Interni / Intervista
Ritornare per rigenerare ma senza cedere alla nostalgia
Nel suo ultimo saggio, “La restanza”, l’antropologo calabrese Vito Teti riflette sulle migrazioni, sull’importanza di prendersi cura di luoghi degradati e abbandonati. Senza alimentare le narrazioni idilliache dei luoghi remoti e isolati
“Poiché non v’è luogo al restare”. Un’epigrafe dalle “Elegie duinesi” del poeta boemo Rainer Maria Rilke apre il nuovo libro dell’antropologo calabrese Vito Teti. “La restanza” è appena uscito per la collana “Vele” (Einaudi) per cui il professore -già ordinario di Antropologia culturale presso l’Università della Calabria- aveva pubblicato “Fine pasto. Il cibo che verrà” (2015) e “Maledetto Sud” (2013). Un’occasione per fare il punto con Altreconomia su questo suo pensiero dalle profonde radici.
Professor Teti, nei suoi lavori parla di partire e restare, di restare ancorati ed essere spaesati, di proteggere e rigenerare. Tuttavia, si ha sempre l’impressione che questi non siano dei termini oppositivi.
VT Infatti non si tratta di dicotomie. Nelle mie riflessioni, partire e restare non sono mai stati due termini separati, al contrario: sono intimamente legati e nascono da una storia comune. L’inizio di un progetto di migrazione rappresenta la fine di un mondo -quello che rimane-, che esplode in molti frammenti. Ma tra chi parte e chi resta continuano a esistere rapporti e legami, affettivi o in altri casi pratici, a volte conflittuali. La vita di chi parte influenza quella di chi resta, e viceversa: il mondo delle origini rimane in chi parte e questa memoria viene riorganizzata a livello rituale e simbolico. Permane sempre il desiderio di non staccarsi dall’origine e l’illusione di ricreare in qualche modo il vecchio mondo nel nuovo accompagna chi parte.
I temi di cui lei scrive sono strettamente legati alla sua biografia.
VT Sì, quel che racconto ha a che fare con la storia della mia famiglia. Fin da piccolo è stata una storia di attesa, quella nei confronti di mio padre, partito da San Nicola da Crissa (in provincia di Vibo Valentia) per andare a Toronto, in Canada. Allora ho iniziato a osservare l’attesa di mia madre e delle altre donne: le partenze erano vissute come un lutto, anche nelle modalità di espressione femminile, con pianti ad alta voce. Inizialmente si pensa e si spera che la partenza sia un evento transitorio: ti aspetti che i compagni tornino; poi scopri che questa riconciliazione non avverrà mai. Le case non riaprono, lentamente si svuotano, fino a generare un vuoto diffuso nel paese. Una tendenza confermata oggi anche dai dati demografici, numeri che ci parlano chiaramente di spopolamenti e abbandoni. Ma ci sono delle tendenze diverse, che possiamo osservare anche come conseguenza della pandemia: non sono solo esempi di ritorni, ma anche di una nuova consapevolezza tra i più giovani della necessità di restare. Il mito dell’altrove è crollato, ce lo confermano i dati nazionali: secondo un’indagine del 2020 sulle aree interne fatta da “Riabitare l’Italia” (riabitarelitalia.net), su un campione di 1.008 persone tra i 18 e i 39 anni, il 67% degli intervistati era orientato a rimanere nel Comune in cui vive.
“Le operazioni di ripopolamento sono faticose e dolorose, e spesso avvengono in un tessuto sociale degradato: per questo servono cura e pazienza caratteristiche che mancano a tante iniziative”
La scelta di restare, o di tornare, è sempre più connessa al desiderio di prendersi cura e rigenerare i luoghi che abitiamo.
VT Questa scelta, più o meno consapevole, innesca inevitabilmente nuove domande sui modi del restare. Perché farlo? Per osservare il mondo che finisce o per cambiare qualcosa? Da qui la necessità di prendersi cura dei luoghi e delle persone, avviare un processo di rigenerazione dei paesaggi che hanno subito il degrado demografico ed economico, ma anche sociale e antropologico. D’altra parte, ci sono dei rischi nell’usare questa parola: ritorno. Ci stiamo abituando ad ascoltare delle formule magiche come “la casa a un euro” e a fare un uso ideologico del termine paese per indicare i borghi, rievocando un mondo di purezza e bellezza, anziché spazi di complessità. Le operazioni di ripopolamento sono faticose e dolorose, e spesso avvengono in un tessuto sociale degradato: per questo servono cura e pazienza, caratteristiche che mancano in tante iniziative di tipo turistico, ma che sono invece fondative in altri progetti culturali validi, che puntano sull’accoglienza, la musica e il cibo.
Penso, ad esempio, allo Sponz Fest di Calitri (AV), promosso da Vinicio Capossela, o al Palio del grano di Caselle in Pittari (in provincia di Salerno), un’iniziativa culturale situata in un processo di rigenerazione territoriale, a partire dalla valorizzazione di una pratica agricola locale. Faccio un altro esempio. La piccola comunità del mio paese nel 1951 contava quattromila abitanti, oggi siamo 800. Non è realistico immaginare di tornare ai vecchi numeri, ma possiamo capire come abitare oggi un posto che è cambiato anche dal punto di vista della presenza demografica. Per invertire questa tendenza e dare un segnale saranno fondamentali anche degli investimenti mirati dei fondi del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), a favore delle economie locali e a sostegno dei piccoli nuclei familiari. Invitare al ritorno senza aver creato prima delle strutture per l’accoglienza (materiale, ma anche socio-culturale) dei nuovi abitanti è un grande rischio che, al contrario, potrebbe allontanare le persone per sempre. Serve un progetto politico complessivo, capace di mettere nelle condizioni di tornare chi desidera farlo.
Da questo punto di vista la restanza sembra essere una proposta politica capace di ricucire Nord e Sud.
VT Esattamente, Nord e Sud sono più vicini di quanto non pensiamo, hanno problemi simili. Ma parliamo anche di centri e periferie, di aree interne. È importante non legare il tema del restare solo al Meridione o alle piccole dimensioni. Si tratta infatti di un problema più complessivo dell’abitare, che riguarda anche il Settentrione e le città. Dobbiamo immaginare nuovi rapporti tra città e villaggi, questa è una grande questione italiana: il problema dei paesi, infatti, è il problema del Paese Italia.
Sono sempre più numerose le realtà che mettono al centro dell’attenzione le aree interne e le forme dell’abitare. È in corso un dialogo tra queste diverse esperienze?
VT Sono molte: pensiamo alla Società dei territorialisti, Dislivelli, Riabitare l’Italia o Dialoghi Mediterranei, la Rete del Ritorno, Civiltà Appennino, tra le altre. E sono in corso scambi importanti che, forse, potrebbero essere organizzati meglio. Ad esempio, trovando un luogo di incontro dove vedersi periodicamente, al di là dei frequenti convegni che già si realizzano su questi temi, ma spesso rivolti a ricercatori e accademici. L’abbandono, la rigenerazione, i nuovi montanari e nuovi contadini, le neocomunità: sono tutte questioni legate che dovremmo riuscire ad affrontare con maggiore consapevolezza e con una visione più ampia e complessiva. Questo sguardo ampio ci darebbe anche la forza di interloquire con la politica, stimolarla.
“Accanto a un lavoro tenace per far conoscere la storia dei luoghi, dobbiamo essere consapevoli che un giovane non può avere nostalgia di una casa vuota che lui ha sempre conosciuto come tale”
A San Nicola, dove lei vive, nell’estate 2021 è nato il “Centro ricerche iniziative spopolamento spostamenti ambiente” (Crissa). Un esempio concreto di azione locale su questi temi.
VT Il nostro è uno dei centri dell’Unla (Unione nazionale per la lotta contro l’analfabetismo), si richiama a un’originale esperienza degli anni Cinquanta e si occupa di spopolamento e ambiente attraverso pratiche culturali. Nell’ultimo anno abbiamo organizzato incontri e presentazioni di libri: un percorso utile per capire che i più giovani sono molto interessati ai luoghi e alle forme della cultura connesse ai cammini. Per l’agosto 2022 stiamo preparando una sorta di festival con mostre, libri e un itinerario di turismo interno dedicato agli stessi abitanti, partendo da una zona rimasta vuota. Un tentativo per restituire il paese ai paesani: per portare avanti iniziative come queste nel lungo periodo, serve prima di tutto la loro consapevolezza. Stiamo anche immaginando un progetto di piccoli musei diffusi che raccontino i paesi, il paesaggio e l’ambiente. Se sono scomparsi i circoli, i bar, il cinema e le botteghe, possiamo forse ripartire da piccoli musei della restanza, spazi di comunità: un’occasione di restituzione della memoria agli abitanti, per costruire futuro. Il problema, però, sarà avviare progetti concreti che creino nuove economie, rendano vivibili i luoghi interni, arrestino le fughe e il declino. I luoghi per lungo tempo abbandonati hanno bisogno di servizi, scuole, ospedali, centri sociali e culturali, di messa in sicurezza dei beni archeologici e artistici, del territorio e del paesaggio, di cura e tutela dell’ambiente: è questa la vera ricchezza anche di piccoli paesi, ricchi di storia.
Quando si lavora su questi temi in paesaggi profondamente trasformati rispetto al passato, come non restare intrappolati nella nostalgia? È un tema su cui hai lavorato molto: la nostalgia come sentimento dell’altro e dell’altrove, del presente, del futuro.
VT C’è una nostalgia retroattiva, che guarda all’indietro, che è molto pericolosa: c’è il rischio che ti catturi. Quel vuoto che inevitabilmente ti porta a ricordare il pieno di una volta, quelle case da cui sono partite le persone che aspettavi tornassero rischiano di imprigionarti nel passato, in un paese che sembra non avere futuro. Invece, possiamo osservare con occhi diversi cosa c’è oggi e farci i conti: legarci alla vita che vive, rigeneratrice, desiderosa di futuro, non a quella che è rimasta solo come memoria dentro di noi. Dico che la nostalgia non ha età: accanto a un lavoro tenace per far conoscere la storia dei luoghi, dobbiamo essere consapevoli che un giovane non può avere nostalgia di una casa vuota che lui ha sempre conosciuto come tale. Dobbiamo metterci in gioco con fantasia, per immaginare il futuro vivo di queste case vuote senza restare intrappolati nel loro ricordo.
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