Diritti / Inchiesta
Sei mesi dopo Cutro l’Italia continua a classificare parte dei soccorsi come eventi di polizia
Nel primo semestre del 2023 il Viminale ha “etichettato” quasi un quarto dei naufraghi sbarcati come soggetti intercettati in operazioni di law enforcement. Ma tra arrivi autonomi, eventi Sar e contributo delle Ong -costrette a raggiungere porti lontani- i conti in ogni caso non tornano. Mancano all’appello almeno 7.500 persone
A sei mesi dalla strage di Cutro le autorità italiane continuano a classificare come “intercettati” nel corso di operazioni di polizia (law enforcement) quasi un quarto di coloro che in realtà sono naufraghi alla deriva nel Mediterraneo, fornendo inoltre numeri contraddittori in merito alle persone effettivamente sbarcate e al ruolo svolto delle Organizzazioni non governative. È quanto emerge dai dati trasmessi dal ministero dell’Interno e dalla Guardia costiera ad Altreconomia e relativi al primo semestre 2023.
Andiamo con ordine. Dal primo gennaio al 30 giugno di quest’anno il Viminale ha registrato lo sbarco sulle coste italiane di poco più di 65.500 persone (nello stesso periodo nel 2022 furono 27.600, ed è da notare che al 25 agosto 2023 hanno superato quota 105mila). Il primo porto di sbarco è stato Lampedusa, che da solo ha assorbito quasi 40mila arrivi, seguito a lunga distanza da Augusta (4mila), Catania (circa 3.300), Roccella Jonica (3mila), Pozzallo (2.250) e Messina (2.120).
Per le autorità non sarebbero però stati tutti sbarchi frutto della ricerca e del soccorso in mare di naufraghi (search and rescue, Sar). La Direzione centrale dell’immigrazione e della polizia delle frontiere ha infatti classificato come arrivi legati a operazioni di law enforcement i casi di 14.639 persone, poco meno di un quarto del totale, per 371 “eventi”.
Poi ci sono coloro che sono sì sbarcati ma in maniera “autonoma”, che sempre secondo il ministero di Matteo Piantedosi sarebbero stati 4.131.
Ed è qui che emerge l’inghippo. Se si sommano gli “sbarchi fantasma” a coloro che sono stati più o meno strumentalmente classificati come “intercettati” nel corso di operazioni di polizia, la cifra che si ottiene è di poco inferiore a 19mila persone. Come sono state classificate tutte le altre, cioè oltre 46.700 tra uomini, donne e bambini, e che fine hanno fatto?
A rispondere a questa domanda dovrebbe essere la Guardia costiera, che tramite il proprio Centro dei soccorsi di Roma (Itmrcc) coordina (o dovrebbe coordinare) le operazioni Sar. Il punto però è che quest’ultima ha fatto sapere di aver coordinato eventi di ricerca e soccorso nel Mediterraneo nel primo semestre 2023 nell’interesse complessivamente di 34.225 persone, nell’ambito di 562 eventi (con la distribuzione per assetti che è riportata di seguito).
Mancano perciò all’appello oltre 12mila persone (46.700 meno 34.225). Come sono sbarcate in Italia? Nell’ambito di quali “eventi”? E come sono state “etichettate”? E qui, a spargere altro fumo negli occhi, c’è il fatto che la Guardia costiera, a partire dal 2019, non include più tra le persone soccorse sotto il proprio coordinamento quelle salvate dalle navi delle Ong, se non una minima parte (quest’anno siamo al di sotto del 3%).
Possibile che le navi delle Ong -ostacolate, costrette di frequente a concludere le operazioni di soccorso in porti lontani (si veda il grafico), fermate ai porti con pretesti- abbiano salvato da sole tutte le 12mila persone “mancanti”? No: prospetti riepilogativi delle missioni umanitarie alla mano, nel periodo di tempo considerato, gli assetti Ong hanno tirato fuori dall’acqua oltre 4.500 persone (nonostante tutto). Ma non 12mila.
Dunque le autorità italiane non sanno, o non vogliono far sapere all’opinione pubblica, come vengono classificate effettivamente le persone sbarcate e gli “eventi” connessi. Con il paradossale effetto che a furia di voler confondere le “etichette” e oscurare le procedure si son fatte perdere le “coordinate” di almeno 7.500 persone. Che invece sono sbarcate.
“Questa mancanza di trasparenza e questa restituzione contraddittoria e confusa della realtà non è nuova e conferma quanto denunciamo da tempo -spiega ad Altreconomia Juan Matías Gil, capo missione della nave Geo Barents di Medici Senza Frontiere, che il 24 agosto ha salvato 168 persone partite dalla Libia e che viaggiavano su due gommoni sovraffollati ed è stata spedita a Brindisi-. È una prassi che si accompagna al voler delegare i respingimenti alla Libia e alla Tunisia. Non ci stancheremo di chiedere ancora una volta all’Italia e agli Stati europei di adempiere al loro obbligo di creare canali sicuri e legali, di coordinare e condurre i salvataggi in mare e di istituire un meccanismo di ricerca e soccorso adeguato e soprattutto proattivo”.
La direzione invece è contraria. Tanto che negli ultimi giorni di agosto le autorità italiane hanno sequestrato in serie la nave veloce Aurora di Sea-Watch, la Open Arms e la Sea Eye 4. “Dicevano di voler bloccare le partenze -ha laconicamente scritto su Twitter Sea-Watch- e invece sanno bloccare solo le navi di soccorso, rendendo ancora più pericoloso il viaggio di chi fugge”.
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