissimo nelle diverse stagioni e negli anni.

Tra le distorsioni raccontate nel libro c’è quella urbanistica, descritta a partire da ciò che lei ha visto durante l’alluvione del Tanaro, che nel novembre del 1994 ha causato quasi 70 morti nelle province di Alessandria, Asti, Cuneo e Torino.
SF Non frequentando più i fiumi, nemmeno li capiamo. Ero negli Alpini, dopo la laurea, e siamo stati chiamati per l’emergenza. Mi resi conto che mentre i paesi vecchi non erano stati toccati dalla piena, le nuove costruzioni, spesso realizzate in alveo, erano sott’acqua. Erano gli immobili del secondo Dopoguerra, quando iniziò a dominare una logica di profitto. Purtroppo i costi per tutelare queste scelte sono enormi: decidere di costruire negli alvei può essere vantaggioso nel breve periodo ma nel lungo espone a danni. Lo diceva già Leonardo Da Vinci: “Se qualcuno mi dicesse che è più facile domare le acque del fuoco, io penserei che ha carestia di bono giudizio”. Le acque non le fermi. La loro forza è inesorabile, continua.

L’alluvione del Tanaro del 1994 a Santo Stefano Belbo (Cuneo). L’esondazione del fiume ha causato quasi 70 morti nelle province di Alessandria, Asti, Cuneo e Torino © Dino Fracchia, BuenaVista Photo

La forza di una massa d’acqua che si sposta è, forse, uno degli aspetti più faticosi da percepire, avendo perso il contatto con i fiumi.
SF La capacità di erodere e di trasportare di un corso d’acqua è qualcosa di incredibile. I fiumi hanno letteralmente modellato la nostra storia, questa è la base del libro: hanno modificato il territorio, scavato le valli scolpite nel tempo, formato le pianure. In Africa esistono Paesi che prendono il nome dal fiume che li attraversa, come ad esempio il Congo. Spesso questa importanza viene dimenticata.

Manca consapevolezza anche sugli effetti dei cambiamenti climatici sulla disponibilità idrica dei corsi d’acqua.
SF Quando si parla di agricoltura in sofferenza e si va avanti con deroghe prelevando acqua dai fiumi, non pensiamo che noi vi immettiamo anche i reflui dei depuratori: sostanze che il fiume aiuta a “digerire”. In Piemonte, lo scorso anno, il rigagnolo che scorreva in alcuni corpi idrici era quello che usciva dai depuratori. Noi di Alpstream vi abbiamo trovato tracce diffuse di salmonella e ceppi dannosi di escherichia coli (un batterio intestinale) perché non c’era acqua a diluire i reflui. Quando mandi in secca tratti di fiume, l’impatto ambientale non è da poco, ma noi non lo consideriamo più un organismo vivente. Un altro esempio riguarda il dibattito sul nucleare. Se pensiamo alle centrali lungo il Po a Trino (VC) e Caorso (PC), sappiamo che non erano state messe lì a caso: questi impianti hanno bisogno di moltissima acqua per il raffreddamento. Con le attuali portate del fiume questo non potrebbe accadere, anche perché l’acqua serve a irrigare la Pianura padana. Un dibattito su un ritorno al nucleare non dovrebbe prescindere da queste analisi. Sono questi i messaggi che dovrebbero essere veicolati dai media, che invece affrontano tutto come un’emergenza. Una situazione che però va avanti da vent’anni, dato che la prima grande avvisaglia è stata durante l’estate del 2003.

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