Altre Economie
Sfida all’intolleranza
Un gruppo d’acquisto per coloro che soffrono di allergie alimentari, a Piacenza. Mentre la ricerca trova risposte alla celiachia tornando al passato, ai grani antichi
Lo chiameremo Gain, con un gioco di parole tra l’inglese “guadagnare” e l’acronimo di gruppo d’acquisto per intolleranti alimentari? Ancora non ha un nome preciso, ma di certo c’è che a guadagnarci -in salute, qualità dei prodotti e anche dal punto di vista economico- sarà chi soffre di allergie e intolleranze alimentari, che avrà accesso per la prima volta a una filiera alternativa alla grande distribuzione. Un’esperienza che è appena stata avviata a Piacenza con il progetto “Prima (e oltre) le allergie: la realtà delle intolleranze alimentari” per iniziativa di diverse associazioni locali che si occupano di intolleranze (tra cui la celiachia, che ha un’incidenza dell’1% sulla popolazione): la sezione piacentina dell’Associazione italiana celiachia (aicemiliaromagna.it), l’associazione Oltre l’autismo (oltrelautismo.it), la cooperativa di commercio equo e solidale Pecora nera (lapecoranera.org), l’Associazione autonoma diabetici piacentini (diabeticipiacentini.org) e il gruppo d’acquisto solidale Gass’osa. L’idea del progetto nasce dall’esperienza diretta di chi si trova a vivere la condizione di intollerante e allergico senza averne ancora scoperte le cause e senza poter avere accesso ad alcun sostegno da parte del Servizio sanitario nazionale (garantito, per legge, ai celiaci).
“Il progetto incontra un doppio problema che riguarda le vite di chi soffre di allergie e intolleranze alimentari -spiega Elisabetta Gazzola, coordinatrice del progetto-: da un lato l’aspetto psicologico e l’impatto di queste patologie sulla vita sociale delle persone che ne sono affette; dall’altro quello economico. Per tutelare la propria salute, infatti, i consumatori devono fare i conti con un mercato controllato dalla grande distribuzione e dalle multinazionali, mentre manca un’alternativa in termini d’acquisto”. Il progetto, sostenuto con 18.843 euro dal Fondo speciale per il volontariato del Centro di servizio per il volontariato di Piacenza (svep.piacenza.it), prevede delle azioni precise da implementare nell’arco di un anno, fino al dicembre 2013: il primo passaggio -attualmente in corso- è la creazione di una rete territoriale delle realtà coinvolte nel tema delle intolleranze e allergie alimentari. “La speranza è che in quest’anno di lavoro a Piacenza si creino le fondamenta per portare avanti il progetto in altri territori nei prossimi anni -afferma Elisabetta Gazzola-. Per farlo, sarà importante consolidare una rete che si basi non solo sul volontariato, ma che sia capace di coinvolgere anche il mondo del terzo settore e le aziende”. A partire da quelle locali: la Rebecchi fratelli Valtrebbia -leader in Italia nel settore delle decorazioni dolciarie, fondata a Piacenza nel 1955 (rebecchi.com)-, i consorzi agroalimentari come quello dei salumi tipici piacentini e la rete dei produttori biologici locali (consorziobiopiace.it).
Oltre alla realizzazione di un percorso di formazione dedicato ai temi delle intolleranze alimentari e costruito sull’incontro con studenti, chef e associazioni come Slow Food Piacenza, e di una piattaforma virtuale che metta in rete e renda visibili le diverse esperienze raccontate attraverso delle storie di vita, il progetto prevede la creazione di un gruppo d’acquisto solidale dedicato ai prodotti per celiaci, allergici e intolleranti. La creazione di una filiera diretta tra consumatori e produttori locali e biologici di questi prodotti sarà fatta in collaborazione con le famiglie dell’associazione Gass’osa e con il distretto di economia solidale piacentino “Des tacum” (www.destacum.it, vedi Ae 138).
Il percorso in atto a Piacenza riguarda da vicino la celiachia, che è la più frequente intolleranza alimentare al mondo: una malattia che non conosce crisi, nel numero dei pazienti (13mila nuove diagnosi nel 2012 in Italia) e nell’economia che muove (il mercato “senza glutine” vale ormai quasi 240 milioni di euro). Si tratta di una patologia che colpisce l’intestino a seguito di un’alterazione del sistema immunitario scatenata dall’ingestione del glutine, un complesso proteico presente in alcuni cereali (tra cui frumento, segale, orzo e farro) che è tossico per il celiaco e ne danneggia la mucosa intestinale. A oggi, l’unica terapia per la celiachia è l’eliminazione dalla dieta dei cereali contenenti glutine.
Bastano pochi numeri per capire che si tratta di un fenomeno sempre più diffuso: sono 135.800 i celiaci diagnosticati in Italia (solo un quarto di quelli stimati, 600mila soggetti); oltre 115mila le diagnosi accertate in età adulta. E il numero di nuovi casi registrati in Italia cresce del 19% ogni anno.
A causa dell’estrema variabilità dei sintomi con cui si manifesta la celiachia, sono necessari in media sei anni per ottenere una diagnosi sicura. I diritti dei pazienti celiaci sono tutelati dalla legge 123 del luglio 2005, “Norme per la protezione dei soggetti malati di celiachia”. È la legge quadro sulla celiachia, con la quale il Governo italiano stabilisce “l’erogazione gratuita di prodotti dietoterapeutici senza glutine” ai celiaci, introdotta per la prima volta nel 1982. I tetti di spesa -definiti nel 2001 dall’allora ministro della Salute, Umberto Veronesi, confermati nel 2006 e applicati da ogni Regione sulla base di apposite leggi regionali- sono suddivisi per fasce d’età e sesso e ammontano a 140 euro al mese per gli uomini e 99 euro per le donne. Per i bambini, invece, è prevista l’erogazione di un buono del valore di 45 euro fino a un anno di età, di 62 euro fino a 3 anni e mezzo, e di 94 euro fino a 10 anni. Questi buoni sono spendibili per l’acquisto di prodotti senza glutine iscritti nel “Registro nazionale dei prodotti destinati ad un’alimentazione particolare”, 2.600 referenze facilmente identificabili dal logo ministeriale.
Il mercato del senza glutine muove un’economia che vale 237 milioni di euro: di questi, il 67,5% (161 milioni di euro) è coperto dagli alimenti erogati dal Sistema sanitario nazionale. Il resto del mercato comprende “la spesa con la quale i celiaci integrano il contributo pubblico e quella delle persone che, pur non avendo una diagnosi definitiva di malattia, decidono di escludere il glutine dalle loro diete”, spiega Caterina Pilo, direttrice generale dell’Associazione italiana celiachia (Aic, www.celiachia.it).
L’appeal che i prodotti privi di glutine esercitano tra i cittadini si può tradurre in una percentuale: +6,4%, la crescita del fatturato del mercato nel 2012. Fino ai primi anni 2000 l’erogazione gratuita dei prodotti per celiaci veniva fatta solo nelle farmacie, ma da quando è stata introdotta la diversificazione del mercato (fino ad oggi in 12 Regioni) i buoni sono spendibili anche nella grande distribuzione o in negozi al dettaglio convenzionati. Tuttavia, ancora oggi il 74,3% (176 milioni di euro) del mercato del senza glutine viene dal fatturato delle vendite in farmacia, che pure ha registrato nel 2012 un calo dell’1,8%. Nella grande distribuzione, infatti, i prezzi sono inferiori fino al 40% rispetto alle farmacie: secondo una ricerca condotta dall’Aic nel gennaio 2011, per l’acquisto dello stesso “paniere senza glutine” una famiglia spende in media 39,53 euro al supermercato e 60,25 euro in farmacia. Anche per questo, la quota di mercato dei prodotti senza glutine nella Gdo -che oggi vale il 25,7% (61 milioni di euro) del mercato complessivo- sta conoscendo una rapida crescita e ha registrato nel 2012 un +22% rispetto all’anno precedente. Tutto quello che non si trova sugli scaffali della grande distribuzione lo si può cercare nei negozi al dettaglio diffusi sul territorio nazionale: una costellazione di presidi specializzati (quelli che accettano i buoni del Servizio sanitario nazionale devono essere autorizzati dall’Unità locale socio sanitaria di riferimento) che offre un maggior numero di referenze e prezzi inferiori fino al 15% rispetto alle farmacie, ma non sempre concorrenziali rispetto ai supermercati.
Se oggi l’eliminazione del glutine dalla dieta è l’unica terapia conosciuta per la tutela dei pazienti affetti da celiachia, il mondo della ricerca è al lavoro per studiare nuove tecniche produttive, valorizzando la lievitazione naturale e il recupero di antichi cereali. “I processi più rapidi e diffusi nella produzione su scala industriale sono la lievitazione chimica, che avviene sviluppando anidride carbonica, e l’uso del lievito di birra, che attiva una fermentazione alcolica” spiega Marco Gobbetti, del dipartimento di Scienze del suolo, della pianta e degli alimenti dell’Università di Bari. Un’altra possibilità è l’uso del lievito naturale, la pasta madre, per una lievitazione che richiede tempi lunghi, ma ha molti vantaggi dal punto di vista sensoriale, nutrizionale e della conservazione del prodotto. Continua Gobbetti: “Nella fermentazione con il lievito naturale alcuni polimeri, tra cui alcune proteine responsabili della celiachia, sono in parte degradati” e il prodotto finale risulta più digeribile. Per degradare tutto il glutine e raggiungere la soglia di tollerabilità per i celiaci, i ricercatori dell’Università di Bari sono intervenuti sul processo di fermentazione microbica: hanno aumentato a 24 ore il tempo della lievitazione e selezionato i batteri lattici coinvolti nella fermentazione in base alla loro capacità di degradazione. “Abbiamo recuperato l’antica tecnica della lievitazione naturale per adattarla a un’esigenza particolare sfruttando dei microrganismi presenti in natura”, spiega Gobbetti. Gli esperimenti condotti su 20 soggetti in due ospedali a Roma e Napoli hanno avuto un riscontro positivo: fino ad ora il 100% dei pazienti celiaci ha tollerato i prodotti a base di farina di grano il cui glutine era stato completamente degradato. “I bassi costi e la possibilità per tutti di mangiare prodotti a base di grano sono i principali vantaggi che deriverebbero dall’applicazione di questa biotecnologia”, conclude Gobbetti. L’azienda milanese Giuliani (giulianipharma.com) ne ha già acquistato il brevetto e i prodotti potrebbero essere messi in commercio dal 2014. Intanto, all’Università di Firenze un gruppo di lavoro è al lavoro per recuperare antiche varietà di frumento. Lo coordina Stefano Benedettelli, del dipartimento di Scienze delle produzioni vegetali del suolo e dell’ambiente agroforestale, secondo il quale “i soggetti predisposti alla celiachia, ma che ancora non l’hanno manifestata, possono prevenire l’insorgenza della malattia introducendo nella dieta antiche varietà di cereali, che presentano un glutine meno tenace e più digeribile rispetto alle varietà moderne”. La trasformazione delle vecchie varietà di frumento per la produzione di un pane lievitato naturalmente, con l’uso della pasta madre, inoltre, riduce i frammenti proteici tossici e apre nuove prospettive nella prevenzione dell’insorgenza della malattia celiaca. —