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Praga, mille in sit-in. Prove di non violenza – Ae 11
Numero 11, novembre 2000Ritorniamo con questo articolo, che dà conto di un episodio inedito, su quanto è accaduto alla fine di settembre nelle strade e nelle piazze di Praga: in quei giorni, mentre nella capitale ceca era in corso l’Annual…
Ritorniamo con questo articolo, che dà conto di un episodio inedito, su quanto è accaduto alla fine di settembre nelle strade e nelle piazze di Praga: in quei giorni, mentre nella capitale ceca era in corso l’Annual Meeting di Banca mondiale e Fondo monetario internazionale, è andata in scena la protesta antiglobalizzazione del “popolo di Seattle”. Le immagini dei lacrimogeni e degli scontri con la polizia hanno fatto, come al solito in queste occasioni, il giro del mondo. Ma il “popolo di Seattle” non è solo questo, anzi. La cronaca che segue dimostra che il movimento che scende in piazza ha una larga componente pacifista, e che questa componente potrebbe anche crescere e ottenere risultati ben più consistenti rispetto a quelli, spettacolari ma di breve durata, che perseguono le frange più violente. Crediamo che questo contributo possa essere significativo alla vigilia del prossimo vertice di Nizza (e dei prevedibili “disordini” che seguiranno) e, soprattutto, in vista del controvertice da organizzare per il luglio del prossimo anno in Italia, quando a Genova si riunirà il G7.
Davanti a me gli scontri continuano. Mi dico: è finito tutto.
Ci hanno bloccati. Ora andremo via.
Con Valentina, l'amica di Bologna che era con me nel corteo rosa, quello colorato e musicante, ci spostiamo verso il fondo, verso i giardini, dove poco a poco ci ritroviamo tutti, i musicisti, le ragazze vestite da ape, gli americani con gli jambè, i danzatori di samba.
Osserviamo dall'esterno gli scontri, la polizia che avanza a fatica verso manifestanti vestiti di nero, con spranghe e passamontagna, che la fronteggiano a lungo.
Noi, lˆ dietro, ci sentiamo spiazzati, scoraggiati. Davvero non sappiamo che fare. Volevamo un corteo nonviolento e plurale, festoso, e ci ritroviamo cos“, ad osservare gli scontri.
Lentamente la gente se ne va, chi in una direzione, chi in un'altra, alcuni continuano a ballare. Gira voce che ci sia un'assemblea, che si debba andare verso il centro, che discuteremo il da farsi.
Sono le cinque del pomeriggio ed inizia a far freddo a Praga. Proprio mentre anche noi ci stiamo allontanando, rincontriamo Romana e Marek, due ragazzi cechi.
Marek è dell'assistenza legale, l'avevo incontrato due giorni prima alla stazione di Horni Dvorize, quando eravamo bloccati sul treno, il famoso treno italiano fermato per ore alla frontiera con l'Austria. Ci siamo rivisti al corteo e ci siamo persi al momento del lancio dei lacrimogeni, nel fuggi-fuggi generale. Scopro da Marek che la polizia lo ha schedato il giorno prima, mentre beveva un caffè in un bar del centro con un suo amico e parlavano di tutt'altro che dell'organizzazione dei cortei e della Banca mondiale. “Evidentemente mi seguivano da un po'”, dice. Allontanandoci, ci ritroviamo vicini al palazzo dei congressi, e ci arriva voce (in ceco) che il gruppo rosa stia continuando la sua protesta con un sit-in. Giriamo a destra e vediamo molte persone sedute a gambe incrociate, tutt'intorno al palazzo. Saranno almeno mille.
Ci sediamo con loro. Io chiedo informazioni a quello che mi sembra dirigere il tutto, che sorridendo mi risponde che non dirige proprio nulla, che lui è solo un ragazzo norvegese, che appartiene ad un gruppo nonviolento e che ora si vedrà il da farsi tutti insieme. é felice che ci siano anche degli italiani (in realtà siamo solo in due, ma non importa), e gli sembra curioso, pensava che tutti gli italiani fossero rimasti bloccati sul ponte, con le Tute Bianche. Invece noi siamo lì, sommerse da parlate del Nord.
In effetti, la maggior parte di questi ragazzi vengono dal Nord Europa, Norvegia, Svezia, Finlandia. Ma ci sono anche russi, cechi, statunitensi e spagnoli. Una ragazza americana mi dice del sit-in “It's great!” e poi torna a sedersi.
Davanti a noi c'è la polizia schierata a battaglia, con i transporter e gli idranti. Ma mi accorgo che è meno di prima. Mi accorgo anche che tra i dimostranti e la polizia si è instaurato in qualche maniera un rapporto. Loro rispondono con linguacce alle nostre linguacce e quando qualcuno si dirige verso di loro per parlare, lo ascoltano senza minacciare eccessivamente.
Non intendo affatto fare l'apologia della polizia ceca. So cosa ha fatto durante e (soprattutto) dopo il corteo.
Sono però felice di essere dove sono invece che altrove, a fuggire gli attacchi o a chiedermi se si potevano evitare.
A terra leggo le scritte tracciate con il gessetto, in inglese. Sono per i poliziotti e dicono che noi non li attaccheremo, che vogliamo solo star l“ seduti, che qualunque cosa faranno reagiremo in modo nonviolento. Non c'è nulla di provocatorio in quelle scritte. Mi sorprende, abituata a conoscere altri modi di agire, scoprire che sono solo comunicazioni, un tentativo di dialogo con il diverso, anche se molto diverso. Pian piano arriva qualcuno della stampa, ed anche qualche cittadino praghese viene a chiederci cosa facciamo, un paio si siedono anche con noi.
Ed è bello sentirsi accolti, non catalogati tutti come “quei terroristi di Seattle che vengono a turbare la quiete della nostra cittadina”. Penso, ancora una volta, che ci si può capire tra esseri umani, anche quando non si è d'accordo, anche quando si hanno miliardi di preconcetti l'uno sull'altro.
Lo scopo del sit-in è quello di bloccare dentro il palazzo dei congressi gli ultimi delegati: è detto chiaramente e ripetuto spesso.
I norvegesi, verso le sei e mezzo, distribuiscono piatti smaltati e minestra. Mangiamo tranquilli. Non siamo eccessivamente tesi. Poi incontriamo altri italiani, siamo in sette-otto adesso e ci sentiamo un po' a casa.
Mentre molti cantano, ci scambiamo le nostre impressioni. E siamo tutti stupiti di come viene condotto questo sit-in. Siamo affascinati. Ci viene comunicata ogni decisione, ci vengono indicati i vari responsabili dei gruppi e i rappresentanti di Inpeg, che hanno un pallino colorato sulle guance.
Alle sette, la polizia ci ordina di andarcene.
Si decide, ovviamente, di restare. E di non reagire.
A fasi alterne, loro mettono in moto i transporter e avanzano un poco. Noi ci stringiamo, cantiamo e gridiamo degli slogan, solo due o tre, condivisibili da tutti i presenti, in modo da non creare divisioni proprio in quel momento. Poi uno slogan prende il sopravvento: NON VIOLENCE. Lo traduciamo anche in ceco, perché pochi poliziotti parlano l'inglese: NEMENE NASILI. Andiamo avanti a gridarlo in continuazione. Mi accorgo di non avere più voce, ma anche che la polizia non avanza più: dovrebbe passare su dieci file di corpi che urlano nonviolenza e cantano e stanno stretti stretti. Questo non potrebbero proprio permetterselo, anche perché c'è presente qualche giornalista.
Penso a che cosa accadrebbe se invece di mille fossimo diecimila, ventimila, un'immensa folla pacifica e per˜ determinata. Penso a quanto potremmo ottenere agendo cos“ invece che bardandoci e rompendo le vetrine dei McDonald's. Potremmo ballare davanti al Mc fino allo sfinimento, potremmo distribuire minestre fino a sera in barba al McCheese e poi sederci e rimanere lì a fare linguacce e a cantare “We shall overcome”, alla faccia del signor Roland (che di sicuro conosceva poco o male la samba).
Una ragazza russa se ne va piangendo, seguita da altre amiche. Mi dice di non farcela più con il freddo e la tensione da gestire, ha paura che ci attacchino, e noi non potremmo rispondere in nessun modo e nemmeno coprirci o difenderci. Ha paura. Ed ha ragione.
Questo per dire che non è facile organizzare le cose in questo modo. Bisogna essere psicologicamente pronti. Anch'io ho avuto paura, molta, soprattutto dopo.
Infatti proprio in quel momento, alle nostre spalle arrivano gruppi di altri manifestanti, più o meno cento-centocinquanta persone.
All'inizio siamo felici, crediamo che vengano a sostenerci. Ma poi lentamente siamo costretti a ricrederci. Sono vestiti di nero, portano bastoni e avanzano urlandoci di spostarci. Sono gli stessi che prima si scontravano con la polizia e che con Romana e Marek guardavamo con amarezza.
La polizia minaccia ancora di caricare e questa volta sembra fare sul serio. Qui davvero abbiamo paura: ci troviamo tra due fuochi, ora, da dietro i ragazzi con le spranghe e i sampietrini (con i quali colpiscono una ragazza che è seduta con noi) e davanti la polizia con gli idranti.
Ci stringiamo ancora di più e gridiamo più forte. NEMENE NASILI.
Percepisco la paura del ragazzo seduto accanto a me, ma anche il suo calore umano. Sento l'energia degli altri. é una sensazione splendida e nuova, qualcosa che ti dona forza. Non mi sento scissa dagli altri, sola o isolata. Mi sento CON. E so che se avessi qualcosa da ridire sulla gestione della faccenda o sui metodi, o su altro, sarei ascoltata, si discuterebbe, e che questo faciliterebbe e amplierebbe anche le mie capacità di ascolto ed accoglienza dell'”altro”.
Parlandone con gli italiani presenti, dopo, ci rendiamo conto di aver provato tutti sensazioni simili.
Per un'ora andiamo avanti a gridare cos“ e restiamo sottobraccio. Finche da dietro non iniziano ad andarsene, a piccoli gruppi. Anche loro, per scontrarsi cercando di raggiungere il palazzo, avrebbero dovuto passare sulle file dei nostri corpi.
La polizia chiede di parlarci, vuole sapere che faremo, minaccia ancora di caricare.
Allora viene indetta una riunione. Ad ogni gruppo è chiesto un delegato. Lo domandano anche a noi italiani, anche se siamo solo in sette ed alquanto spaesati. Restiamo stupiti da questo invito, noi che l“ siamo cos“ pochi.
Vado. Partecipo alla riunione.
Ed è stata davvero una fortuna. Lì ho scoperto l'importanza del linguaggio gestuale ed ho sperimentato come si possano prendere decisioni collettivamente e rispettandosi. Il fatto che avessero chiesto un delegato al nostro piccolo gruppo era già segno di voler decidere INSIEME.
Per linguaggio gestuale intendo quello adottato anche da Inpeg nelle sue riunioni, che si basa su quattro gesti fondamentali e che permette di manifestare velocemente il proprio accordo e disaccordo, di anteporre a tutto i cosiddetti “problemi tecnici” (ad esempio: che fare se la polizia ci sta attaccando?) e di perdere meno tempo in applausi, grida od insulti. Si discute in inglese, e quelli di Inpeg ci danno delucidazioni sulla situazione. Insieme, decidiamo di rimanere seduti, anzi di serrarci ancora di più e di spostarci lentamente, alzandoci insieme, se la situazione dovesse farsi troppo critica. Ora dobbiamo riferire ai gruppi le decisioni prese.
Ma c'è un colpo di scena. Sono le otto e mezzo e ci viene detto che i delegati sono riusciti ad uscire dal sotterraneo del palazzo. Li abbiamo bloccati dentro per un po', ma ora è inutile rimanere lì seduti.
Decidiamo di andarcene all'Opera, dove sono andati i delegati e, cantando, ci spostiamo a piccoli gruppetti.
Noi italiani sappiamo che dovremo ripartire quella sera, e ci distacchiamo a malincuore dal gruppo. Saluto Romana e Marek, saluto gli altri che ho conosciuto. Sono dispiaciuta, avrei voluto rimanere con loro, ascoltare le assemblee, ma il treno sarebbe partito senza di me. Però sono anche contenta, per tutto quello che ho scoperto. Ed ho voglia di tornare e di raccontare quanto ho vissuto, i metodi nonviolenti, il linguaggio dei gesti, le danze e i colori.
Nel tornare allo stadio passiamo da piazza san Venceslao e vediamo le vetrine rotte, la polizia che attacca, la gente che fugge. C'è nebbia, fa freddo, ci tirano i lacrimogeni e questa volta sono più forti di prima. Scappiamo da una via laterale e, stanchi, arriviamo allo stadio.
Alle due di notte si parte. Addio Praga.
Ma non è finita. Sul treno iniziamo a discutere, noi che siamo capitati a quel sit-in, su come potrebbe essere bello fare cose simili anche a casa nostra. Raccontiamo l'esperienza agli amici che erano altrove, ci scambiamo le mail. Così la voce e le idee corrono.
Arrivata a Milano ho i numeri di almeno venti persone.
Dopo quel viaggio in treno ci siamo incontrati diverse volte. E il gruppo è cresciuto invece di diminuire. Abbiamo discusso di Praga e di come scendere in piazza in modo colorato e nonviolento alle prossime manifestazioni globali, inizialmente da soli, poi aprendoci ad altri che a Praga non c'erano.
Alla fine di ottobre, al centro sociale Torchiera, ci ritroviamo ancora e emergono esigenze e proposte nuove. C'è chi vuole approfondire i temi della nonviolenza, chi quelli della critica all'economia vigente, chi ha in mente danze popolari, chi suona il sassofono e chi nelle manifestazioni vorrebbe piantare alberi nelle piazze…
Mi accorgo, ancora, felice, che CI SIAMO, anche qui, nella “grigia Milano”, e che potremo, insieme, costruire qualcosa di nuovo e di bello.