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Si aggrava la crisi idrica a Gaza. Le testimonianze dalla Striscia
A causa del blocco imposto da Israele dall’inizio dei bombardamenti, il consumo d’acqua pro-capite della popolazione nell’enclave è crollato da 87 litri al giorno a meno di tre. Gli impianti di trattamento delle acque reflue sono stati messi fuori uso, con impatti enormi sulla falda costiera, l’unica risorsa potabile naturale disponibile
A oltre due mesi dall’attacco di Hamas e dall’inizio dell’assedio a Gaza da parte dell’esercito israeliano, quasi il 90% della popolazione della Striscia è stata costretta a fuggire dal Nord, prima nell’area a Sud del Wadi Gaza e poi nei distretti di Khan Younis e Rafah. Un esodo di quasi due milioni di profughi, costretti a vivere in condizioni sempre più drammatiche senza cibo, medicinali e elettricità.
Al 12 dicembre sono almeno 18.205 i morti, più di 50mila i feriti. In soli due mesi, denuncia l’Oms, il sistema sanitario è passato da 36 ospedali funzionanti a 11 parzialmente operativi, mettendo in ginocchio tutto l’apparato medico della Striscia di Gaza. Nelle ultime settimane i raid aerei e l’avanzata via terra hanno cominciato a colpire duramente anche il centro di Khan Younis e Rafah, gli stessi luoghi che le forze di difesa israeliane (Idf) avevano indicato come sicuri per i civili in fuga, ormai alla disperata ricerca di un rifugio e di beni di prima necessità.
Una tragedia umanitaria aggravata dalla pressoché totale mancanza di fonti d’acqua potabile: lungo la strada tra Rafah e Al Mawasi, nel distretto di Khan Younis, dalle prime luci dell’alba migliaia di persone si muovono in auto, motorino, carretti trainati da asini o a piedi per raggiungere le pompe di benzina e i punti di approvvigionamento idrico ancora attivi sulla costa: “Rischiamo la vita, ma non abbiamo scelta”, racconta ad Altreconomia Karam, giovane cittadino palestinese scappato da Gaza City due settimane fa. Lo scorso 28 novembre è rimasto ferito con il fratello in un distributore vicino a Rafah, dopo essere stato schiacciato dalla folla che si ammassava per poter recuperare il carburante: “La gente è esasperata. Non si guarda in faccia a nessuno, perché si pensa a sopravvivere -continua-. L’acqua potabile è quasi introvabile, e anche il cibo scarseggia. Oggi sono andato al mercato ma c’è poco e niente. Ormai non possiamo fare altro che aspettare che arrivino gli aiuti umanitari”.
A causa del blocco totale imposto da Israele dall’inizio degli attacchi nella Striscia di Gaza, il consumo d’acqua pro-capite della popolazione palestinese nell’enclave è crollato da 87 litri al giorno a meno di tre, ben al di sotto della soglia minima per la sopravvivenza di 50-100 litri stabilita dall’Onu con la risoluzione 64/292, adottata nel 2010. Una condizione che minaccia seriamente la salute della popolazione civile, in particolare della fetta più vulnerabile, come bambini, pazienti negli ospedali e sfollati nei centri di accoglienza: “La diaspora di quasi due milioni di abitanti dal Nord alle aree a Sud del Wadi Gaza, in particolare a Khan Younis e Rafah, ha generato un concentramento ingestibile, e una conseguente mancanza di risorse idriche nel territorio”, osserva Chiara Saccardi, responsabile di Azione contro la Fame Medio-Oriente. “L’elevata densità abitativa e il consumo di acqua salmastra sono un rischio, perché possono potenzialmente causare un disastro sanitario nei centri preposti all’accoglienza: il timore maggiore è che possano scoppiare epidemie letali che potrebbero andare anche oltre Gaza”.
Gli impianti di trattamento delle acque reflue in tutta la Striscia sono stati messi fuori uso, causando un disastro ambientale con un impatto enorme sulla falda costiera di Gaza, l’unica risorsa potabile naturale disponibile. Secondo i dati forniti dall’osservatorio Fanack Water, organizzazione internazionale che monitora l’acqua in Medio Oriente e Nord Africa, oltre il 97% delle risorse pompate dalla falda non soddisfa gli standard dell’Oms. Una situazione allarmante, causata dal mancato trattamento e rilascio nell’ambiente del circa 80% delle acque reflue di tutto il territorio. “Il danneggiamento e la distruzione delle otto infrastrutture di trattamento dei liquami ha portato a una crisi senza precedenti: dai 16 punti di emissione a Gaza vengono scaricati a mare centinaia di migliaia di metri cubi d’acqua contaminata al giorno”, continua Saccardi. “I danni agli impianti non possono essere gestiti senza cemento, tubi o altri materiali che vengono definiti ‘a doppio uso’ dal governo israeliano, già proibiti prima della guerra. Di questo passo -aggiunge- le persone cominceranno a morire anche per malattie legate a queste criticità”.
Un quadro emergenziale e senza precedenti, che si aggrava per la mancanza di elettricità e carburante in tutto l’enclave. I tre impianti principali di dissalazione dell’acqua nella Striscia, localizzati nei distretti del Nord e Deir Al-Balah, sono attualmente fuori uso a causa dei ripetuti raid dell’aviazione israeliana. “Nel 2022, i desalinatori hanno fornito circa 13 milioni di metri cubi d’acqua, coprendo il 7% del fabbisogno domestico, mentre un altro 10% proveniva da risorse acquistate esternamente. La restante parte era coperta da acqua pulita mista a quella salata o direttamente pompata dalla falda acquifera”, racconta a Altreconomia Shaddad Attili, ex ministro delle Risorse idriche e presidente della Palestinian water authority. “Dal 7 ottobre a Gaza sono disponibili solamente 262mila metri cubi provenienti dalla falda, ormai gravemente inquinata, e altri 30mila metri cubi da impianti localizzati a Sud. Il problema reale sta nel riuscire a pomparli e distribuirli: con l’unica centrale elettrica fuori uso da quasi due mesi e il sistema di tubature compromesso, parliamo davvero di una missione impossibile”.
Per incentivare lo spostamento degli abitanti dei distretti di Gaza City e North of Gaza, durante la tregua e per alcune ore dei giorni di assedio, Israele ha annunciato la parziale ripresa della fornitura idrica nel Sud della Striscia, utilizzando l’acqua come strumento per costringere gli sfollati a spostarsi. La distribuzione delle risorse, tuttavia, non è stata minimamente sufficiente a soddisfare la richiesta, a causa dell’impossibilità di pompare l’acqua attraverso le reti e, di conseguenza, di raggiungere i serbatoi e le vasche di stoccaggio.
Come unica altra opzione ai profughi non rimane che attendere gli aiuti umanitari provenienti dai camion entrati dal valico di Rafah. “Secondo i dati stimati dalla Palestinian water authority, dal 21 ottobre a Gaza sono entrati solamente 600 metri cubi di acqua potabile in bottiglia. Un numero ridicolo, persino più irrisorio delle cifre già preoccupanti prima dell’inizio della guerra”, continua Attili. “Un precedente del genere non si era verificato neanche nel 2014 con l’operazione ‘Margine di protezione’, che aveva messo a dura prova le infrastrutture idriche”.
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