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Salute mentale: che cosa non va nella residenzialità psichiatrica

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Le strutture attive in Italia sono circa duemila e in alcune Regioni si sono trasformate in veri e propri “parcheggi” che non favoriscono il reinserimento sociale delle persone. Un meccanismo di cui beneficiano soggetti privati

Tratto da Altreconomia 268 — Marzo 2024

Italia quasi il 50% della spesa per la salute mentale è destinato alla residenzialità psichiatrica: 1,5 miliardi di euro per gestire 29mila posti in circa duemila strutture. Luoghi in cui, soprattutto in alcune Regioni, i pazienti rischiano di trascorrere un tempo lunghissimo che in Toscana, ad esempio, raggiunge i 2.681 giorni. Quasi otto anni. 

“Una sorta di parcheggio che rischia di durare una vita -spiega Fabrizio Starace, presidente della Società italiana di epidemiologia psichiatrica (Siep)- che nasce anche dall’impossibilità per le aziende sanitarie di gestirle direttamente, con la conseguente necessità di una delega al Terzo settore e al privato. Senza la possibilità di un’adeguata verifica dei loro obiettivi, per i noti problemi di carenza di personale”. 

Un quadro preoccupante che ha spinto anche il Consiglio superiore di sanità a istituire, nell’ottobre 2020, uno specifico gruppo di lavoro di cui Starace è stato coordinatore, che a giugno 2023 ha pubblicato un report sullo stato dell’arte della residenzialità psichiatrica in Italia. 

Un tema attualissimo: entro il 2027, infatti, andranno spesi gli oltre 405 milioni di euro del Programma nazionale equità e salute allocati dal ministero della Salute per migliorare alcuni servizi -compresi quelli per la salute mentale- nelle Regioni in cui sono più carenti: Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sardegna e Sicilia. “Queste risorse solitamente possono essere utilizzate per interventi strutturali, non per il personale medico che attualmente è la principale criticità -spiega Angelo Barbato, psichiatra e ricercatore dell’Istituto Mario Negri di Milano-. Rischiamo di avere delle ‘belle scatole’ vuote di opportunità per i pazienti. E possono facilmente essere riempite dai privati con un’offerta la cui qualità è di difficile valutazione”.

La spesa destinata alla gestione dei 29mila posti nelle strutture psichiatriche residenziali è di 1,5 miliardi di euro. Quasi il 50% delle spesa complessiva per la salute mentale

In Italia le strutture residenziali psichiatriche nascono alla fine degli anni Novanta con la definitiva chiusura dei manicomi sancita dalla legge 180/1978 (Legge Basaglia). L’obiettivo era garantire alle persone con disturbo mentale un’adeguata assistenza di medio e lungo periodo in un contesto abitativo affiancato a un percorso individualizzato che portasse a progetti di autonomia. 

“In alcune Regioni sono state create strutture e condizioni di vita che rispondevano a questi criteri di riabilitazione e reinserimento nella società -riprende Starace-. In altre si è presentato l’imprenditore di turno che si è offerto di accogliere le persone a un determinato costo”. In diversi territori i Dipartimenti di salute mentale (Dsm), che dovrebbero monitorare l’andamento dei progetti, si sono trovati a essere quasi degli spettatori di quanto avviene nelle residenze. 

“Il paziente non può tornare a casa per più di 30 giorni, se supera questo limite perde il posto. Come è possibile favorire il reinserimento?”  – Fiorentino Trojano

Ricostruire il “peso” dei privati in questo settore è però estremamente complicato perché i dati sono incongruenti. “Abbiamo chiesto questa informazione al ministero della Salute, ma non abbiamo avuto risposta -commenta Barbato che ha fatto parte del gruppo di lavoro istituito presso il Consiglio superiore di sanità- purtroppo non possiamo quantificare quante siano le strutture non pubbliche. In Lombardia la stima è del 30-35%”. 

Ma per Barbato la mancanza di trasparenza non riguarda solo questo aspetto e mette in discussione anche i dati sulla permanenza e quelli sulle strutture censite dal ministero. “Si parla di permanenza media, ma non c’è chiarezza sulle funzioni che queste strutture dovrebbero svolgere: ospitano una popolazione molto diversificata e quindi, inevitabilmente, potrebbero avere anche tempi di accoglienza più o meno lunghi. Purtroppo molte informazioni mancano”.

La quota (stimata) di strutture psichiatriche residenziali gestite da privati in Lombardia è del 30%. Nemmeno il ministero della Salute è stato in grado di fornire un dato preciso su quante siano le strutture che non sono gestite dal pubblico

Quello che si sa è che in alcune Regioni la situazione è drammatica. In Sicilia ci sono due tipologie di strutture: le comunità alloggio, che dipendono dai Comuni, e quelle terapeutiche che fanno capo alle aziende sanitarie. Sull’isola i Dipartimenti di salute mentale hanno a disposizione circa tremila posti, gestiti nell’80% dei casi da enti del Terzo settore o privati tramite accreditamento con il servizio pubblico. Con un paradosso. 

“Il modello di convenzione sottoscritto a livello regionale per regolare questi rapporti -spiega Fiorentino Trojano, psichiatra e membro del tavolo permanente istituito presso la Regione Sicilia che si occupa di salute mentale- favorisce l’allungamento dei tempi di permanenza nelle strutture: il paziente non può tornare a casa per più di 30 giorni, se supera questo limite perde il posto. E il privato il finanziamento. Con questo obbligo, come è possibile favorire il reinserimento?”. 

A questa problematica si aggiunge poi la presenza nelle strutture di pazienti che hanno commesso reati. La mancanza di posti nelle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) -nate dopo la chiusura nel 2015 degli Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg)- favorisce l’inserimento di chi deve scontare la pena all’interno delle comunità terapeutiche. “In Sicilia sono più del 50% dei ricoverati -sottolinea Trojano-. Una quota che rende impossibile un lavoro di cura adeguato: la tipologia di interventi con chi è volontariamente in struttura e chi è ‘obbligato’ da un giudice è inevitabilmente molto diversa. Una situazione esplosiva”. Che si è deteriorata di anno in anno anche per mancanza di programmazione. 

La legge 180 approvata nel 1978 che ha portato alla chiusura dei manicomi in Italia. È stata ispirata dall’azione dello psichiatra Franco Basaglia di cui l’11 marzo cade il centenario della nascita

A raccontarlo è uno psichiatra -che preferisce restare anonimo- che descrive la situazione nella provincia siciliana in cui lavora. Agli inizi degli anni Duemila è stata aperta la prima comunità terapeutica gestita da una società in convenzione con l’Asl. Oggi le strutture sono quattro. “Di per sé la gestione privata non è il male -racconta-. È chiaro però che sempre più si registra una sovrapposizione, quasi una coincidenza, tra il concetto di cura psichiatrica e residenzialità che è stata sviluppata soprattutto perché era redditizia per alcuni”.

Su una provincia di 300mila persone, i posti sono venti per ognuna delle quattro comunità e il costo annuo che supera i 6,5 milioni di euro. “In questo quadro -riprende lo psichiatra- gli operatori della salute mentale fanno sempre più fatica a favorire percorsi di cura alternativi (come borse lavoro, residenzialità a piccoli moduli, gruppi appartamento) e monitorare i percorsi delle persone che sempre di più rispondono alla domanda ‘dove mettiamo i pazienti’ piuttosto che ‘cosa facciamo con loro’. Una sconfitta”. 

Quello dei “contenuti con cui riempire i contenitori” è un problema evidenziato anche nella relazione conclusiva del gruppo di lavoro “Residenzialità psichiatrica” istituito presso il Consiglio superiore di sanità. Sotto almeno tre diverse dimensioni: il tempo di permanenza nelle strutture, i bassissimi tassi di inserimento lavorativo a conclusione dei percorsi, l’isolamento dei pazienti e la loro dipendenza dal personale. “La maggior parte delle scelte vengono fatte sulla testa delle persone accolte, non insieme a loro: dagli indumenti al menù, dal non avere le chiavi di casa a subire un controllo costante sulla sfera sessuale -spiega Paola Zanus Michiei, direttrice del centro Salute mentale del distretto Alto Isontino a Gorizia-. Di fatto il lavoro di cura fallisce a priori perché non permette alla persona di ‘riprendere in mano’ la sua vita”.

“Solo nelle situazioni più complesse prevediamo un’assistenza intensiva con la presenza di operatori anche per ventiquattro ore al giorno”  – Paola Zanus Michiei

Zanus Michiei lavora nella “culla” della rivoluzione basagliana e non è un caso che il Friuli-Venezia Giulia sia una delle Regioni più avanzate in termini di percorsi di cura. “Una residenzialità più flessibile che, per ora, resiste -spiega-. Solo nelle situazioni più complesse prevediamo un’assistenza intensiva con la presenza di operatori anche per ventiquattro ore al giorno, ma comunque per il tempo strettamente necessario”.

Secondo i dati del ministero della Salute, nel 2022 i pazienti presenti in struttura residenziale in tutta Italia con diagnosi di schizofrenia e altre psicosi sono stati il 50,3 % del totale e la maggioranza (85,3%) sono stati inseriti in centri con un’elevata assistenza. “Il problema non è il fatto che in Italia ci siano 15mila persone che necessitano di un’accoglienza più intensiva -riprende Barbato – a patto, però, che sia garantita qualità al tempo speso nella struttura. Ma oggi non abbiamo dati che possano aiutarci a capire quanto questi disservizi siano diffusi e gravi”. Per Zanus Michiei il problema è soprattutto di visione e programmazione. “La salute mentale torna a essere psichiatria quando fotografa una diagnosi senza inventare un film sulla prognosi: la gravità non è scritta nei cieli, se un gruppo territoriale lavora bene anche i disturbi gravi migliorano. E di certo i contenitori e i parcheggi non servono”. 

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