Diritti / Approfondimento
Rems, ecco perché aumentare i posti non è la “soluzione”. Gli investimenti necessari sono altri
Il governo vuole aumentare i posti nelle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, dove vengono ricoverati gli autori di reato (o presunti tali) ritenuti incapaci di intendere e di volere. La scelta si baserebbe sui numeri elevati delle persone in lista d’attesa. La realtà è ben diversa. Un bilancio a dieci anni dalla nascita delle strutture che hanno permesso il superamento degli Ospedali psichiatrici giudiziari
“C’è il rischio di un ritorno alla logica manicomiale”. Riccardo De Vito, giudice al Tribunale di Nuoro, non usa mezzi termini per descrivere la volontà del governo di costruire nuove Rems, le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza nate dieci anni fa per superare gli Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg).
Secondo i dati del Garante nazionale per i diritti dei detenuti a fine 2023, l’ultimo dato disponibile, erano 675 le persone dichiarate incapaci di intendere e volere al momento della commissione del reato in lista d’attesa. “La volontà di aprire nuove strutture nasce da una lettura non corretta dei dati. Sono molte meno le persone che non hanno il posto che gli spetta”, sottolinea lo psichiatra Giuseppe Nese, coordinatore Rems in Campania.
Le liste d’attesa sono necessarie perché la legge 81 del 2014 ha stabilito un sistema a “numero chiuso” per le Rems. Questo significa che non vi potranno mai essere più persone ricoverate rispetto al numero di posti disponibili che attualmente sono prossimi ai 771 previsti dai programmi regionali approvati dal ministero della Salute.
“La legge prevede che il ricovero avvenga solo laddove il servizio sanitario territoriale non ha alternative possibili di presa in carico del paziente -spiega Antonio Esposito, ricercatore indipendente con numerose pubblicazioni sul tema della detenzione e della salute mentale-. Questa è la vera ‘rivoluzione’ di quella legge: la privazione della libertà è l’extrema ratio”.
L’aver imposto un “tetto massimo” di presenze è necessario, quindi, anche in un’ottica di deterrenza per i giudici costretti a valutare tutti i percorsi alternativi possibili prima di disporre il ricovero. “Questo all’inizio era un aspetto molto criticato ma è un baluardo da difendere -osserva Michele Miravalle, professore associato dell’Università di Torino- perché il ritorno agli Ospedali psichiatrici giudiziari, se decade il numero chiuso, è a un passo”.
Da diversi anni nell’analisi relativa allo stato di salute delle Rems si ipotizza un aumento di questi posti considerati insufficienti rispetto al fabbisogno e alimentato da alcuni drammatici casi di cronaca: l’ultimo l’omicidio il 30 novembre a Caprarola (Viterbo) di un uomo di 68 anni da parte di un 31enne che era in lista d’attesa per essere inserito in Rems. A inizio estate anche il Consiglio d’Europa ha espresso preoccupazione per la “mancata estensione” delle strutture chiedendo al governo di intervenire.
L’ultimo dato nazionale disponibile, reso noto dal ministero della Salute e dalle Regioni riportato nella Sentenza 22 del 2022 della Corte costituzionale, stimava in circa 670 le persone giudicate incapaci di intendere e volere al momento della commissione del reato che erano in attesa di fare ingresso in queste strutture.
“Per il ministero della Giustizia invece erano addirittura 750 e senza alcuna indicazione sull’effettiva necessità di un ricovero in Rems: c’è un cortocircuito mediatico su questo aspetto che parte proprio da una grande confusione sui numeri”, spiega lo psichiatra Giuseppe Nese secondo cui questi dati sono fuorvianti. “C’è una forbice molto ampia tra chi ha una misura formalmente consona per entrare Rems e chi poi effettivamente deve farlo”. In altri termini, non sempre chi è inserito in lista d’attesa deve e può entrare in struttura, per diverse ragioni: magari un soggetto è stato ritenuto incapace di intendere e di volere per un reato e per un altro che ha commesso invece no e quindi è legittimamente detenuto in carcere, oppure la misura inizialmente disposta dal giudice è stata successivamente modificata in libertà vigilata o anche semplicemente revocata perché la persona non aveva commesso il reato per cui era imputata.
“Per questo motivo la lista va qualificata -riprende Nese- secondo criteri chiari, contenuti in una regolamentazione approvata dalla conferenza unificata il 30 novembre 2022, anche valutando le necessità di assistenza, esattamente come quando al Pronto soccorso chi ha un raffreddore passa per ultimo e chi ha un infarto per primo”.
Le Regioni dovrebbero compilare un apposito elenco che tiene conto proprio di tutto ciò che va oltre la “semplice” esistenza di un titolo giuridico per entrare in Rems. Però, a oggi, solo Campania, Emilia-Romagna e Piemonte hanno attivato adeguatamente questo metodo di registrazione. “Se prendo in esame la lista d’attesa di queste tre Regioni al 20 maggio 2024 -sottolinea Nese- su un totale di 160 persone formalmente in lista, il 26% non potrebbe in concreto entrare in una Rems anche se fosse disponibile il posto, il 42% è già assistito adeguatamente all’esterno e solamente le restanti 52 persone avrebbero bisogno di un inserimento. C’è una bella differenza tra 160 e 52”.
Il problema quindi non sembra essere quello dei posti. “Ci si concentra troppo spesso sulla seconda parte della previsione normativa che istituisce le Rems -riprende Esposito- quando in realtà il legislatore sottolinea la centralità dell’intervento dei servizi territoriali. Il punto è questo: c’è una psichiatria che fa dei passi indietro e non investe su quell’aspetto, in parte per mancanza di fondi ma anche per un arretramento culturale. Sempre di più il ‘chiudere’ le persone viene visto come soluzione positiva”. E questo cambio di passo dei servizi territoriali si riscontra anche rispetto alla postura dei magistrati di sorveglianza. “Bisognerebbe ampliare i protocolli di collaborazione con i Centri di salute mentale che in alcune parti d’Italia sono già attivi -spiega il giudice De Vito-. Perché questo permette di prendere decisioni più adeguate per il percorso della persona riuscendo magari ad evitare il ricovero in Rems”.
A dieci anni dalla loro apertura le 30 strutture aperte in Italia, che dipendono interamente dalle Aziende sanitarie territoriali, funzionano a macchia di leopardo: alcune assumono un approccio antistituzionale, altre più di contenimento. “Il punto centrale è l’approccio che si ha alla residenzialità psichiatrica -osserva Miravalle- perché dipende da come viene implementata, può aprirsi al territorio oppure no. Semplificando, dipende dalla domanda da cui si parte: dove lo metto oppure che cosa faccio. Se la richiesta è ‘datemi delle mura’ è chiaro che ci si avvicina all’Opg”. Sotto questo aspetto, per esempio, secondo Miravalle l’apertura a inizio giugno 2022 di una Rems a Santa Maria Le Cassorane di Calice al Cornoviglio, in provincia di La Spezia, dislocata geograficamente in un luogo molto isolato, è un elemento negativo.
Inoltre, sempre di più secondo Antigone all’interno delle Rems vi sono anche persone che non dovrebbero stare in quelle strutture. “C’è una quota crescente di persone ristrette che non hanno una grave patologia psichiatrica ma che essenzialmente hanno un disturbo antisociale di personalità e sono scomode da tenere in carcere -sottolinea Miravalle-. Il rischio è di trasformare quelle strutture in una sorta di discarica sociale di persone che hanno vulnerabilità tra lo psichiatrico e il sociale”.
Così l’aumento di posti potrebbe aumentare ancora di più tale utilizzo “scorretto” di queste strutture esacerbando i problemi attuali. Anche perché, spesso, quegli stessi luoghi diventano difficili da gestire per pazienti che hanno problematiche molto diverse. “C’è un problema di costi -conclude Nese- per venti persone si spendono circa tre milioni di euro l’anno e per i 200 posti in più di cui spesso si parla almeno 60/70 milioni l’anno che possono essere investiti più efficacemente sui servizi territoriali. Sono più dei soldi che lo Stato ha investito per potenziare i Dipartimenti di salute mentale. Bisognerebbe investire su quello, per garantire una presa in carico più adeguata ai pazienti. Aumentare la capienza è solo un diversivo, erroneo ma soprattutto inefficace per risolvere i veri problemi”.
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