Altre Economie
Prospettive in rete per l’equo
Le strategia di importatori e botteghe di fronte alla crisi economica globale. Dodici voci, da Treviso a Potenza —
Da oltre 30 anni il commercio equo e solidale è, innanzitutto, un racconto corale. Un movimento fatto dalle voci dei tanti che hanno speso la loro passione e la loro competenza per un’idea capace al tempo stesso di fare politica, cultura e prassi.
Un “piccolo potere da prendere sul serio”, come diceva Alex Langer, capace di condizionare il sistema economico in tutto il pianeta. E, per questo, di migliorare la vita di migliaia di persone nel Sud del mondo, e non solo.
Il fair trade italiano fa scuola da anni, per la sua specificità e la sua efficacia. Possiamo cercare di misurarlo: ad esempio le 90 organizzazioni socie dell’Assemblea generale del commercio equo italiano, (Agices) fatturano quasi 90 milioni di euro per oltre mille lavoratori, 30mila soci e 5mila volontari. Ma questo non è sufficiente a descrivere un universo tanto complesso e ricco di sfumature.
Un universo che ha dovuto anch’esso affrontare una delle crisi economiche più gravi del secolo. Per questo motivo abbiamo ascoltato 12 voci per altrettanti realtà, dalla piccola bottega fino al grande importatore. Un gruppo rappresentativo ma necessariamente non esaustivo -ci si perdonerà se non abbiamo potuto ascoltare tutti- al quale abbiamo posto due domande: quale è lo stato di salute del commercio equo italiano, e quali sono le strade che dovrà intraprendere. Ed ecco quel che ne è uscito.
Alessandro Franceschini, Agices. Da settembre 2012 abbiamo assistito a una contrazione delle vendite piuttosto importante, che ha avuto il culmine nel periodo natalizio, da sempre strategico per le botteghe del commercio equo. Abbiamo sperato nel carattere “anticiclico” del fair trade, ma in realtà non è emerso. Siamo stati colpiti come tutto il settore del commercio: il consumatore non ha recepito il carattere innovativo della nostra proposta, derubricandoci tra i consumi “superflui”. Lo dico supportato dal dato della netta migrazione dei fatturati dall’artigianato ai prodotti alimentari.
Il 2013 sarà un anno difficile, con molte botteghe (anche se esistono eccezioni) imbrigliate in un conto economico rigido, nelle spese di affitto e di personale. Mi aspetto manovre dolorose. Sarà indispensabile mettere il più possibile in comune le buone pratiche commerciali e gestionali -abbiamo promosso un’iniziativa, “il libro delle ispirazioni”- ma sarà anche importante un ragionamento più identitario, trovare linguaggi nuovi, guardare ai produttori del Sud del mondo con un occhio anche a quelli del Nord. Abbiamo bisogno di un messaggio più semplice, e di essere identificabili come un movimento unitario, pur tutelando la pluralità che ci ha sempre caratterizzato.
Cinzia Florean, L’altra metà (Pordenone). Abbiamo 23 anni di storia alle spalle, e 200 soci che ci supportano, ma anche per noi il 2012 è stato difficile. È come se il commercio equo subisse l’onda lunga della crisi con effetti posticipati rispetto al resto. La gente ha speso meno, ma tuttavia conservando l’interesse e una certa fedeltà alla nostra proposta. I nostri clienti sono sempre interessati e informati. Per il futuro auspico un movimento più aperto a nuovi modelli e proposte: dobbiamo in un certo senso “scardinare” la tradizione, evolverci. Magari aprendoci ai gusti dei consumatori, pur senza esserne succubi. E, soprattutto, facendo passare il messaggio culturale, di formazione e informazione, attraverso i prodotti.
È il momento di riflettere su come far convergere le forze, in termini di aggregazione tra piccole realtà. Aggregarsi e rimanere con la testa aperta alle novità, anche nel nostro mestiere di “bottegai”. Perché non dobbiamo dimenticare che la bottega è l’espressione innanzitutto dei produttori: abbiamo la responsabilità di far passare l’idea che dietro a ogni prodotto ci sono le persone.
Luca Gioelli, LiberoMondo (Bra, Cuneo). Nell’insieme dei fattori dobbiamo anche tenere conto che il costo della vita dei produttori è in aumento, anche se non il loro benessere (come nel caso che ben conosciamo del Vietnam). Quindi i loro prezzi aumentano, e tu fai ancora più fatica. Nel frattempo c’è stata la svalutazione dell’euro. Un mix di componenti che ha portato a una forte contrazione dei margini, per tutto il sistema. Come importatori, cerchiamo di dare sempre più strumenti alle botteghe per accompagnare meglio il prodotto. Gli italiani ormai si relazionano al fair trade come un soggetto commerciale adulto, e quindi pretendono di più.
L’apertura è la strada su cui proseguire: ad esempio la filiera corta con produttori locali, o la cooperazione sociale. Insieme a questo, investire sulle reti, non solo in ottica funzionale, ma di prospettiva. La crisi spersonalizza: parli di numeri quando dietro ci sono le persone. Se ti metti in rete impari invece a riconoscere le affinità, e questo aiuta non poco. Dall’altra parte, le scelte dettate dalla paura sono a corto raggio, e rischiano di inficiare il cammino che hai intrapreso sinora. Soprattutto se si allenta sulle regole: allora inevitabilmente il più forte ha la meglio.
Teresa Pecchini, Ravinala (Reggio Emilia). Un po’ controcorrente, non abbiamo avuto un calo del fatturato. Abbiamo fatto, anzi, la scelta coraggiosa di chiudere due negozi per aprire una in centro città: 220 metri quadri, nella piazza del Duomo e del municipio. È una bottega “classica”, alla quale dedichiamo particolare cura. In particolare, stando molto attenti a quello che accade in città. Ecco, la nostra idea è che la bottega sia legata ai momenti significativi della vita cittadina. Ciò significa legarsi al territorio, ma non solo al mondo dell’economia solidale -di cui facciamo parte da ormai 25 anni (coi nostri 110 soci, di cui 8 lavoratori)-, bensì a tutte le realtà con le quali è possibile collaborare. Il risultato è che metà dei clienti della nuova bottega prima non ci conoscevano. E aumentare il numero di clienti è fondamentale in un momento in cui quelli “fidelizzati” hanno meno soldi da spendere. Detto questo, se il fatturato è aumentato non vuol dire che il bilancio sia in attivo. Noi siamo anche importatori (da Madagascar e Indonesia): in un momento in cui le botteghe ordinano piccole quantità con molta frequenza, i margini degli importatori si riducono notevolmente. Senza considerare il problema finanziario: il container partito all’inizio di febbraio dal Madagascar, che abbiamo pagato al 100% in gennaio e arriverà a marzo, ci verrà ripagato -se va bene- a novembre.
Un elemento che ha contribuito a mantenere in equilibrio il nostro bilancio è stata la scelta di condividere con altre centrali di importazione alcuni prodotti (è il progetto Equolink). È una strada necessaria per il commercio equo: puntare su collaborazione e solidarietà tra tutti gli attori. Vuol dire poter investire di più sui prodotti, senza farsi concorrenza inutilmente.
David Cambioli, altraQualità (Ferrara). La crisi ha messo in luce la difficile sostenibilità del commercio equo. Ma, più importante, il fatto che il movimento non abbia investito abbastanza sulla propria identità. Non possiamo fare un ragionamento sull’identità basato sulla contingenza. È mancata la capacità di un ragionamento comune, e ha prevalso il “si salvi chi può”. Un percorso tra gli importatori è stato intrapreso, ma rischiamo che i frutti arrivino troppo tardi.
In aggiunta, rimane il tema della scarsa capitalizzazione: anche se si capiscono le direzioni verso cui andare, se ci si specializza su prodotti o mercati, poi mancano i fondi.
Forse è meglio allora lavorare su strategie comuni, come nel caso di Equolink, esperimento nel quale gli importatori hanno cercato di ottimizzare le proprie competenze a favore di tutti. Altrimenti corriamo il rischio di sprecare una valanga di energie, che invece potrebbero essere spese meglio a beneficio del sistema. Ritorni al passato non servono: diamo un senso, un significato a quello che abbiamo costruito sinora, in una prospettiva da decidere insieme. Altrimenti ognuno prosegue in ordine sparso, quando è necessario al contrario risostanziare e rivedere gli obiettivi comuni.
Cristiano Calvi, La Bottega Solidale (Genova). Oggi un consumatore ha molte possibilità di sperimentare scelte “etiche”, non solo le nostre botteghe. Ciò indica che il lavoro di tutti questi anni (per noi oltre 20) ha portato i suoi frutti, e quella rimane la direzione. È pur vero che la crisi ha amplificato le criticità tipiche del nostro settore. Sappiamo ormai che è difficile gestire un negozio “sano”, tra affitti e dipendenti, se si fatturano meno di 300mila euro. Di fronte a botteghe chi chiudono, dobbiamo pensare a come risolvere il problema che è strutturale, e non straordinario.
L’evoluzione cui è chiamato il fair trade italiano però deve essere consapevole, e non strumentale a certi obiettivi. La mia idea è di immaginare un sistema efficiente ma inclusivo: non voglio chiudere botteghe, ma dobbiamo avere la sincerità di dire che sotto un certo fatturato non si può continuare alle stesse condizioni. Far finta che non sia così sarebbe scorretto.
A botteghe grandi e “sostenibili” siano affiancate realtà più piccole, in rete tra loro, sostenute -e non dimenticate- dal sistema nel suo complesso. Perché uno dei nostri compiti è anche presidiare il mercato da finti “commerci equi”.
Guido Leoni, Altromercato (Verona). La cosa preoccupante è che seppur perdano tutti i canali di vendita, le botteghe socie del nostro consorzio mostrano una situazione di maggior precarietà complessiva dei conti economici. Questo genera prudenza negli acquisti, forse eccessiva. Non aiuta poi il mix di vendita, che spostatosi sui prodotti alimentari, riduce i margini. Da due anni e mezzo abbiamo cominciato una revisione del modello delle botteghe del mondo, lavorando sui “formati”. I dati che emergono dai test sono interessanti. Ad esempio si vende sempre molto commercio equo, ma sale la percentuale di prodotti bio di produttori locali.
Rispetto al consorzio, ci stiamo interrogando sui meccanismi organizzativi: non è detto che quelli che abbiamo siano ormai ancora i più idonei. Questo vale anche nel rapporto con le botteghe, nostre socie. Un rapporto tra un “colosso” e tante realtà piccole. Alcune possono affrontare un’attività commerciale matura, per altre stiamo immaginando aggregazioni e attività comuni. Arriviamo in ritardo invece sulla collaborazione tra importatori, cui oggi siamo obbligati. Spero che in poco tempo alcuni accordi siano sanciti: ripartiamo da qui, da un discorso di integrazione degli assortimenti, da un modello di divisione di competenze e produttori, e da scelte commerciali chiare, come quella di stabilire che alcuni prodotti di altri importatori rientreranno nella reciprocità delle nostre botteghe, ovvero potranno far parte del loro assortimento.
Massimo Mogiatti, Mondo Solidale (Marche). Il movimento ha forse perso spinta politica e di proposta. Ci sentiamo un po’ vecchi, e non siamo stati capaci di adeguarci ai cambiamenti che ci sono stati anche grazie alle nostre proposte. Tuttavia, pur in questo momento di crisi, noi abbiamo deciso di fondare una nuova cooperativa -Chadilly- che si occupa esclusivamente dell’importazione di caffè, da Guatemala e Uganda. Mondo Solidale ha trasferito a questa nuova realtà il suo storico progetto del caffè “El Bosque”. Un modo per mantenere un rapporto coi produttori.
Anche perché chi entra in bottega ha sempre meno informazioni sulle storie che stanno dietro agli scaffali. Eppure il commercio equo avrebbe molto da dire, e dovrebbe tornare ad avere un ruolo importante, ad esempio in tema di lavoro. È quello che cerchiamo di fare con i nostri gruppi e le nostre 15 botteghe sparse in tutte le Marche.
Marta Di Cesare, RAM, Rapallo (GE). La nostra è un’esperienza di importazione molto piccola, per questo abbiamo una visione particolare sul movimento. La lettura che diamo è quella di una situazione difficile, a causa della crisi generalizzata, ma anche per problemi interni al movimento. Uno fra tutti, la mancanza di accordi tra i vari importatori, che finora hanno attuato ciascuno le proprie politiche. Non c’è una soluzione facile a portata di mano. Da parte nostra, stiamo puntando alla vendita diretta dei prodotti, anche rivolgendoci alle aziende, e allo sviluppo di progetti innovativi.Tutto il movimento dovrà lavorare seriamente su come il commercio equo viene comunicato. Noi pensiamo che si tratti di cooperare con l’economia informale. È un concetto non così facile da far passare, ma la realtà è che è commercio equo anche lavorare con persone non inquadrate in gruppi o organizzazioni. Ci abbiamo provato con una serie di pubblicazioni, ad esempio sulle condizioni di lavoro degli artigiani in Nepal, o con un volume sulla vita degli artigiani della ceramica in Vietnam.
Giovanni Paganuzzi, Chico Mendes (Milano). Osserviamo un quadro meno drammatico rispetto a quello che ci sarebbe potuto aspettare guardando al settore della piccola distribuzione ordinaria. Certamente il fatturato si abbassa, però resistiamo: in periodo di crisi rimane uno zoccolo duro di soci e simpatizzanti che tiene insieme il nostro sistema. Sotto traccia alla fine non sfugge che l’origine della crisi sta proprio nel sistema economico che il commercio equo critica. Tra l’altro, il numero di scontrini è lo stesso: diminuiscono gli importi. Aiuta la natura -cooperativistica- delle nostre organizzazioni: laddove l’impresa ordinaria taglia o chiude, nelle cooperative i lavoratori intervengono a beneficio dell’azienda.
Tra le cose più urgenti da fare c’è da lavorare sui prodotti e sulla loro distribuzione. La piccola distribuzione in Italia -è un dato di fatto- è difficilmente sostenibile. Una delle sfide sarà individuare modalità diverse di distribuzione, ripensando il modo in cui fino ad oggi ci siamo proposti come negozi generalisti. Insieme a questo, puntare sulla formazione (in controtendenza rispetto all’economia “normale”) e rinsaldare il rapporto con la base sociale, che oggi non è vivace come dovrebbe.
Emilio Novati, EquoMercato (Cantù). Abbiamo deciso di affrontare la crisi investendo, con le poche risorse che abbiamo. Tra i nuovi prodotti ci sono borse, alimentari, cosmesi, e la situazione sembra raddrizzarsi un po’. Limitiamo i danni perché ci sono grossi sacrifici da parte dei lavoratori, ma questo non può durare a lungo, anche perché non vogliamo che i produttori vedano calare ulteriormente gli ordini. Inoltre, dobbiamo tenere conto del fatto che le risorse finanziarie sono scarse, o molto costose. Accedere al credito è difficile. In aggiunta, le difficoltà delle botteghe riducono gli ordini agli importatori come noi, in una spirale negativa che si autoalimenta.
Il problema vero è che nella sua storia il commercio equo non aveva mai affrontato una crisi economica globale. Eppure, qualcosa da dire lo abbiamo, su questo sistema. E non possiamo affrontare la situazione con gli stessi meccanismi del sistema. Dobbiamo muoverci in maniera diversa, anche se non ne abbiamo esperienza. Credo che la strada passi per un livello di cooperazione più profondo tra i vari soggetti, una sfida che si gioca sul terreno dei valori, da dire e da praticare. Una sfida che ci chiede di pensare anche a nuovi modelli di governance, una cultura che nel commercio equo italiano non si è molto evoluta.
Questo infine ci porta a riflettere sulla necessità di una comunicazione collettiva.
Mariella Sabia, Equomondo (PZ). Siamo nate, nel 2005, dall’esperienza di un collettivo femminista. Infatti tra i soci fondatori c’è un solo uomo. Siamo tutte volontarie, anche se nel 2011 siamo riuscite a ricavare un part-time per un’amica “over 50” rimasta fuori dal mercato del lavoro. Tuttavia i costi della bottega restano alti: solo recentemente abbiamo finito di onorare i nostri debiti.
Il bilancio 2012 ha retto grazie ad alcune scelte che abbiamo fatto, come quella di vendere prodotti di aziende biologiche del nostro territorio. Abbiamo anche costituito un gruppo di acquisto solidale in bottega. Soprattutto, abbiamo fatto molte iniziative sia sulla promozione dei prodotti, sia su campagna nazionali (ad esempio contro la privatizzazione dell’acqua) o più locali (combattiamo contro le trivellazioni petrolifere). Abbiamo anche fatto scelte di sostenibilità ambientale, come vendere detersivi alla spina. Forse è questo quel che dovrebbe fare sempre più il commercio equo: c’è ancora molta strada da fare. —