Esteri / Approfondimento
Presentato il ricorso contro la legge che in Niger criminalizza la migrazione
Un gruppo di organizzazioni e giuristi africani ed europei ha interpellato la Corte di giustizia della Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale in merito all’impatto che la legge 36 del 2015, sostenuta dall’Unione europea, ha avuto sulla libera circolazione nella regione e sui diritti umani
Negli ultimi anni le persone migranti che attraversano il Niger per andare dall’Africa occidentale e subsahariana al Nord del continente sono sempre più vittime di detenzioni, deportazioni, molestie e tortura, anche a causa della legge 36 approvata dal governo nigerino nel 2015 a seguito delle pressioni dell’Unione europea al dichiarato scopo di combattere il traffico illecito dei migranti. Nel maggio di quest’anno l’Association Malienne des Expulsés e l’associazione Jeunesse nigérienne au service du développement durable (del network Alarm phone Sahara) -con il sostegno dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), del Network of University legal aid institutions (Nulai), dell’Organizzazione mondiale contro la tortura (Omct) e della Nile University Law Clinic- hanno presentato un ricorso alla Corte di giustizia della Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (Ecowas) contro questa legge, sostenendo che la sua applicazione abbia gravemente compromesso il diritto alla libera circolazione all’interno dell’area Ecowas e determinato la sistematica violazione dei diritti umani delle persone migranti nel Paese.
A partire dalla fine del 2020 il gruppo di associazioni, docenti e giuristi africani ed europei ha avviato infatti un lavoro comune sull’analisi dell’impatto che la legge ha avuto sulla libera circolazione nella regione, sui diritti umani dei migranti e sul tessuto socio-economico del Niger. “Gli interventi normativi e operativi volti al controllo delle frontiere in Africa occidentale sono stati promossi e finanziati dall’Unione europea in un contesto che pone al centro del suo sviluppo l’integrazione regionale e la libera circolazione di merci e persone -ha spiegato Adelaide Massimi, socia Asgi, durante la conferenza stampa tenuta il 22 settembre 2022 nella quale è stato presentato pubblicamente il ricorso-. Le politiche europee di controllo della migrazione, fatte proprie da alcuni degli Stati della Ecowas, hanno posto numerosi freni e ostacoli al raggiungimento dell’obiettivo della libertà di movimento nell’area. In questo senso la legge 36 del 2015 della Repubblica del Niger è di primaria importanza perché ha causato un aumento dei controlli sui cittadini comunitari lungo le frontiere del Paese e sui principali assi di mobilità interni e ha impedito di fatto la circolazione nella regione di Agadez, sottraendo all’esercizio del diritto alla libera circolazione un’intera porzione di territorio”.
Un aspetto questo da non sottovalutare: la libertà di movimento in Africa è considerata una componente chiave dell’unificazione e dello sviluppo del continente, tanto che nel 2018 l’Unione africana ha adottato un protocollo nel quale è stato esplicitato che il processo di implementazione della libertà di movimento debba iniziare proprio dalle comunità regionali.
“È quello che stava facendo la Ecowas fin dal 1975, con un accordo sottoscritto da 15 Paesi che prevede che i cittadini degli Stati firmatari possano muoversi liberamente all’interno dell’area, rispecchiando in questo modo la lunga tradizione di migrazione stagionale e circolare che caratterizza l’Africa occidentale, una delle più importanti aree di movimento interno delle persone del mondo”, ha ricordato Ulrich Stege, giurista, membro dell’International University College di Torino e socio di Asgi, tra i curatori del ricorso. Nel 2015 però, a seguito della psicosi tutta europea legata alla presunta “crisi dei rifugiati” (la maggior parte dei quali non provenivano dall’Africa), la Commissione europea ha proposto la sua “Agenda” sulle migrazioni, che vedeva e vede tuttora nella esternalizzazione delle frontiere una strategia chiave di gestione delle migrazioni: i suoi frutti sono, tra gli altri, il cosiddetto “accordo” con la Turchia del marzo 2016, la “partnership” con la Libia del febbraio 2017 e anche la legge 36 del Niger, una sorta di prologo. “In questo modo il Paese che è stato per secoli un punto di passaggio e uno snodo fondamentale per le persone in transito è diventato una trappola per chi viene respinto o tenta di raggiungere l’Algeria o la Libia”, ha aggiunto Stege.
È proprio questo il secondo, drammatico, aspetto evidenziato dai promotori del ricorso. Il sistema di controlli implementato per rendere concreta la legge prevede che le autorità nazionali richiedano in maniera sistematica requisiti aggiuntivi rispetto a quelli previsti dalla normativa per il transito, il mancato possesso dei quali (o il rifiuto di pagare somme di denaro richieste illegittimamente dalle autorità) comporta il respingimento o l’impossibilità di proseguire il viaggio. Allo stesso modo spesso questi controlli danno luogo a forme di detenzione ai fini dell’ottenimento di denaro da parte delle autorità di sicurezza, forme di violenza e, in alcuni casi, al ricorso alla tortura. Proprio su quest’ultimo aspetto si è concentrata l’Organizzazione mondiale contro la tortura (Omct) che nel dicembre del 2021 ha pubblicato un report dal titolo “Les routes de la torture”. “Le politiche di esternalizzazione partecipano e incoraggiano le pratiche di tortura nei Paesi africani. Il Niger è un caso emblematico -ha detto Isidore Collins dell’Omct-: è uno snodo fondamentale per le persone che si dirigono dall’Africa subsahariana verso il Maghreb e l’Europa ed è al centro delle politiche di esternalizzazione dell’Unione europea sia intesa come istituzione organica sia intesa come Stati presi individualmente. Queste politiche si traducono in memorandum sottoscritti con il governo del Niger o con altre istituzioni senza rispettare processi democratici e dando luogo a finanziamenti rilevanti che vanno a rinforzare i corpi di sicurezza e spingono all’adozione di leggi sull’immigrazione che incoraggiano la criminalizzazione della migrazione e del traffico di migranti. In linea teorica non sarebbe negativo, se non fosse che queste leggi provocano l’arresto e la detenzione di migranti senza che ci sia un reato, creano un sistema giuridico che si oppone alla libertà di movimento delle persone nello stesso momento in cui le costituzioni e gli accordi tra i Paesi africani lo dovrebbero garantire. In Niger, ad Agadez, persone che vengono dal Ciad, dal Burkina Faso, dal Mali, dal Gambia e dal Senegal sono vittime di estorsione, tortura, arresti arbitrari e vivono in condizioni disumane. Alla zona di frontiera tra Burkina Faso, Mali e Niger abbiamo raccolto testimonianze di persone che hanno subìto anche scariche elettriche per mano delle forze nigerine o burkinabè sostenute dalla Ue. Inoltre la pericolosità e la difficoltà dell’accesso al territorio del Niger spinge le persone a trovare nuove vie, nuove rotte che non sono presidiate dalle forze statali o civili ma dalle milizie. È proprio qui che i migranti diventano facili vittime di violenze sessuale, tortura, rapimenti, riduzione in schiavitù, tratta e sfruttamento”.
La pratica del sequestro a scopo di riscatto e della incarcerazione arbitraria è aumentata per esempio ad Agadez: i migranti sono più facilmente detenuti in modo non visibile nei ghetti, dove non hanno accesso a cure mediche o altri servizi. Inoltre, data la difficoltà del viaggio, i contrabbandieri cercano di trarre profitto dalla vendita delle persone in transito che vengono così sottoposte a ulteriori maltrattamenti. In questo modo si determina una lesione del diritto alla vita e di una serie di diritti a cui le persone migranti non hanno accesso proprio in ragione della loro progressiva clandestinizzazione e dei processi di detenzione ed espulsione sommari a cui sono sottoposte. Tra questi il diritto alla proprietà, alla salute, alla protezione della vita privata e famigliare, all’accesso all’educazione.
Come accennato, queste politiche hanno forti ripercussioni anche sulle condizioni di vita delle popolazioni. “In certe zone del Niger il transito delle persone ha da sempre rappresentato un’opportunità economica per autisti e tassisti, proprietari di auto o di case che venivano affittate, ristoratori e mercanti ambulanti, ma anche per le compagnie di comunicazione, le istituzioni bancarie, le stazioni e per i servizi pubblici erogati alle persone straniere dai municipi e dalle amministrazioni -ha spiegato Azizou Chehou di Alarm phone Sahara e di Jeunesse nigerienne au service du develpment durable-. Dopo l’adozione della legge 36/2015 le comunità hanno visto le loro entrate diminuire o addirittura affondare drasticamente perché la migrazione ha smesso di seguire la strada ufficiale. La migrazione regolare è diventata irregolare così come molte delle persone che giravano attorno a questa economia”.
Sembra evidente, sostengono i promotori del ricorso, che l’applicazione della contestata legge 36 abbia quindi comportato la violazione di fondamentali diritti umani, riconosciuti dalla Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli e da numerosi altri strumenti internazionali e che ci sia perciò un interesse pubblico dei cittadini della Ecowas e dei migranti da difendere nell’atto presentato alla Corte di giustizia. “Le pratiche implementate a seguito dell’applicazione della legge violano diverse norme e carte che il Niger ha sottoscritto -ha sottolineato Ibrahim Muhammad Mukhtar dell’Università di Djalla-, quello che chiediamo alla Corte è di attivarsi per chiedere al Niger di garantire la libertà di movimento ai cittadini della regione e di proteggere i migranti in transito nel Paese come previsto dalla legge internazionale”.
I ricorrenti sanno bene che anche in caso di condanna potrebbe essere difficile eseguire la sentenza, tuttavia, come ha ricordato Ulrich Stege, “per gli attori politici europei sarebbe un forte segnale se una Corte riconoscesse e condannasse gli impatti delle politiche di esternalizzazione sui Paesi africani. Non avrebbe magari effetti legali ma politici sì”. E questo sarebbe quanto mai necessario in un momento storico nel quale queste prassi europee sono in piena espansione. Il 15 luglio scorso, infatti, l’Agenzia europea Frontex, braccio operativo della politiche di esternalizzazione dell’Ue, in occasione della visita a Bruxelles del ministro dell’Interno nigerino Hamadou Adamou Souley, ha sottoscritto un accordo con la Missione dell’Unione europea per lo sviluppo delle capacità in Niger (Eucap Sahel Niger): un “partenariato operativo per la lotta al traffico di migranti che riflette esigenze condivise e mira a raggiungere gli obiettivi comuni stabiliti nel rinnovato Piano d’azione dell’Ue contro il traffico di migranti”. Sotto lo sguardo fiero del ministro e della commissaria europea agli Affari interni, Ylva Johansson.
Inoltre, come ha ricordato durante la conferenza stampa di presentazione del ricorso Usman Diarra dell’Associazione maliana della persone espulse, il 20 settembre Frontex e il governo della Mauritania hanno annunciato l’apertura di una cellula di analisi dei rischi dell’Agenzia a Nouakchott nell’ambito del progetto Afic (European Union-funded Africa-Frontex Intelligence Community). Lo stesso che ha portato alla medesima iniziativa a Lomé, in Togo, nel mese di luglio di quest’anno. Sono infatti 32 i Paesi africani coinvolti nell’Afic lanciato nel 2010 e definito dall’Agenzia europea “un elemento chiave nella lotta alla criminalità transfrontaliera e nella prevenzione delle minacce alla sicurezza che colpiscono i Paesi africani e l’Ue”. Un concetto di “sicurezza” lontano dai diritti delle persone.
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